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La libertà dell’animo tradita: un dialogo con Schiller
di Lorenzo Graziani
Molti filosofi contemporanei si sono interrogati sulle ragioni del nostro strano comportamento nei confronti delle opere d’arte che suscitano emozioni negative come tristezza, rabbia o paura. Se nella vita quotidiana tendiamo a evitare queste emozioni, perché invece le cerchiamo nell’arte?[1] Questa apparente contraddizione è stata chiamata paradosso della tragedia – una formula che dice molto più sulla nostra difficoltà a capire il tragico che sul tragico stesso. Forse è davvero arduo spiegare il fascino di opere soltanto tristi o spaventose senza invocare una presunta attrazione per il negativo.[2] Ma nel caso della tragedia – almeno un tempo – il fascino nasceva altrove. Perché un’opera sia davvero tragica, infatti, non basta che rappresenti un’umanità sofferente: deve anche offrire un guadagno cognitivo sul dolore.
Questo processo, probabilmente, era piuttosto evidente per i Greci, tanto da non richiedere ulteriori spiegazioni. La nozione stessa di catarsi pone ancora oggi non pochi problemi interpretativi, forse proprio perché Aristotele le dedica solo poche e rapide parole, dando evidentemente per scontata una dinamica che per lui e i suoi contemporanei doveva risultare immediata. Iniziava a non essere più così evidente tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, periodo in cui gli scritti di Hölderlin e Schiller tornano più volte proprio su questo tema. Ma quella fu anche l’ultima stagione in cui quello che sarà poi chiamato paradosso della tragedia è stato affrontato in termini propriamente tragici.
Tragico è l’uomo libero
È proprio Schiller, in due brevi ma densissimi testi – Sul patetico e Sul sublime – a offrirci forse la riflessione più lucida su questo tema. L’artista tragico utilizza il pathos per suscitare nel pubblico un sentimento sublime, una “sintesi tra un senso di pena […] e un senso di letizia”.[3] Poiché un medesimo oggetto non può provocare emozioni opposte, Schiller interpreta questa ambivalenza come la prova dell’esistenza, in noi, di due nature distinte: una sensibile e una razionale.
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Benjamin e Brecht amici diversi
di Roberto Gilodi
Ci sono scritture che si calano nelle vite altrui con l’entusiasmo creativo dell’invenzione e della narrazione, con la certezza, talora con la presunzione, che per capire le azioni umane non bastino le ricostruzioni fattuali della storia ma sia necessario esplorare le ragioni soggettive delle azioni e i sentimenti che le hanno accompagnate. Manzoni, nella celebre Lettera a Monsieur Chauvet, si chiedeva: “alla fin fine cosa ci dà la storia? Ci dà avvenimenti che, per così dire, sono conosciuti soltanto nel loro esterno; ci dà ciò che gli uomini hanno fatto. Ma quel che essi hanno pensato, i sentimenti che hanno accompagnato le loro decisioni e i loro progetti, i loro successi e i loro scacchi; i discorsi coi quali hanno fatto prevalere, o hanno tentato di far prevalere, le loro passioni e le loro volontà su altre passioni, o su altre volontà, coi quali hanno espresso la loro collera, han dato sfogo alla loro tristezza, coi quali, in una parola hanno rivelato la loro personalità: tutto questo, o quasi, la storia lo passa sotto silenzio; e tutto questo è invece dominio della poesia.”
C’è tuttavia un altro approccio alle vite altrui, mosso anch’esso dal bisogno di guardare al di là delle geometrie complessive dell’accadere, che non si accontenta di osservare dalla distanza le cause e gli effetti delle azioni umane pur avendo in comune con il lavoro dello storico la ricerca documentaria. Anche questo tipo di indagine vuole sondare le ragioni profonde, soggettive, ma le ricerca nei dettagli meno appariscenti, nelle scritture secondarie, spesso accidentali, improvvisate.
È il metodo di lavoro dell’archivista. Di colui che raccoglie e ordina testimonianze della più svariata provenienza: ad esempio le lettere che si scambiano i protagonisti oggetto dell’indagine, oppure ciò che altri hanno scritto su di essi documentandone la vita. Si tratta molto spesso di lacerti, di appunti di lavoro scritti di fretta su un pezzo di carta, annotazioni su questioni che poi saranno sviluppate in seguito, resoconti di dialoghi e incontri, articoli d’occasione, brevi appunti di viaggio, o trascrizioni cifrate di letture indiziarie di città e mondi sociali, di edifici pubblici e privati, di opere d’arte.
