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Dal cartello Zeta alla Generazione Zeta. Angeli e demoni nel Messico
di Fulvio Grimaldi
https://www.youtube.com/watch?v=OuhiaHuPBsE (si combina bene con la lettura)
https://youtu.be/n1S-1XCrSnM (qui s’impara anche lo spagnolo)
Di Zeta in Zeta
Ma guarda un po’, Zeta è l’etichetta di quanto viene fatto passare per nuova “generazione” e che, inalberando il vessillo dei pirati, sta provando a buttare per aria un po’ di governi. Essenzialmente quelli che agli USA e rispettivi stipiti stanno sul piloro, tipo Serbia e, soprattutto, da 200 anni, il Messico. Ma Z è anche il logo dell’ omonimo narcocartello messicano. Un cartello che, prima dell’avvento dei presidenti Obrador e Sheinbaum, era, assieme a quello dei Sinaloa, il più feroce e sanguinario e il più vicino agli interessi dei predecessori dei presidenti arrivati nell’ultimo decennio. Vedi un po’, le coincidenze…
Ho studiato e ammirato il Messico dalle sue prime rivoluzioni, Benito Juarez, Emiliano Zapata, Pancho Villa. Poi l’ho incontrato, amato, compianto, negli anni neri dei presidenti commissariati dagli USA e dai narcocartelli, quando dal Chiapas è partito un movimento che le nostre sinistre incantava con passamontagna, fucili e cartucciere e storie e vesti colorate. Un movimento di sacrosanta rivendicazione dei Maya, persi nelle foreste del Chiapas, ma che, alla resa dei conti storici, ha sostanzialmente impedito che si unificasse quella sinistra nazionale che pur scorreva impetuosamente nelle vene del paese. La sinistra rivoluzionaria di Benito Juarez, nel tardo ‘800 primo indigeno presidente in America Latina, e di Emiliano Zapata, autore della prima rivoluzione del ‘900 nel mondo. Quanti, ancora oggi, portano in suo onore quel nome, compreso mio figlio! Rivoluzioni alle quali tanto sangue è stato fatto versare da farci annegare, alla fine, chi ha provato a divorarle.
Ora c’è chi di quella sconfitta si risente e prova a riavvolgere il nastro. Dopo un secolo di Messico tristemente (“Messico e nuvole…”) subalterno agli USA, spietatamente repressivo e convivente/connivente con i narcocartelli, in questi dieci anni due mandati consecutivi di presidenze socialiste (alla messicana) e antimperialiste, rompono l’odine delle cose, sono intollerabili.
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Siria, nazionicidio senza soluzione di continuità
E le stelle stanno a guardare
di Fulvio Grimaldi
Al momento di marciare molti non sanno che alla loro testa marcia il nemico. La voce che li comanda è la voce del loro nemico. E chi parla è lui stesso il nemico. (Berthold Brecht)
Nell’aprile venne scatenata in Siria, la “primavera araba”, quella con cui le potenze avevano già sistemato quanto in Medioriente si opponeva alla ricolonizzazione e all’espansione del sionismo. Ero da quelle parti, richiamato in Siria da una semisecolare frequentazione e dalla consapevolezza di cosa avrebbe significato uccidere questa nazione. Uno Stato cuore della Storia, cultura, liberazione araba e protagonista, con l’Egitto, la Libia, lo Yemen, il Libano, Algeria e l’Iraq, delle sue prospettive di giustizia sociale e autodeterminazione, avrebbe subito l’intento con il quale l’imperialismo intendeva riprendersi quanto una grande rivoluzione aveva sottratto al suo millennario sistema di negazione e spoliazione.
Nella primavera del 2011, in Libia si andava compiendo la distruzione del paese africano più prospero e socialmente equo, intollerabile modello politico-economico e promotore della sovranità e dell’autodeterminazione di tutto il continente. All’ufficio stampa del Ministero degli Esteri a Damasco, dove ero giunto ai primi clangori della locale “primavera araba”, mi mostrarono dei video di Deraa, dove, settimane prima, erano scoppiati tumulti contro l’aumento dei prezzi del carburante determinati da una prolungata siccità. Vi si vedevano scontri tra manifestanti disarmati e una polizia che si limitava a contenere la folla e non utilizzava strumenti di repressione. Tuttavia echeggiavano spari e le immagini mostravano cecchini appostati dietro mura e alberi. Le persone che cadevano, morivano o rimanevano ferite, si trovavano in entrambi gli schieramenti. Di sequenze di questo tipo ce n’erano a decine. Servivano a far dire ai compari lontani che “il regime ammazzava il suo popolo”. Come Gheddafi, come Milosevic.
