«Precisi interessi materiali spingono i leader europei a perpetuare il conflitto in Ucraina»
Maria Pappini intervista Thomas Fazi
Il saggista italo-inglese espone le ragioni per cui, a suo avviso, la guerra non termina
In quest’intervista, Thomas Fazi espone la sua opinione sulla guerra in Ucraina. L’analista smonta pezzo per pezzo la narrazione ufficiale, denunciando il ruolo delle élite europee nel prolungamento del conflitto e svelando le forze che ne determinano le scelte: dai legami strutturali tra Bruxelles e Washington al potere del complesso militare-industriale. Secondo Fazi, l’Europa avrebbe tutto da guadagnare da una fine della guerra, ma continua a sostenere l’escalation per motivi economici, politici e ideologici. L’analista delinea una rete di interessi profondi, che coinvolge anche i grandi fondi di investimento come BlackRock, e condiziona le politiche europee. Attraverso una riflessione provocatoria e accurata, Fazi mette in luce le gravi conseguenze sociali di questa strategia: austerità, tagli al welfare, militarizzazione della società e il rischio crescente di una deriva autoritaria. Un’analisi spiazzante su come il continente stia sacrificando il proprio futuro sull’altare di una strategia profondamente autolesionista. «Esiste un legame strutturale tra il grande capitale europeo e il grande capitale statunitense, in particolare quello di Black Rock». L’analista italo-inglese Thomas Fazi è tranchant. Figlio dell’editore Elido Fazi, 42 anni, attento osservatore delle dinamiche europee, mette in luce le contraddizioni della politica europea sulla guerra in Ucraina.
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Lei ha sostenuto che la fine della guerra in Ucraina sarebbe nell’interesse oggettivo dell’Europa. Cosa pensa dell’approccio delle istituzioni europee alla guerra in Ucraina, soprattutto alla luce delle conseguenze economiche e sociali per il continente?
«La domanda a cui molti di noi stanno cercando di dare una risposta è: come spiegare la reazione apparentemente folle e assurda delle élite europee ai tentativi – per quanto goffi e, tra l’altro, finora non di grande successo – di Donald Trump di chiudere il conflitto in Ucraina? Un conflitto che ha visto i leader europei rispondere in maniera del tutto isterica, come se non ci fosse prospettiva che li terrorizzasse di più al mondo di quella di vedere quel conflitto concludersi in qualche modo. Da un punto di vista razionale, è un atteggiamento che non ha alcun senso rispetto a quelli che potremmo definire gli interessi generali del continente. È evidente che, dal punto di vista degli interessi generali e collettivi europei, l’Europa nel suo complesso avrebbe solo da guadagnarci dalla fine del conflitto».
Ne spieghi i motivi.
«Se si cerca di individuare quelli che possono definirsi gli interessi economici, strategici e geopolitici dell’Europa, da un punto di vista più o meno obiettivo – e mi pare non sia controverso affermarlo –, sarebbe nell’interesse dei popoli europei che la guerra finisse. Ha avuto conseguenze devastanti, non solo in primis per l’Ucraina e gli ucraini, ma anche per gli europei e per l’economia europea, come sappiamo bene. L’economia europea ha subito contraccolpi pesantissimi, in parte a causa del conflitto in quanto tale, ma in buona misura per le sanzioni – o, forse sarebbe meglio definirle autosanzioni – imposte dall’Europa alla Russia».
Perché le definisce autosanzioni?
«Si tratta di misure autoinflitte, visto che hanno avuto un impatto molto più pesante sull’Europa che sulla Russia, come è noto. L’inflazione, l’aumento dei costi energetici, dei prezzi di molti beni primari: sono tutti fattori che hanno gravato in modo drammatico sui popoli europei, in particolare in certi Paesi e tra le fasce più marginalizzate della popolazione. Quindi, da un punto di vista strettamente economico, l’interesse oggettivo e generale dell’Europa consisterebbe nella fine di questo conflitto, nella ri-normalizzazione dei rapporti economici con la Russia, nella riapertura dei flussi energetici e nell’abolizione delle sanzioni. Invece, considerata insieme ai piani di riarmo dell’Ue, la situazione suggerisce una militarizzazione capillare e sistemica della società – qualcosa che nei prossimi anni diventerà il paradigma dominante in Europa: tutte le sfere della vita – politica, economica, sociale, culturale e scientifica — verranno subordinate al presunto obiettivo della sicurezza nazionale, o meglio, sovranazionale».