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"La pelle", di Maurizio Ferraris
Recensione di Giulio Bonali
Maurizio Ferraris: La pelle. Che cosa significa pensare nell'epoca dell'intelligenza artificiale, Il Mulino, 2025
Il libro di Maurizio Ferraris “La pelle” sta avendo molto successo anche perché, forse un po' "furbescamente" per un professore di filosofia, tratta la questione dei rapporti mente-materia (cerebrale) partendo dalla realtà della cosiddetta intelligenza artificiale (ovviamente ben venga la furbizia, se serve a interessare alla filosofia della mente un pubblico più vasto dei soliti frequentatori abituali di nicchie culturali!).
Circa l’ intelligenza artificiale personalmente ritengo interessante soprattutto la questione teorica pura o di principio della mera possibilità “astratta” che macchine elaboratrici di dati e magari semoventi ed "attive" (robot) siano dotate di intelligenza e di pensiero cosciente; questo anche perché ritengo impossibile di fatto la realizzazione di artefatti che possano effettivamente porre il problema in pratica, data l' enorme complessità dei meccanismi che sarebbero a ciò necessari, che ritengo abissalmente, e anzi sideralmente, lontana da quella propria della "intelligenza artificiale" attualmente presente e pure di quella realisticamente futuribile, anche in tempi remotissimi.
Invece Ferraris la affronta in questo volume da un punto di vista innanzitutto pratico, come un problema "di fatto" piuttosto che “di diritto”, probabilmente anche perché è fortemente interessato a confutare gli sproloqui di numerosi informatici, tecnologi, scienziati cognitivi, filosofi della mente (più o meno neo- oppure vetero- positivisti-scientisti), ciarlatani, giornalisti, politicanti, ideologi vari, circa il preteso superamento dell' umanità-animalità naturale da parte delle “macchine intelligenti” reali odierne o almeno prossimamente future, nonché il preteso "transumanesimo", concetto per me vago e irrealistico, campato in aria, non affatto serio ma casomai tragicomico.
La sua liquidazione di queste iperboliche pretese circa l’ attuale IA mi sembra comunque pienamente condivisibile, anche se dissento da gran parte delle argomentazioni di filosofia della mente, biologia, neurologia e scienze cognitive con cui la argomenta.
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Goffredo Fofi
di Salvatore Bravo
In questi giorni è venuto a mancare Goffredo Fofi. Sulle TV di Stato la notizia non è stata riportata. I libertari non trovano spazio nei media ufficiali privati e pubblici. Nei media statali l’informazione è stata sostituita dalle canzonette e dalla pubblicità dei concerti e delle produzioni musicali di cantanti, il cui vuoto siderale è abissale. In questo contesto in stile “panem et circenses” uomini come Goffredo Fofi non trovano spazio. La cultura della cancellazione avanza in una miriadi di modi. Si cancellano i vivi e i morti per trasformarli in “non nati”. Questo è il tempo del capitalismo senza limiti. Il deserto avanza annichilendo la memoria. Goffredo Fofi lottò per la democrazia radicale/reale e la sua vita è un testo da cui emergono domande profonde a cui diede risposte sperimentando l’alternativa al capitalismo. Uomini di tale valore politico sono presenze dialettiche, che il sistema capitale deve seppellire nel deserto delle canzonette e delle vuote parole senza concetto. Fu un cittadino militante in una realtà che produce in serie “consumatori” che possono assistere ad immagini di Gaza fumante, tra le cui macerie si alzano le urla di donne e bambini, a cui succedono con somma indifferenza gli spot agli spettacoli di cantanti di ultima generazione che inneggiano “all’amore e al successo nelle calde estati estive”. Goffredo Fofi ha donato la sua esistenza contro tutto questo. Democrazia è dignità di ogni essere umano, nel nostro tempo, invece, sono il denaro e il potere a dare rilevanza, così muore la democrazia e il pensiero politico. Goffredo Fofi ci rammenta che non è un destino, ma ciascuno di noi può testimoniare l’alternativa nel presente senza delegare ad altri l’alternativa. Ciascuno di noi può diventare con la sua storia un modello piccolo o grande che testimonia che un altro modo di vivere è possibile. Solo così si difende la dignità di tutti gli esseri umani dal consumismo pianificato che ha consumato anche “l’essere” e lo ha sostituito con la società dello spettacolo, nella quale attori e spettatori recitano un ruolo stabilito da potenze sempre più distanti e anonime
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La fantascienza come profezia
La SF alla prova del presente
di Giulia Abbate
Riflettendo sullo stato dell’arte della letteratura di fantascienza, Giulia Abbate, scrittrice ed esperta del genere, fa il punto sul rapporto tra realtà e inquietudine speculativa, tra futuro inverato e critica sociale. E ripercorre la pista battuta da Mario Tronti, quella che coniuga politica e profezia, per illuminare il futuro critico della SF, ora che è divenuta «la star delle feste perbene». Un testo acuto e critico, come Abbate sa fare.