Primavera araba, o terrorista?
Le autorità riferivano, credibilmente alla luce delle immagini e della prassi del regime change, di provocatori che si erano inseriti nelle manifestazioni, poi scoppiate anche a Damasco, Oms e Aleppo, per offrire agli interessati nei media e nelle cancellerie occidentali, il destro per parlare di una sanguinaria repressione del “dittatore Bashar el Assad”.
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Un crimine storico: l’ONU consegna Gaza ai suoi carnefici
di Karim
Dice l’autore della Newsletter BettBeat qui sotto riportata, che “la salvezza non verrà dall'alto”: giustissimo ed assodato! Dice che quello consumato in sede ONU il 17 novembre è “un tradimento”. Non concordiamo con tale giudizio poiché per noi è assodato che l’ONU è un consesso del potere capitalistico mondiale dove si cerca di far quadrare i conti fra i diversi e contrapposti interessi di Stati e “blocchi” capitalistici, comunque e sempre orientati dal loro comune obiettivo di contenere e stroncare ogni potenziale di forza rivoluzionaria che si manifesti ai quattro angoli del mondo.
L’atto di “tradimento istituzionale” siglato dal Consiglio di sicurezza il 17 novembre con un voto schiacciante di 13 a 0 e l’astensione dei due pezzi grossi russo e cinese, non è che l’ultimo atto di una lunga storia di infame e criminale real-politik delle diplomazie e cancellerie borghesi. Vogliamo ricordare fra gli altri e in quanto particolarmente infame e criminale, la liquidazione del grande patriota rivoluzionario africano Patrice Lumumba avvenuta sotto la copertura ONU. Anno 1961!
Sono passati 64 anni da quella operazione criminale e la situazione è ben diversa: la forza rivoluzionaria in Palestina e in tutta l’Asia occidentale è ben lontana dall’essere liquidata. Nonostante tutti i pesanti colpi subiti, l’Asse della Resistenza è in piedi. Non è stato (ancora) disarmato. Non è in ginocchio. Gli accordi criminali siglati in sede ONU senza alcun voto contrario e con l’astensione di Russia e Cina, devono “essere ratificati” sul campo di battaglia a Gaza, in Libano, nello Yemen, in Iran.
Detto questo, lettura altamente consigliata! [Lo Sparviero]
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Fanon può entrare ma i palestinesi d’Italia no, perché? Perché il palestinese buono è quello morto o rassegnato
Appunti sull’inadeguatezza della sinistra italiana
di Laila Hassan
“La guerra di liberazione non è un’istanza di riforme, ma lo sforzo grandioso di un popolo, che era stato mummificato, per ritrovare il suo genio, riprendere in mano la sua storia e ricostituirsi sovrano” [1]
A 100 anni dalla nascita di Fanon alcune brevi, forse inutili, considerazioni.
Se c’è un atteggiamento che in questi anni mi ha particolarmente colpita è l’incapacità di alcuni ambienti in solidarietà con la Palestina di comprendere il significato della lotta palestinese. La rabbia palestinese non è un sentimento che il pubblico occidentale, in lacrime, commosso di fronte alle immagini dei corpi dilaniati palestinesi, può accettare. La rabbia del colonizzato è incomprensibile, fuori dalle regole dell’accettabilità, è animalesca per natura. Un sentimento che può generare mostri, e che ci ha attaccato addosso l’etichetta di incivile, barbaro, dannato. Non è la scoperta dell’acqua calda, né la pretesa di teorizzare qualcosa che è già stato scritto da militanti e intellettuali impegnati nelle più disparate tradizioni anticoloniali, ma l’atteggiamento paternalista, colonizzatore e razzista messo in campo da chi “ti vuole difendere” è ciò da cui dobbiamo stare alla larga.