Perché invece l’Europa ha scelto la strada del riarmo e dell’escalation? Un approccio che sembra contraddire qualsiasi logica diplomatica…
«La normalizzazione gioverebbe in maniera oggettiva all’economia europea, ma soprattutto ai popoli e alle imprese del continente. Più in generale, dal punto di vista della sicurezza collettiva degli europei, mi sembra evidente che trovarsi in uno stato di guerra per procura contro la più grande potenza nucleare del mondo – ovvero la situazione in cui versiamo da tre anni – non sia qualcosa che faccia dormire sonni tranquilli. Siamo in una condizione estremamente pericolosa. Da tre anni, viviamo una situazione che, anzi, è peggiorata proprio a causa dei tentativi espliciti della Nato di incrementare l’escalation militare contro la Russia. È evidente che l’interesse dei popoli europei sarebbe riaprire canali diplomatici, allentare le tensioni e porre fine al conflitto di fatto tra Nato e Russia ancora in corso. Normalizzare i rapporti e costruire una nuova architettura di sicurezza europea che includa anche la Russia è, a mio avviso, nell’interesse generale. Ecco perché, al di là delle opinioni su Trump, i suoi tentativi di chiudere il conflitto in Ucraina avrebbero dovuto essere accolti positivamente dall’Europa. Invece, gli europei hanno scelto il riarmo – peraltro finanziato a debito, una mossa economicamente perdente. Ma anche ammesso che ci riescano, prima o poi quelle armi dovranno pur essere usate: non credo che le producano per lasciarle negli arsenali.»
Questa strategia può portare a un’escalation diretta contro la Russia, magari attraverso un coinvolgimento sempre più esplicito della Nato? O, al contrario, l’Europa sta semplicemente prolungando una guerra di logoramento senza via d’uscita?
«Innanzitutto, c’è da dire che l’Europa non solo ha lanciato questo piano di riarmo, ma – cosa ancor più grave – ha fatto di tutto, e continua a farlo, per sabotare il processo di pace in Ucraina. Questo mi sembra il suo contributo peggiore in questa fase, ed è l’aspetto più inquietante. È evidente che gli europei hanno ostacolato ogni tentativo di pace, in piena sintonia con Zelensky, anch’egli interessato, per ragioni diverse, a prolungare il conflitto il più possibile. Ogni volta che Trump ha provato ad aprire canali diplomatici con la Russia o a gettare le basi per un cessate il fuoco, gli europei sono intervenuti in modo brutale, rigettando le proposte e imponendo condizioni in totale contraddizione con quelle russe – come il rifiuto di qualsiasi compromesso territoriale o l’insistenza sul continuare a inviare armi. Tutte richieste volutamente irricevibili per Mosca, come gli europei sapevano bene. Lo stesso vale per le proposte di inviare “truppe di pace” europee, che di fatto avrebbero significato una presenza Nato stabile in Ucraina: esattamente il pretesto che ha spinto Putin a iniziare la guerra. Sono tentativi che non hanno ancora portato a un risultato concreto, anche a causa delle carenze diplomatiche di Trump e del suo team, che sembrano approcciare il conflitto come una sfida da wrestling, non come una partita a scacchi. Per questo, la guerra continuerà nel breve termine. Gli europei, ovviamente, non possono ribaltare militarmente la situazione (l’Ucraina ha perso, nonostante il sostegno massiccio degli USA, figuriamoci con il solo aiuto europeo). Ma possono prolungare il conflitto. La domanda è: perché perseguono politiche così autolesioniste? Le ragioni sono molteplici. C’è una componente quasi psico-politica: le élite europee, cresciute nell’ideologia transatlantica, si vedono ormai come vassalli degli Stati Uniti».