* * * *
Un genere della modernità
«Devo forse essere soltanto un’arancia a orologeria?». Anthony Burgess, Un’arancia a orologeria [1].
La fantascienza nasce con la civiltà industriale, dall’inquietudine suscitata dall’avanzamento tecnologico oltre limiti ritenuti insuperabili – è questo, ad esempio, il tema centrale di Frankenstein di Mary Shelley, opera fondativa del genere. Oltre a misurarsi con la tecnologia e la hybris della scienza, la fantascienza si confronta con la società di massa, con i lati oscuri delle utopie, con la propaganda del potere, elaborando visioni distopiche memorabili.
«La fantascienza è mitografia della scienza», afferma Franco Ricciardiello. Secondo Valerio Evangelisti, «la fantascienza è il genere narrativo che ha per oggetto i sogni e gli incubi generati dallo sviluppo tecnologico, scientifico e sociale». Una definizione di merito, che può essere arricchita da una nota di metodo: la fantascienza procede nella sua narrazione in modo razionale, sviluppando metodicamente le premesse poste dall’idea peculiare, che Darko Suvin chiama novum.
Il novum è l’idea di base su cui si fonda la traslazione fantascientifica: un cruciale «e se?», il cui sviluppo avviene in modo sistematico, non attraverso simbolismi o fantasie in senso lato, ma mediante il racconto delle implicazioni di quell’idea e la cura per la verosimiglianza dei suoi sviluppi. Inoltre, la fantascienza non si esprime in forme filosofiche o saggistiche, ma si realizza nella scrittura narrativa, e per di più «profana» – secondo la definizione di Northrop Frye – ovvero romanzesca e popolare.
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Goffredo Fofi, l’ultimo rompicoglioni
di Vincenzo Morvillo
Goffredo Fofi ci ha lasciati venerdì. È stata la prima notizia che ho appreso aprendo il cellulare. Intellettuale eclettico e sfaccettatato, radicale e marxista eterodosso, Fofi è stato saggista, attivista, giornalista e critico cinematografico, letterario e teatrale italiano.
In tanti lo stanno ricordando in queste ore. Molti utilizzando parole di circostanza e format biografici. Pochi tracciandone ritratti sinceri e affettuosi.
Chi scrive vuole ricordare Goffredo per come lo ha conosciuto. Brevemente, di persona, una sera. Molto attraverso la sua scrittura, le sue riviste, le sue recensioni, i suoi testi.
Correva l’anno 1998, se la memoria non m’inganna. Lavoravo come critico ormaida qualche anno e avevo anche tenuto un corso all’Accademia di Belle Arti insieme all’amico regista Francesco Saponaro, presso la cattedra di Storia e Tecnica della Regia del professor Giulio Baffi, critico teatrale di Repubblica e mio mentore e amico.
All’epoca conoscevo Goffredo Fofi solo di nome per averne frequentato la scrittura felice e articolata, l’acutissima analisi critica e inesorabile come un giudizio divino, durante la lettura delle sue numerosissime recensioni cinematografiche, teatrali, letterarie.
O delle riviste da lui create: Ombre rosse e Quaderni Piacentini (nate negli anni ’60 e le cui pubblicazioni sono proseguite fino ai primi anni ’80, e di cui ero riuscito a procurarmi alcuni numeri grazie ad amici teatranti che avevano attraversato gli anni ’70); ma principalmente Linea d’ombra, a me più vicina come epoca essendo nata proprio negli anni ’80.
Lo avevo incrociato in più di un’occasione, durante convegni e iniziative politico-cullturali. In luoghi istituzionali e convenzionalmente borghesi o in spazi in cui l’antagonismo giovanile e il pensiero divergente sperimentavano nuove pratiche associative e comunitarie, in quegli anni ’90 che provavano a reagire alla straripante affermazione della dottrina neoliberista seguita alla caduta dell’Urss.