Utilizzo quindi queste righe per diversi motivi: primo, su tutto, dare sfogo alla mia frustrazione, da palestinese, italiana, militante di un’organizzazione palestinese in Italia. In secondo luogo, per condividere con chi leggerà alcuni dei pensieri che hanno abitato i nostri corpi, spesso in tensione e arrabbiati, spesso incapaci di trovare nello sguardo del solidale un alleato di cui fidarsi.
Le lotte anticoloniali che hanno caratterizzato la metà del ‘900 – stesso periodo in cui si ufficializzava l’istituzione coloniale in Palestina, hanno attraversato diverse fasi, tradizioni, pratiche, riflessioni politiche, momenti in cui le scelte dei colonizzati hanno assunto forme e modalità adatte alle contingenze. Allo stesso modo, pensare che i palestinesi abbiano prediletto una forma di resistenza all’altra vuol dire non essere in grado di leggere la situazione coloniale, né di entrare in connessione con la prassi anticoloniale.
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Né pace né giustizia per la Terrasanta
di Gaetano Colonna
Quanto avvenuto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 17 novembre 2025, con l’approvazione della Risoluzione n. 2803, è un evento rivelatore dell’acquiescenza della comunità internazionale al predominio della forza delle armi in Terrasanta. Risulta oramai evidente che non vi è più spazio per il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, e che la violazione del diritto internazionale non trova sanzione nemmeno presso l’ONU: non una riga viene infatti dedicata in questa risoluzione alle molteplici, reiterate, permanenti violazioni dei diritti umani commesse dallo Stato di Israele nella Striscia di Gaza (e non solo).
Oltre a Stati Uniti, Regno Unito, Francia, membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, Algeria, Danimarca, Grecia, Guyana, Sud Corea, Pakistan, Panama, Sierra Leone, Slovenia, Somalia, membri non permanenti, hanno votato a favore della risoluzione.
Si sono astenuti gli altri due membri permanenti, Cina e Russia. Una decisione questa di notevole gravità, che sembra costituire il prezzo per ottenere vantaggi in altri scottanti contesti: la soluzione del conflitto in Ucraina per la Russia; un ammorbidimento delle posizioni statunitensi nel conflitto commerciale con la Cina Popolare.
Opportunismo russo
Da questo punto di vista, le preoccupazioni esternate dall’ambasciatore russo all’ONU, Vassily Nebenzia, tolgono ben poco al fatto che la Russia ha compiuto una scelta dettata da una ristretta Realpolitik, rinunciando di fatte a proprie autonome posizioni in Medio Oriente, evidentemente per concentrarsi sull’Ucraina: ulteriore conferma dopo l’abbandono di Bashir Assad in Siria.
A poco serve quindi che Nebenzia dichiari: «La cosa principale è che questo documento non dovrebbe diventare una foglia di fico per gli esperimenti sfrenati condotti dagli Stati Uniti in Israele, nei territori palestinesi occupati». La Russia sa benissimo che invece proprio di una foglia di fico si tratta.
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La Knesset e il "metodo post 11 settembre"
di Patrick Lawrence, scheerpost.com
Forse avete visto il video reso pubblico il 1° novembre in cui Itamar Ben-Givr è in piedi sopra una fila di prigionieri palestinesi sdraiati a faccia in giù, con la testa in un sacco e le mani legate dietro la schiena. “Guardate come sono oggi, in condizioni minime”, dice il ministro ultrasionista della sicurezza nazionale del governo di Bibi Netanyahu, pieno di fanatici, rivolgendosi al suo entourage. “Ma c’è un’altra cosa che dobbiamo fare. La pena di morte per i terroristi”.
Quelli sdraiati a pancia in giù erano presumibilmente membri di al-Nukhba, l’unità di forze speciali di al-Qassam, l’ala militare di Hamas. Ben-Givr, un colono militante che si dimostra, più e più volte, totalmente indifferente al diritto internazionale, alle leggi di guerra o a qualsiasi norma accettata, vuole che lo Stato sionista uccida i prigionieri di guerra. Ecco a cosa si riduce la questione.
Se non avete visto il video (e qui c’è una versione con sottotitoli in inglese), forse avete sentito l’indignazione che ha poi echeggiato in tutto il mondo (tranne che negli Stati Uniti). Il filmato del volgare Ben-Givr è stato diffuso su tutti i media digitali: su YouTube, Facebook, Instagram. Al Jazeera lo ha trasmesso su “X”. Ho preso la versione linkata qui dalla CNN, uno dei pochi media mainstream americani a parlarne.