Se gli interessi materiali sono così radicati, siamo destinati a un’escalation senza ritorno? E come si concilia questa dinamica con il tentativo di Trump di smantellare il sistema che alimenta la guerra, considerando la resistenza interna negli USA e l’ostinazione europea?
«L’Europa si trova in una situazione paradossale: con il cambio di leadership americana, il nuovo “capo” ha cominciato a umiliarla proprio per la sua servile fedeltà all’amministrazione precedente. Questa dinamica sta provocando reazioni psicologiche scomposte, in parte comprensibili, ma si tratta solo dell’aspetto più superficiale. Anche in termini comunicativi, abbiamo assistito subito all’emergere di una narrazione totalizzante: era dovere morale dell’Occidente sostenere la lotta degli ucraini per la libertà e la democrazia contro la Russia e il suo presidente malvagio. Tuttavia, ora che appare sempre più chiaro che l’Ucraina sta perdendo la guerra, e mentre il mondo osserva il tentativo di Trump di negoziare la pace, le élite europee stanno ricalibrando la narrazione: non è più solo in gioco la sopravvivenza dell’Ucraina, ma quella dell’Europa intera. La minaccia non è più “laggiù”, ma “qui a casa”. Ci viene detto che la Russia non solo si sta preparando ad attaccare l’Europa, ma sta già conducendo un’ampia gamma di attacchi ibridi contro l’Ue, che vanno dai cyberattacchi alle campagne di disinformazione, fino all’interferenza elettorale».
Ma perché i leader europei hanno alzato il livello dello scontro?
«A un livello più profondo, ci sono precisi interessi materiali. Sul piano politico, hanno investito così massicciamente nella narrazione bellica da non poter più compiere un’inversione a U senza dover ammettere errori catastrofici: aver provocato la distruzione dell’Ucraina, causato centinaia di migliaia di vittime, e danneggiato l’economia europea per una guerra che – come lo stesso Trump ha riconosciuto – è stata scatenata dalla Nato, non da un’“invasione non provocata” come raccontato per tre anni. Un simile mea culpa sarebbe politicamente insostenibile per élite già in crisi di consenso, ulteriormente indebolite dall’ascesa dei movimenti populisti. A questi fattori si aggiungono pressioni da settori dell’apparato americano: nonostante Trump tenti di smantellare il Deep State, lo Stato profondo, gran parte dell’establishment militare e della sicurezza nazionale rimane in mani transatlantiche, e potrebbe coordinarsi con gli europei per sabotare sia i negoziati di pace che la stessa presidenza Trump. Infine, non vanno sottovalutati gli interessi economici: il complesso militare-industriale (americano ed europeo) trae enormi vantaggi dal conflitto, specie ora con il piano di riarmo europeo da 800 miliardi di euro. Anche se difficilmente realizzeranno interamente questo programma, la sola intenzione è rivelatrice. Quando parliamo di complesso militare-industriale, tendiamo a pensare soprattutto a quello americano – il più potente al mondo – ma la sua controparte europea è altrettanto determinata a sfruttare questa guerra».
Lei ritiene che l’Europa stia consapevolmente scegliendo di privilegiare la guerra sul benessere dei cittadini? O è semplicemente vittima di una dinamica economica e politica ormai fuori controllo?
«Per rispondere è sufficiente osservare l’andamento delle azioni delle principali aziende europee della difesa: sono schizzate alle stelle da quando è iniziato il conflitto in Ucraina, con un’ulteriore impennata dopo l’annuncio del piano di riarmo di Ursula Von der Leyen. Queste aziende stanno già beneficiando enormemente da tali politiche, e i vantaggi cresceranno ulteriormente – a scapito di altri settori dell’economia europea. Assisteremo così a un enorme trasferimento di ricchezza verso il complesso militare-industriale. Gran parte di questi fondi, poi, sarà raccolta attraverso il debito, il che comporterà un’inevitabile stretta sui bilanci pubblici degli Stati europei. Possiamo quindi attenderci una nuova fase di austerity: tagli allo Stato sociale, al welfare, alle pensioni, all’istruzione e alla sanità – tutto ciò di cui abbiamo bisogno per vivere dignitosamente – sacrificato in nome dell’industria della guerra e della morte».