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Margherita da Trento, sorella, eretica, rivoluzionaria: un ritratto contro l'oscurantismo
di Fabrizio Bozzetti
Fabrizio Bozzetti firma un ritratto potente di una delle più importanti figure della tradizione eretica italiana, Margherita da Trento. Viene sottolineata l'originalità della sua figura, la visione radicale e raccontata la sua storia, la sfida che insieme a Fra Dolcino e al movimento degli Apostolici lanciò alla Chiesa.
Tutti elementi che sono alla base del romanzo scritto dall'autore, Margherita dei ribelli. Sorella, eretica, rivoluzionaria (DeriveApprodi, 2025), un'opera che riscrive la memoria di un'eredità rimossa.
Dipingere un ritratto al buio, cercando di intuire a istinto profili e contorni resi incerti, più che dal passaggio di oltre sette secoli, dalla precisa volontà di tanti potenti che hanno mirato a indebolirli, confonderli, sfigurarli. Si può avvertire questa sensazione, tentando di dare oggi volto e voce a Margherita da Trento, secondo alcuni discendente della casata dei Boninsegna, da molti detta la Bella, dall’Inquisizione condannata a una morte atroce nel 1307.
Di lei assai poco sappiamo con certezza – e pure quel poco arriva come mero riflesso dei verbali processuali, delle maldicenze di chi la sospettò, delle accuse di chi la catturò e giudicò. Una biografia interamente di controparte, tutta scolpita nel fango, sagomata dalle ingiurie che le furono scagliate addosso come pietre. Tra i capi d’imputazione, l’aver creato una comunità improntata a uguaglianza, parità e libero amore, un’oasi dal respiro mai registrato prima, quasi un frammento di futuro piombato come un’astronave in pieno Medioevo, un paradiso che davvero prese forma concreta sebbene moltissimi, ancora oggi, non ne abbiamo mai sentito parlare – e non per caso. E poi, l’esser stata demoniaca tentatrice, lasciva concubina del più temuto predicatore dell’epoca, quel fra Dolcino che Dante collocò anzitempo all’inferno, accollandosi la fatica di una delle sue profezie post-eventum pur d’includerlo nella Commedia, unico eretico suo contemporaneo che si degnò di nominare. Colpe tanto orrende, specie per una donna di quell’epoca, da giustificare la cortina di censura, rimozione e silenzio che su Margherita calò. Badilate e badilate di calce, come si usava allora per fermare le pandemie, per soffocare le pestilenze.
Eppure, nonostante tutto questo, ciò che di vitale continua ad avvampare sotto la distesa opaca della cancellazione con cui hanno provato a disperdere di lei ogni ricordo è così intenso che è difficile resistervi, appena si ha la fortuna di scorgerne una traccia, un guizzo rosso che si ostina ad aprire inaspettati orizzonti. È quel richiamo a sussurrare raffiche di domande a chi si avvicina al mistero di Margherita: perché le alte gerarchie hanno avvertito tanto pericolosa la sua figura da doverne dannare persino la memoria, disperdendone ogni parola e traccia?
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Ruggine siamo e ruggine ritorneremo
Nel Labirinto di Philip K. Dick 1
di Paolo Prezzavento
Philip K. Dick, Opere Scelte, Meridiani Mondadori (2 volumi), a cura di Emanuele Trevi e Paolo Parisi Presicce, traduzioni di Gabriele Frasca, Marinella Magrì, Gianni Pannofino e Paolo Parisi Presicce, pp. 3.340, euro 140,00
Per quelli come noi che hanno avuto modo di apprezzare le opere di Philip K. Dick nei vecchi Urania e Millemondi, nelle collane delle Edizioni Nord, nella Collezione Immaginario Philip K. Dick di Fanucci e adesso negli Oscar Mondadori, chi come noi ha avuto il privilegio di seguire da vicino i primi contributi critici italiani sull’opera di questo scrittore straordinario e visionario, chi ha avuto il privilegio ulteriore di tradurre opere come Ubik (1965), In senso inverso (1967) e alcuni dei romanzi e dei racconti più importanti della sua produzione, non può non salutare l’uscita del Meridiano Mondadori – Opere Scelte di Philip K. Dick, in due volumi, come una consacrazione dovuta da tempo a uno degli scrittori più geniali e profetici del nostro tempo, che hanno contribuito a plasmare, a scrivere il nostro presente e il nostro futuro.