Quello era allora, questo è adesso: lunedì 10 novembre, la Knesset ha votato con 39 voti favorevoli e 16 contrari a favore di un disegno di legge che consentirà a Israele di giustiziare coloro che arresta come “terroristi” – a patto, cioè, che siano palestinesi e non coloni israeliani, che da molti mesi seminano un’escalation di terrore in Cisgiordania. “Chiunque, intenzionalmente o per imprudenza, causi la morte di un cittadino israeliano, motivato da razzismo, odio o intenzione di danneggiare Israele, dovrà affrontare la pena di morte”, recita in parte il disegno di legge. Non consente alcun riesame di una condanna a morte una volta emessa.
Questa votazione è avvenuta in prima lettura, tre delle quali secondo la procedura parlamentare israeliana.
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Palestina oltre la mistificazione della pace
di Pasquale Liguori
Qui sta la potenzialità rivoluzionaria della Palestina: non nel fornire un modello già pronto, ma nell’aprire una breccia nella percezione del possibile
Ieri sera, per caso, mi sono imbattuto in una puntata di Piazza Pulita dedicata alla Palestina. Un piccolo compendio del nostro tempo: una moderazione ossessionata dall’equilibrio, contenuti annacquati per non disturbare nessuno, una brodaglia di opinioni che attenua le responsabilità invece di illuminarle.
Ne usciva l’ennesima rappresentazione anestetizzata del genocidio: si parlava di cessate il fuoco, di dialogo, di pace, come se fossimo alla fine di una guerra sfortunata, non dentro la prosecuzione di un progetto coloniale.
È anche da questo disagio che nasce la necessità di mettere in fila alcuni punti, senza pretese di esaustività ma con il desiderio di offrire, almeno, una piccola bussola. Non per aggiungere un’altra voce al rumore di fondo, ma per provare a restituire la struttura di ciò che sta accadendo, oltre le narrazioni tranquillizzanti dei talk show.
In Palestina non c’è nessun dopoguerra, perché la guerra non è mai finita. Quella enfaticamente annunciata da Trump non somiglia né a una tregua, né a un cessate il fuoco: è solo una pausa cosmetica che ha leggermente abbassato il volume della violenza. L’assedio a Gaza resta intatto, il 90 percento delle infrastrutture è stato distrutto, più della metà della Striscia è sotto controllo militare diretto, il cibo e i farmaci entrano a gocce, i prezzi sono schizzati alle stelle. La fame continua a essere un’arma di guerra e i massacri non sono cessati, si sono “normalizzati”. Parlare di pace è, semplicemente, una mistificazione.
Questo non è un incidente passeggero, ma l’ultima fase di oltre un secolo di guerra contro il popolo palestinese e la sua terra: colonie che si espandono, popolazione indigena compressa, recintata o espulsa. Per la maggior parte dei palestinesi, tra Gaza e Cisgiordania, il futuro resta cupo: aleggia l’incertezza, domina il lutto, la paura che la prossima ondata possa essere perfino peggiore.
In questo contesto, la vecchia formula della “soluzione a due Stati” appare per quello che è sempre stata: un metodo diplomatico pensato per guadagnare tempo e coprire il consolidamento del progetto coloniale.
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Il nuovo disordine mondiale / 30 – Israele sull’orlo dell’abisso
di Sandro Moiso
Ilan Pappé, La fine di Israele. Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina, Fazi Editore, Roma 2025, pp. 287, 18,50 euro
In occasione del trentennale dell’uccisione di Yitzhak Rabin, con decine di migliaia di persone in piazza a Tel Aviv per celebrare l’evento, Isaac Herzog, presidente dello stato di Israele, ha affermato che: «Oggi siamo sull’orlo dell’abisso». Aggiungendo poi ancora: «Lo Stato ebraico e democratico di Israele non è un campo di battaglia, ma una casa, e in casa non si spara, né con le armi, né con le parole, né con le espressioni o con le allusioni». Affermazione fatta in un contesto in cui Bibi Netanyahu, da sempre indicato come uno degli sponsor dell’odio che portò al più importante omicidio politico della storia dello stato ebraico per mano di un ebreo di origini yemenite, si è tenuto lontano dalle celebrazioni molto probabilmente per timore delle contestazioni nei suoi confronti.