Qual è il ruolo delle Big Three (BlackRock, Vanguard, and State Street, le tre più grosse società di investimento al mondo) nel progetto di riarmo dell’Europa?
«Sicuramente anche questi attori giocano un ruolo importante. Esiste un legame strutturale tra il grande capitale europeo e il grande capitale statunitense, in particolare quello rappresentato dai grandi fondi di investimento, BlackRock in primis, che ha una presenza estremamente capillare nel tessuto economico europeo. Il caso dell’Italia particolarmente eclatante: BlackRock è presente nel capitale di tutte le principali aziende italiane quotate in Borsa. Lo stesso vale anche per altri Paesi europei. Questi fondi, quindi, hanno tutto l’interesse a incrementare in generale le spese militari e a lubrificare ulteriormente il complesso militare industriale europeo, in cui sono coinvolti. Per recuperare i loro investimenti, questi fondi puntano sul processo di ricostruzione dell’Ucraina. Anche se i rapporti tra questi fondi di investimento e Trump non sono idilliaci, vorranno avere un ruolo importante quando si tratterà di spartirsi l’Ucraina. Più in generale, il legame tra questi fondi di investimento e il capitale europeo è assolutamente fortissimo, così come la loro influenza politica. Ecco perché le élite politiche europee non stanno agendo semplicemente in autonomia, ma di concerto non solo con blocchi del potere politico profondo statunitense, ma anche con pezzi di potere finanziario ed economico».
Ma la Russia rappresenta davvero una minaccia?
«La Russia è la giustificazione ufficiale di queste politiche di riarmo: si sostiene che intenderebbe attaccare l’Europa, invadere i suoi confini orientali, o addirittura spingersi fino a Berlino o Parigi. Sono scenari fantascientifici. Non esiste alcun motivo – logico, strategico o geopolitico – per credere che la Russia abbia interessi o mezzi per farlo. Siamo dunque di fronte alla costruzione di un nemico basata su illazioni infondate, esattamente come quando si affermava che Saddam Hussein potesse colpire Londra in 45 minuti. È pura propaganda bellicista: allora serviva a giustificare un attacco, oggi una “difesa preventiva” contro una minaccia inesistente. L’unico rischio reale è che, in un impeto di follia, qualcuno in Russia decida di lanciare testate nucleari sulle capitali europee. In tal caso, non potremmo farci nulla: i nuovi missili Oreshnik viaggiano a velocità ipersoniche e nessun sistema difensivo è in grado di bloccarli. Potremmo solo replicare ricorrendo ad armi nucleari, ma al prezzo di porre fine alla vita sul pianeta. Per quanto politicamente improbabile oggi, per questo l’Europa dovrebbe riavviare immediatamente i rapporti diplomatici con Mosca, sul modello del processo di Helsinki negli anni Settanta. L’obiettivo? Un’architettura di sicurezza condivisa che minimizzi il rischio di conflitto. Questa è l’unica via per garantire la sopravvivenza europea: non il riarmo – che anzi aggrava le tensioni – ma la dissoluzione della Nato (ormai priva di ragion d’essere) e la creazione di un nuovo sistema di sicurezza che includa la Russia. Non si tratta di disarmare, ma di evitare una corsa agli armamenti autolesionista. È la strada opposta alle politiche militariste dell’Ue. E l’unica per cui dovrebbero battersi tutti i cittadini che vogliono scongiurare un’apocalisse nucleare».
Comments
Se sono nel capitale di tutte le grandi aziende quotate in borsa hanno anche interesse che l'economia vada bene, con la pace guadagnerebbero meno con le industrie di armamenti, ma molto di più con tutte le altre.
Se poi intendono guadagnare con la ricostruzione dell'Ucraina dovrebbero cercare la pace, la ricostruzione inizia solo dopo la fine della guerra.
Non un rischio, ma una speranza.