Ma è possibile canonizzare Dick, normalizzare Dick, e – in definitiva – addomesticare Dick? Come si fa a ridurre nei canoni di un genere letterario – o della pura e semplice letteratura – un autore così originale? Ecco perché forse si sarebbe dovuto riflettere in modo più approfondito su alcuni spunti geniali presenti nelle cosiddette opere mainstream di Dick, quei tentativi di Dick di uscire dai canoni del romanzo di fantascienza, opere che purtroppo non sono state incluse in questo cofanetto.
Una famosa battuta di Emmanuel Carrère risuona nella mente del lettore invasato di Dick – o meglio, di PKD – per tutta la sua preziosa Cronologia ed è appropriata anche per comprendere l’approccio che avremmo avuto noi in un Universo alternativo, un Universo parallelo in cui, come scrive lo stesso Emanuele Trevi, “il Meridiano non l’ho scritto io, ma qualcun altro”. La battuta di Carrère è la seguente: “Nel caso del Cristianesimo delle origini, o del Cristianesimo in generale, dove finisce la patologia, la psicopatia, la malattia mentale, e comincia la religione?” Ne Il Regno (2014) Carrère ama descrivere i Cristiani della prima ora come un gruppo di pazzi scatenati, che facevano delle cose folli, che immaginavano un mondo che ancora non esisteva, di là da venire. Lo stesso fanno quel gruppetto di pazzi invasati, Phil, Kevin, David – ognuno rappresentante un diverso aspetto della personalità dello scrittore – che si interrogano sul Secondo Avvento di un nuovo Messia nel romanzo VALIS.
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Scenari di intelligenza condivisa
di Gioacchino Toni
Ethan Mollick, L’intelligenza condivisa. Vivere e lavorare insieme all’AI, traduzione di Paolo Bassotti, Luiss Univerity Press, Roma 2025, pp. 184, ed. cartacea € 18.00, ed. ebook € 9,99
Che con la comparsa dell’intelligenza artificiale generativa il mondo stia cambiando in aspetti tutt’altro che marginali è certo e tutto lascia pensare che sia destinato a cambiare ancora più radicalmente in un futuro non troppo lontano, sebbene nessuno sia in grado di prevedere in che termini, come ammette lo stesso Ethan Mollick nel suo saggio Co-intelligence. Living and Working with AI (2024) ora pubblicato in italiano da Luiss Univerity Press. «Nessuno sa davvero dove stiamo andando. Non lo so neanch’io. Non ho risposte definitive», scrive l’autore, «nessuno ha un quadro completo del significato della AI e […] perfino le persone che creano e si servono di questi sistemi non ne comprendono in pieno le implicazioni» (p. 16).
Insomma, con l’AI si naviga davvero a vista ma, soprattutto, l’impressione, almeno da parte di chi guarda al fenomeno con spirito critico, è che si sia entrati in un meccanismo che rischia di diventare sempre meno “umanamente governabile”. L’incapacità di immaginare con una certa precisione in che termini l’intelligenza artificiale impatterà sul mondo, modificandolo, sembra dipendere, più che dalla velocità con cui sta procedendo il suo sviluppo, dall’imprevedibilità di quest’ultimo, che infatti si sta dimostrando ben poco lineare nel suo procedere prendendo direzioni inaspettate (autonome, direbbero i più preoccupati) rispetto a qualsiasi pianificazione umana.
Rispetto a quella umana, quella delle macchine pensanti è un tipo diverso di intelligenza (artificiale, appunto) che, per quanto nutrita di conoscenze umane, segue traiettorie di ragionamento sue e si avvia a oltrepassare i limiti dell’umana intelligenza e comprensione. Di pari passo all’incapacità umana di prevedere gli scenari determinati dallo sviluppo dell’intelligenza artificiale, questa, invece, si sta appropriando del linguaggio oracolare per interpretare e giudicare il mondo e una volta che ha previsto quanto dovrebbe accadere, derivandolo dalla mera analisi statistica, propone agli esseri umani di assecondare il futuro prefigurato.
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Il valore della cultura classica
di Francesco Coniglione
Ha ancora senso affaticarsi su testi scritti in un linguaggio scarsamente comprensibile, con strutture sintattiche molto lontane dalla agilità e stringatezza oggi diffuse con i sistemi di comunicazione elettronica; o immedesimarsi in concetti distanti, spesso superati e comunque non sempre in sintonia con le più diffuse sensibilità odierne?