Ma ciò che qui è interessante annotare, più che il ricordo di un uomo che quando era «ministro della Difesa – poi beatificato dall’Occidente in seguito al suo assassinio a opera di fanatici oggi al governo in Israele – impiegò tutto il peso dell’IDF sui Territori rivelandone pienamente il carattere coloniale e di forza d’occupazione. Già nel 1987 il pugno della repressione – spari sulla folla, rastrellamenti, demolizioni e detenzione di massa – fu spietato, anche a fronte di un sollevamento prevalentemente civile e non armato», come ha giustamente ricordato Giovanni Iozzoli su Carmilla il 4 novembre di quest’anno, è costituito dal fatto che l’”abisso” evocato dall’attuale presidente israeliano è prossimo a quel “precipizio” indicato per il futuro di Israele da un altro ebreo israeliano, Michel Warschawski, fondatore del movimento anti-sionista Alternative Information Center fin dal 1984:
Il misto di nazionalismo offensivo e di vittimismo provoca all’interno della società israeliana una violenza che non è facile misurare dall’esterno. Eppure basta ascoltare le trasmissioni dei dibattiti alla Knesset per rendersene conto: [dove] si fa a gara a chi presenta il progetto di legge più drastico non solo contro i «terroristi» ma contro ogni forma di dissidenza in Israele. La Corte suprema e i media, ma spesso anche la polizia e la Procura, pur facendo parte delle strutture di polizia o militari., vengono regolarmente denunciati come anti-ebraici, e persino come «mafia di sinistra». […]
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Rompere la pace dentro territori, fabbrica e università della guerra
di kamo
Prima di presentare il testo, una piccola introduzione di riepilogo delle “puntate passate”, per meglio inquadrare il senso dell’iniziativa «Guerra alla guerra» dell’11 ottobre scorso con la redazione di Infoaut e i compagni di Askatasuna Torino. Va premesso infatti che come Kamo non abbiamo pensato questo incontro soltanto in rapporto alle ultime settimane e mesi di mobilitazione per la Palestina e contro la guerra – tempi intensi e convulsi di “aria frizzante”, che hanno visto anche Modena scendere in piazza in massa per la Palestina e in solidarietà con la Global Sumud Flotilla, per fermare il genocidio e “bloccare tutto”, a partire da quella che chiamiamo la «fabbrica della guerra», cioè quell’intreccio di territorio, industria e sapere in ristrutturazione in funzione del riarmo e della guerra, che pone Modena tra i centri dello sviluppo capitalista in trasformazione bellica.
L’incontro lo abbiamo voluto collocare soprattutto come il punto di condensazione dei precedenti cicli di discussione che abbiamo organizzato negli anni passati, in particolare «Militanti» (2023) e «La fabbrica della guerra» (2024-2025). Ciò di cui ci interessa ragionare è infatti come si possa esprimere la militanza politica nella fase attuale, e le sfide che le ultime piazze ci chiamano a raccogliere: se nel ciclo «Militanti» abbiamo tentato di riallacciare e riscostruire, selezionandoli e facendoli nostri, i fili di una tradizione novecentesca di militanza comunista che va da Lenin al movimento di inizio terzo millennio, passando dall’Autonomia operaia degli anni Settanta e alla nascita dei centri sociali – sempre con l’obiettivo di approfondirne la portata teorica e storica e i loro limiti, di riappropriarci di strumenti e soprattutto di riattualizzare il punto di vista della rottura rivoluzionaria –, con «La fabbrica della guerra» invece abbiamo voluto esaminare i processi di radicale e accelerata riorganizzazione e trasformazione del capitalismo innescati dalla guerra, che ci coinvolgono direttamente sul territorio emiliano e modenese.
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Mao era un mostro?
di Carlos Martinez
Per celebrare il 130° anniversario della nascita di Mao Zedong, pubblichiamo di seguito un estratto dal capitolo "No Great Wall: on the continuitys of the Chinese Revolution" del libro di Carlos Martinez L'Oriente è ancora rosso – Il socialismo cinese nel XXI secolo , che valuta l'eredità politica di Mao e si concentra in particolare su alcuni degli episodi più controversi associati alla sua leadership.
L'estratto si propone di fornire un'analisi dettagliata ed equilibrata del Grande balzo in avanti e della Rivoluzione culturale, e di spiegare perché la maggior parte della popolazione cinese continua a venerare Mao e perché, come disse Deng Xiaoping , "il Partito comunista cinese e il popolo cinese lo considereranno sempre come un simbolo, un tesoro molto prezioso".
La ragione fondamentale è che, più di ogni altro individuo, Mao Zedong simboleggia ed è responsabile della liberazione della Cina e della costruzione del socialismo cinese. Carlos scrive:
Gli eccessi e gli errori associati agli ultimi anni di vita di Mao devono essere contestualizzati in questo quadro generale di progresso trasformativo senza precedenti per il popolo cinese. Il tasso di alfabetizzazione in Cina prima della rivoluzione era inferiore al 20%. Alla morte di Mao, era intorno al 93%. La popolazione cinese era rimasta stagnante tra i 400 e i 500 milioni per circa cento anni, fino al 1949. Alla morte di Mao, aveva raggiunto i 900 milioni. Crebbe una fiorente cultura letteraria, musicale, teatrale e artistica, accessibile alle masse popolari. La terra fu irrigata. La carestia divenne un ricordo del passato. Fu istituita l'assistenza sanitaria universale. La Cina – dopo un secolo di dominazione straniera – mantenne la propria sovranità e sviluppò i mezzi per difendersi dagli attacchi imperialisti.
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Eugenetica e colonialismo. Nel cuore del dominio occidentale
di Stefano Dumontet
La terribile situazione che stanno vivendo i gazawiti, da ormai quasi tre anni, è stata presentata dalla maggioranza dei media occidentali come la lotta di una democrazia (incarnata da Israele) per la sua sopravvivenza. Una lotta contro terroristi sanguinari di oggi e potenziali terroristi di domani (i bambini) oltre che contro le donne, fattrici di terroristi non ancora nati.
L’unico, controverso, riferimento storico che si evoca è quello relativo alla lucida ferocia del terzo Reich, orientata contro gli ebrei. Gli israeliani, cittadini di uno stato confessionale ebraico, adopererebbero oggi mezzi e finalità analoghe a quelle utilizzate dai nazisti per portare avanti un programma di pulizia etnica attraverso un genocidio. In realtà, limitare il fenomeno dello sterminio dei palestinesi sulla contrapposizione genocidio sì / genocidio no, serve solo a distogliere l’attenzione dalla vera motivazione di tanta barbarie e della sua fanatica accettazione da parte delle élite occidentali.
Quello nazista fu un micidiale programma di pulizia etnica, sostenuto da una pseudoscienza, largamente condivisa nell’intero occidente, quella della “purezza della razza” o “eugenetica”. È bene ricordare che le teorie eugenetiche nacquero, almeno nella loro forma “scientificamente definita”, in Inghilterra in seguito al lavoro di Sir Francis Galton, cugino di Charles Darwin. Alla Galton Society afferì, nel tempo, il fior fiore della società britannica rappresentato da aristocratici, prelati, premi Nobel, famosi scienziati, celebri intellettuali e ricchi imprenditori. Solo per fare alcuni nomi, particolarmente noti, tra i tanti che condivisero negli anni le idee eugenetiche di Galton, citiamo il celebre economista John Maynard Keynes, James Meade (premio Nobel per l’Economia nel 1977), Peter Medaware (premio Nobel per l’Immunologia nel 1987) ed il famosissimo statistico Charles Spearman (tra i padri dei test per la misura dell’intelligenza e dell’analisi fattoriale). Anche Winston Churchill era un estimatore delle teorie eugenetiche, insieme al commediografo George Bernard Shaw.
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Argentina, JP Morgan ed elezioni
di Marco Consolo
Fiumi di inchiostro sono stati versati sul risultato elettorale in Argentina e sulla “vittoria schiacciante” del partito di governo, La Libertad Avanza di Javier Milei alle elezioni di medio termine del 26 ottobre. Molto si è scritto sugli equilibri politici interni, sulle alleanze, su quali siano stati i fattori che hanno reso possibile una vittoria sorprendente per molti aspetti.