Sono queste le domande alla base del sempre rinnovato attacco di tutti coloro i quali ritengono qualcosa di superfluo, di dispensabile, i classici e in generale la cultura umanistica in cui questi sono per lo più rappresentati (non bisognerebbe però dimenticare che ci sono “classici della scienza” ancora oggi assai utili da rileggere, per l’umanista e per lo scienziato). Un fardello “inutile” se confrontato ai saperi che si ritengono immediatamente produttivi perché capaci di stimolare, crescita, produttività, innovazione, mantra dell’odierna cultura. Ne viene che siano da marginalizzare gli studi e le scuole che a esse danno un qualche peso, come il Liceo classico, la cui stessa esistenza è da molti indicata come un esempio dell’arretratezza culturale e scientifica dell’Italia.
I classici sono in sostanza ritenuti opere vetuste, volumi da riporre in qualche polverosa scaffalatura, utili semmai a imbellettare auguste biblioteche di rappresentanza, magari nei negozi di mobili; non strumenti del pensiero ancora significativi per l’uomo d’oggigiorno. Ai classici si attribuisce semmai il solo valore di essere una testimonianza del passato, il ricordo nostalgico di un “come eravamo” e non certo una piattaforma per proiettarsi nel futuro, scintillante dei prodotti della tecnologia moderna, guidato da sempre più potenti sistema di intelligenza artificiale e orientato solo al consumo voluttuario e di intrattenimento.
Ma questa è una visione superficiale e per molti aspetti parziale.
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Una questione estetica
di Stefania Consigliere
Matthieu Amiech, L’industria del complottismo. Social network, menzogne di Stato e distruzione del vivente. Prefazione di Elisa Lello. Malamente, Urbino 2024
Come si comincia la recensione di un testo importante, in un tempo in cui l’umana attenzione è imprigionata nelle macine del plusvalore? Come si fa, fra vacche magroline, a invitare chi legge a sganciare 16 euro per un oggetto tanto fuori corso quanto un libro? E perché ostinarsi ad argomentare, a fronte di un discorso pubblico che non si cura più neppure del principio aristotelico di non contraddizione? Ci proverò in cinque passaggi “clinici”.
Malessere senza nome
È una questione estetica, ha a che fare con la percezione. Molti di noi avvertono in sé una dissonanza, la non-coincidenza fra quel che sentiamo e quel che siamo tenuti a pensare; fra quel che sappiamo e il modo in cui viviamo; fra i timbri della comunicazione e i sussulti del diaframma. A volte la distanza si fa insostenibile e ci si trova allora a fuggire dagli odori dei grandi magazzini; angosciati per le file di TIR in autostrada, di dentifrici al supermercato, di uomini armati in centro città; atterriti dalle rassicurazioni dei politici; perplessi per un biglietto aereo che costa meno di quello del treno per l’aeroporto; attraversati da improvvisi impulsi luddisti – e via dicendo, ciascuno secondo un proprio spettrogramma di sensibilità lese. È raro che la dissonanza arrivi a piena coscienza: più spesso se ne resta nelle retrovie del sentimento come scarto o angoscia senza nome, una fibrillazione da silenziare subito perché, se ascoltata, subito ci renderebbe incoerenti rispetto al mondo in cui viviamo. Folli, dunque, o più probabilmente depressi, intristiti a morte per qualcosa che sentiamo ma non sappiamo nominare.
Primo e secondo consulto
In linea con la strategia globale della modernità, ogni dissonanza è letta come disfunzione individuale.
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Nei dintorni di Franco Fortini
di Eros Barone
Il saggio di Ennio Abate, che affianca a questo titolo ‘in minore’ il sottotitolo esplicativo, Letture e interventi (1978-2024), 1 nasce da una motivazione autentica e radicale. Scrive infatti l’autore: «A chi mi chiedesse perché, tra tanti scrittori importanti, proprio Fortini abbia ricevuto stima e attenzione così prolungate nel tempo da parte mia, rispondo così. Perché più e meglio di altri ha difeso una idea di poesia, di letteratura, di politica, di visione critica e comunista del mondo che ho fatto mia. E l’ha difesa sia nel biennio politicamente esaltante del ’68-’69 sia dopo, durante la crisi degli anni Settanta (compromesso storico, uccisione di Moro, scioglimento del Pci) e fino alla sua morte avvenuta agli inizi delle attuali, devastanti guerre “democratiche” o “permanenti”». E in effetti la biografia di Fortini che risulta da questa assidua frequentazione dei suoi “dintorni” si converte, come è inevitabile ma, in questo caso, altamente augurabile, nell’autobiografia di una figura prototipica del ’68: l’intellettuale prodotto dallo sviluppo economico degli anni Sessanta, dal grande esodo verso il Nord e dalla scolarizzazione di massa, che partecipa, prima come lavoratore-studente e poi come insegnante, al “lungo Sessantotto” italiano militando nelle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria e incontrando una figura carismatica di quella fase storica: il poeta, saggista, traduttore e insegnante Franco Fortini.