Ma forse non tutti sanno che il 24 ottobre (2 giorni prima delle elezioni) a Buenos Aires si era tenuta la riunione annuale del vertice di JP Morgan Chase Bank, la più grande banca d’affari degli Stati Uniti. Ovvero, una delle banche che ha stabilito le condizioni della sottomissione economica dell’Argentina al sistema finanziario internazionale. E così, mentre nelle strade si chiudeva la campagna elettorale, i poteri forti si riunivano nei salotti eleganti di Buenos Aires, senza troppo chiasso, in abiti scuri e la spilla di JP Morgan sul bavero.
Si sa, ça va sans dire, i banchieri non badano a spese (soprattutto con soldi che non sono loro). E così, parcheggiati nella zona VIP dell’aeroporto internazionale di Ezeiza, hanno fatto bella mostra di sé più di una dozzina di jet privati di alti funzionari della banca, il meglio dell’aviazione executive mondiale, il cui costo per aeronave oscilla tra i 57 e i 61 milioni di dollari.
La presenza di JP Morgan nel bel mezzo di una campagna elettorale caratterizzata dall’incertezza e dalle tensioni cambiarie è stata un’ispezione diretta del laboratorio economico argentino, il più ortodosso del pianeta. Il governo di Javier Milei ha trasformato il Paese in un esperimento neo-liberista radicale, con deregolamentazione, privatizzazioni e indebitamento in nome della libertà di mercato. Ma quella libertà ha dei proprietari, atterrati a Ezeiza con jet di lusso e la JP Morgan è ospite d’onore. Detto in altri termini, prima delle elezioni, i banchieri avevano già deciso chi avrebbe governato, chi avrebbe gestito l’economia e il debito estero, chi avrebbe controllato l’energia e il prezzo delle bollette. Lungi dall’essere un fatto isolato è la rappresentazione plastica di una politica di svendita della sovranità travestita da modernizzazione.
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Venezuela, diario di una rivoluzione. Assassinio della felicità
di Fulvio Grimaldi
Quando Iris fiorì
L’alberghetto di Caracas si chiamava Cristal. Non me lo ricordavo. Se ne è ricordata, Sandra, la Mnemosine di casa. Ma lei si chiamava Iris e non la dimentico. Siamo ai primi del nuovo millennio, in mezzo a una rivoluzione. Iris lavorava al Cristal, era un po’ sfiorita, curva e magra, il vestito lindo, ma stazzonato, liso. Adibita a funzioni di scarto, neanche cameriera, o addetta al piano. La incrociavamo nei corridoi, sempre indaffarata – e affaticata - su non si capiva bene cosa. Portava, trasportava, spazzava. Non credo avesse famiglia, era sempre lì, a tutte le ore. Ma venne il giorno della festa e il Comandante avrebbe parlato e sarebbero stati centomila ad ascoltarlo. Tutto un fremito di massa, ve lo giuro. Ti passava dentro, come toccare un filo elettrico.
Poi vidi Iris. Ma non tra i tanti, per le strade, nelle piazze, alle finestre e dai portoni. L’ho vista appoggiata a uno stipite del portone del Cristal. Trasfigurata. Nessuno la vedeva, ma lei vedeva tutti. Non più chiusa nello stinto indumento stazzonato, sfolgorava nella maglietta rossa con sopra Ugo Chavez. Come tutti là fuori. Radiosa lei, radiosa la giornata, radioso il comandante lassù sul palco che intonava “El cielo de la patria es el cielo mas divino… E centomila esplodevano nel coro. Anche Iris era radiosa. Leggera, come sospesa a mezz’aria. Poi qualcuno la richiamò dentro. La rivoluzione non aveva fatto in tempo a toccarla. Ma lei l’aveva adocchiata.
Iris, lì sullo stipite, mi ha fatto vedere la rivoluzione. E la rivoluzione profumava di felicità. Intollerabile per quelli là fuori, infelici. Oggi con i cannoni e missili puntati sulla felicità.
https://youtu.be/pzdbnHuBXOA
I miei ricordi di buona parte del mio ultimo quarto di secolo, la più felice, appunto, perché condivisa con tutto ciò che mi circondava, non saranno una grande analisi politica, sociale, ideologica, ma sono quanto del Venezuela custodisco e quanto sostiene la mia fiducia nell’uomo. Nella possibilità di uscirne, dall’oggi di Trump, Netaniahu, Meloni, von der Leyen, Paolo Mieli, Galli della Loggia- La possibilità, la certezza, del riscatto…
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Il 7 ottobre come Rashomon --- Il giorno e la storia
di Fulvio Grimaldi
Tregua sì, tregua no, tregua bombe
Alla luce della sempre più evidente mancanza di serietà e affidabilità di ciò che l’uomo-bluff dice, o dice di fare, del carattere strumentale e propagandistico di quasi tutte le sue bombastiche mosse - segno tragico dei tempi, anche in Europa e a casa nostra – vediamo di ritrovare un po’ di sostanza passando dal piano tattico, che l’improvvisatore di trovatone e trovatine ci impone, a quello strategico. L’andazzo che il mondo aveva preso su una delle questioni che l’accompagnano e segnano da quasi un secolo, Palestina o non Palestina, ha preso improvvisamente un abbrivio e ha cambiato in profondità ogni cosa, ben oltre la circoscritta questione mediorientale. Mi riferisco al 7 ottobre 2023, di cui molto s’è detto su questa testata, ma guardando stavolta alle sue ricadute che non finiscono di mettere in discussione ogni apparente equilibrio.
“Rashomon” è il titolo del capolavoro cinematografico di Akira Kurosawa. Un film che ha segnato un’epoca della settima arte e ci ha messo di fronte al drammatico quesito se possa mai esistere una verità definitiva. Un boscaiolo, un monaco e un vagabondo si interrogano sull'assassinio di un samurai e sullo stupro di sua moglie per mano del bandito Tajômaru, che li ha coinvolti come testimoni. All’uscita del film si è parlato a lungo di un “effetto Rashomon”. Per chi conosce Pirandello, a partire da “Così è se vi pare”, le cose sono ancora più oscuramente chiare.
“L'effetto Rashomon”, proprio come Pirandello, descrive lo sconcertante dato per cui differenti testimoni, o commentatori, descrivono lo stesso evento in modo soggettivo, totalmente diverso e contrario rispetto agli altri, formulando ognuno una interpretazione, determinata dal proprio interesse e, eventualmente, dalla propria posizione morale, ideologica, sociale, politica. Un relativismo che rischia di rendere irraggiungibile le verità oggettiva.
Relativismo che, oltre alla strumentale deformazione israeliana, quella di hasbara, vale per gli eventi del 7 ottobre, dove a distanza di due anni e, forse, per sempre, le verità variano a seconda di chi ci è stato, chi ha operato, chi è intervenuto, chi ha subito, chi ha testimoniato, chi ha indagato. E perfino all’interno di queste categorie il racconto diverge.
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Imperialismo contro Bolivarismo
di Gaetano Colonna
Nella storia dell’Occidente anglosassone vi è un peccato originale: la congiunzione fra capitalismo e imperialismo. Così come il capitalismo non si può comprendere senza l’espansione coloniale e mercantile inglese, così non si può dimenticare che nella Gran Bretagna di fine XIX secolo si è cominciato a giustificare il dominio sui popoli del mondo intero con la difesa della ricchezza accumulata dall’oligarchia britannica.
Questo peccato originale si è trasfuso, attraverso le guerre del XX secolo, nella potenza americana – fatto questo che spiega in ultima analisi perché nessuna delle amministrazioni Usa, indipendentemente dalle colorazioni di partito, può rinunciare a una politica imperialista.
Non sappiamo in questo momento se l’amministrazione Trump attaccherà o meno militarmente il Venezuela, ma quanto avvenuto da decenni nei rapporti fra lo strapotere nordamericano e il Venezuela è una delle più chiare testimonianze storiche di quanto appena detto.
La colpa del Venezuela, agli occhi delle varie amministrazione succedutesi alla Casa Bianca in questi decenni, è una sola: aver cercato di sottrarsi al dominio imperiale che gli Usa esercitano sul continente latino-americano dalla fine del XIX secolo.
Repubblica bolivarista
Hugo Chávez, il militare venezuelano che ha guidato il Paese dal 1999 al 2013, sostenuto per tutto questo non breve periodo da un indiscutibile e indiscusso sostegno popolare, oltre ad aver dato forma ad un sistema politico in qualche modo alternativo al modello ultra-liberista dilagante in Sud America (e non solo…), ha cercato anche di costituire una propria base ideologica, che rimane ancora il riferimento per il suo successore Nicolás Maduro.
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