Il rischio per chi si prefigga di porre a confronto la propria esperienza letteraria, politica e culturale con quella di una simile figura era chiaramente quello di cercare di scavarsi un posticino nell’ambito della fortinologia, laddove questa rappresenta una nicchia, peraltro non priva di meriti cognitivi, che si è venuta a creare all’interno dell’università senese, così come in altri ambiti universitari si creano nicchie votate al culto di questo o di quell’autore che per qualche ragione abbia insegnato abbastanza a lungo in questo o quell’ateneo locale. Dunque, la fortinologia poteva essere una risorsa, poteva essere un pericolo. Abate, però, ha saputo mettere pienamente a frutto la sua duplice peculiarità di studioso della letteratura e di intellettuale marxista di origine proletaria, facendo di Fortini uno specchio e, insieme, un modello della propria coscienza politica, ideologica, etica ed estetica.
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La collana "Materiali marxisti" di Feltrinelli
di Sergio Fontegher Bologna
Penso valga la pena ricordare, sia pure per brevi cenni, una delle iniziative di Toni Negri che ha lasciato un segno nella storia dei movimenti rivoluzionari degli anni 70 e in particolare nell’evoluzione del pensiero “operaista”. In questa iniziativa Toni volle coinvolgermi in un momento in cui i nostri rapporti erano diventati complicati a causa della mia uscita da Potere Operaio avvenuta proprio nel momento in cui, grazie a Toni, ottenevo un incarico di insegnamento presso l’Istituto di Dottrina dello Stato della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova, novembre 1970.
Il bisogno di riprendere una produzione teorica dopo la fase Quaderni Rossi-Classe Operaia si era fatto impellente una volta che il ciclo di lotte operaie, iniziato a Milano con lo sciopero dei 70 mila elettromeccanici del 1960-61, si era concluso alla fine del 1969. La costituzione materiale del Paese era cambiata ed erano cambiate con la strage di Piazza Fontana le regole non scritte del gioco politico. Le previsioni dell’operaismo di un’offensiva operaia di rottura si erano avverate del tutto, il soggetto protagonista di quella fase conflittuale era stato ben individuato nell’operaio massa, il lessico operaista ormai veniva utilizzato anche dai detrattori dell’operaismo. Era necessario riorganizzare l’intero bagaglio concettuale che aveva consentito di ottenere quei risultati ma al tempo stesso era necessario, preso atto che la costituzione materiale del paese era cambiata, aggiornare i dispositivi culturali e teorici che ci avrebbero permesso di affrontare la nuova fase. Dovevamo esplicitare il percorso che ci aveva portati al 68/69 e tracciare in anticipo quello che avremmo dovuto e voluto intraprendere.
Per Toni c’era un’esigenza in più, l’esigenza molto banale di trovare una sede dove mettere a disposizione di tutti i risultati del lavoro di ricerca che il Collettivo di Scienze Politiche aveva iniziato, una volta che l’organico dell’istituto era stato completato e che consisteva in una cattedra, quella di Toni, in quattro incarichi d’insegnamento e in una serie di figure di ricercatori-tecnici. I nomi dei titolari erano Luciano Ferrari Bravo, Ferruccio Gambino, Mariarosa Dalla Costa, Alisa Del Re, Guido Bianchini, Sandro Serafini, Sergio Bologna.
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Letture per sistemarvi per le feste
di Nico Maccentelli
Nelle prossime settimane c’è chi avrà un po’ di tempo da passare per sé. Per questo ho pensato di consigliarvi alcune letture che spaziano dalla narrativa alla saggistica. Quattro opere non troppo impegnative, ma che squarciano il velo della narrazione mainstream su una serie di argomenti che sono d’attualità da decenni.
Iniziamo con un libro che è stato presentato a Villa Paradiso la scorsa settimana e che racconta delle torture che dei compagni del collettivo politico autonomo della Barona, un quartiere di Milano hanno subito dalla polizia, dell’ignavia complice della magistratura, a seguito delle indagini sull’uccisione del gioiellere Torreggiani, di cui come chi co segue sa bene è stato incolpato Cesare Battisti, che oggi sconta l’ergastolo nelle carceri italiane dopo essere stato catturato in modo illegale in Bolivia e deportato in Italia, mostrato come un trofeo da un ministro pentastellato e sotto il ludibrio dei media e di una politica bipartisan forcaiola.
Il titolo è: Sei giorni troppo lunghi, autore Umberto Lucarelli, edizioni Milieu 2024, 112 pagine, € 13,50.
Qualcuno penserà che la tortura e le esecuzioni sommarie come quelle dei brigatisti in via Fracchia a Genova, siano retaggio di quel passato. In realtà questo sistema di potere rimetterà in campo le stesse dinamiche repressive se la situazione lo richiederà. Questo è bene saperlo. Ma anche la pratica ordinaria di repressione della “devianza” è da sempre parte del dna di polizia e carabinieri. Nella prefazione di copertina si legge: “I fatti risalgono a quaratacinque anni fa, ma da allora nulla è cambiato. Si continua tranquillamente a torturare e a uccidere, sia nelle carceri sia nelle questure, come confermano le cronache recenti da Cucchi ad Aldrovandi” Aldo Bianzino, Riccardo Rasman e altri aggiungo io, in un rosario di pestaggi e abusi violenti da parte di secondini e poliziotti. L’ultimo episodio, proprio a Milano, riguarda l’inseguimento di due ragazzi e la strana morte per strada in scooter di uno di questi: Ramy Elgami, e di cui sono stati poi incriminati i carabinieri di una gazzella. Episodio che ha dato vita a una vera e propria rivolta popolare, spacciata dalla stampa come criminalità dello spaccio e il Corvetto alla stregua di una “pericolosissima” banlieu.
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Carlo Rovelli sulla sfiducia nella scienza e nelle competenze
di Luca Busca
Carlo Rovelli è intervenuto domenica 8 dicembre a Più Libri Più Liberi per celebrare il decimo anniversario del suo libro più famoso e diffuso, Sette piccole lezioni di fisica. Il Professore, interrogato da Marco Motta, giornalista di Radio 3 Scienza, in merito alla crisi di fiducia nei confronti della scienza e delle competenze ha così illustrato la problematica.
“La reazione contro le competenze non è caduta dal cielo, ha dei motivi legittimi, fortemente legittimi. Fammi fare un esempio, a cui tengo moltissimo anche se piccolo ma da cui dipende il resto. Quando c’è stato il Covid, molte persone hanno reagito contro gli esperti che imponevano di fare qualcosa spesso in maniera scomposta e non sempre efficace per la società. In questo contesto la politica si è arroccata dietro delle decisioni giustificate dal fatto che “così dice la scienza”. Ma la scienza non ha mai detto che bisogna fare questo o quest’altro, la scienza al più dice che se tu chiudi le scuole forse muoiono meno persone. Se tu fai stare tutti a casa forse diminuisci un po’ il numero di persone morte. Questo non vuol dire che bisogna stare a casa, che bisogna chiudere le scuole. Vuol dire che questo è quello che sappiamo, poi le decisioni sono quelle politiche che coinvolgono interessi di tante persone da una parte e dall’altra.
Io non avrei voluto essere Giuseppe Conte in quella situazione lì, un momento in cui ha dovuto prendere delle decisioni difficilissime: scegliere tra una soluzione che avrebbe ucciso 50.000 italiani e una che avrebbe reso più poveri 5 milioni di famiglie. Che fare? Non è facile, è difficile. Invece di assumersi le responsabilità delle decisioni, la politica, in Italia così come in Inghilterra e altrove, ha detto: “ah gli scienziati dicono questo” e ha rinunciato alla propria funzione. Chiunque non era d’accordo con quelle decisioni, sulle quali pesano differenze di valore, differenze di interessi, complessità della società, ovviamente ha reagito: “va bene io non mi fido della scienza allora”. Questo è nello specifico quello che è successo col Covid, ma molto più in generale, secondo me, l’origine del problema è nell’atteggiamento del potere di nascondersi dietro le competenze per giustificare quelli che alla fine sono interessi di pochi.
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