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laboratorio

Israele, l'ultimo stato colonialista europeo

di Domenico Moro

Ragazzini 1.jpgDi fronte al genocidio del popolo di Gaza in diretta televisiva mondiale ormai da due anni, accompagnato dalla violenza e dagli espropri contro i palestinesi in Cisgiordania, l’opinione pubblica mondiale ha espresso un’ampia condanna. Non è soltanto l’opinione pubblica dei paesi musulmani e del Sud del mondo a esprimere condanna nei confronti di Israele, ma anche, sempre di più, quella del Nord, a partire da quegli stati che hanno sempre appoggiato Israele, come gli Usa e l’Europa occidentale. Ne sono esempi emblematici le mobilitazioni degli atenei statunitensi di qualche mese fa e, da ultime, le grandi mobilitazioni popolari a favore dei palestinesi, avvenute in Italia tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre.

Per quasi due anni rimasti praticamente inerti dinanzi ai massacri e consapevoli del pericolo di perdere il loro residuo prestigio nei confronti non solo del mondo musulmano ma anche del proprio elettorato, diversi governi dell’Occidente si sono decisi almeno a riconoscere lo Stato di Palestina. All’interno dell’Occidente si è così determinata una spaccatura: da una parte Francia, Regno Unito, Canada, Spagna, Australia e altri ancora, che riconoscono lo Stato palestinese, da un’altra parte Stati Uniti, Germania, Italia e altri che rifiutano di farlo. Ad oggi sono 150 su 193 gli stati dell’Onu che hanno riconosciuto la Palestina, certificando il sempre più marcato isolamento internazionale di Israele.

Certamente il riconoscimento ha un valore soprattutto simbolico, dinanzi ai bombardamenti e al blocco dei rifornimenti alimentari. Inoltre, è tardivo, giungendo in un momento in cui ulteriore territorio palestinese della Cisgiordana è annesso da parte di Israele, e il piano cosiddetto di “pace” di Trump prevede l’istaurazione di una sorta di “mandato coloniale” su Gaza. Inoltre, è una misura debole, in quanto, con la parziale eccezione della Spagna, non è accompagnato da adeguate sanzioni e dal blocco delle relazioni commerciali, a partire da quelle che riguardano la compravendita di armamenti. Nonostante ciò, i virulenti attacchi da parte di Israele contro i paesi che hanno riconosciuto lo Stato palestinese dimostrano che tale riconoscimento non è del tutto inutile.

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manifesto

Roger Waters, al cuore

Fabrizio Rostelli intervista Roger Waters

Intervista esclusiva con Il musicista inglese, storico componente dei Pink Floyd, interviene sulla Palestina, sulla Flotilla e sulla fase politica che stiamo attraversando

roger waters conferenza stampa roma copyright photo fabrizio rostelli ritoccataIl suo ultimo tour «This is not a drill» è forse la sintesi più alta e senza compromessi della sua creatività artistica e del suo impegno politico. Un concerto in cui l’estasi musicale accompagna il bombardamento visivo di immagini di denuncia sociale e di resistenza al capitalismo e al fascismo. «Se siete fra quelli che amano i Pink Floyd, ma non sopportano le prese di posizione politiche di Roger, potete andarvene a fanculo al bar», questo l’annuncio a inizio concerto. Roger Waters ha la libertà di mirare al cuore, senza fronzoli. Da anni in prima fila per il sostegno al popolo palestinese, ha portato la guerra nei suoi show mostrando il video «collateral murder» nel mondo. Waters, da intellettuale, ha scelto di esporsi e prendere posizione. Dall’impegno nella campagna per la liberazione di Assange, al supporto delle comunità native contro l’oleodotto in Dakota, fino all’appello per la riapertura dell’ospedale calabrese di Cariati raccolto nel film sulla sanità pubblica C’era una volta in Italia di Greco e Melchiorre.

 * * * *

La Global Sumud Flotilla ha iniziato la navigazione verso Gaza per consegnare aiuti umanitari. Diverse barche sono già state attaccate da droni probabilmente israeliani. Cosa accadrà?

È molto improbabile che una qualsiasi delle imbarcazioni della flotilla riesca a consegnare cibo, latte per neonati e medicinali a Gaza, perché gli israeliani le intercetteranno tutte.

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sinistra

L'intuizione di Alexander Dugin. Il 3 settembre e il Morto Occidente

di Carlos X. Blanco

225819513 99e9b3ba 780c 45a8 8ebc 4e6623f3e65a.jpgC'è una solida intuizione nel pensiero di Alexander Dugin: la Russia, pur essendo una parte essenziale dell'Europa, non ha altra scelta che rivolgersi all'Asia e unirsi a essa.

Chi può negare l'idea che la Russia faccia parte dell'Europa? Chi confuterà che l'Europa non è nulla e non sarebbe mai stata nulla senza la nazione russa?

L'ho spesso espresso nei miei scritti, ad esempio nel mio articolo "I due imperi", scritto come prologo all'opera classica di Walter Schubart, L'Europa e l'anima dell'Oriente (Fides, Tarragona, 2019). A Occidente, la Spagna ha trattenuto le orde afro-asiatiche che cercavano di sprofondare l'Occidente cristiano in un'ecumene esclusivamente islamica. La Spagna è stata il baluardo contro l'Islam per più di dieci secoli (otto di Reconquista e almeno altri due di sorveglianza nel Mar Mediterraneo). Ciò che il Regno delle Asturie e León fece dal 722 in poi. Si espanse geograficamente con l'Impero asburgico spagnolo nell'età moderna: una difesa o katechon (un concetto biblico, che ha origine nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi, e che descrive una forza o un potere che trattiene l'uomo dal peccato e dal trionfo finale del male, ritardando così l'Apocalisse e la fine del mondo) contro l'atroce e inarrestabile ascesa dell'eresia protestante, che non fu altro che il preludio al liberalismo, al nichilismo e al capitalismo odierni, ideologie e forme materiali di dissoluzione della cultura classica, cattolica e umanista. E una difesa contro il Turco.

Il katechon spagnolo in Occidente era simmetrico allo stesso katechon russo in Oriente. Ciò che passò da Roma a Oviedo, León e Madrid, lo spirito di un Impero di contenimento di fronte al Male, era analogo allo spirito di Bisanzio (la Seconda Roma), che passò anch'esso a Mosca (la Terza Roma). La sostanza spirituale trasmessa era quella di un Impero katechonico che pose fine alle orde turche o tartare e allo stesso tempo salvò la cultura classica, il cristianesimo (ortodosso) e l'umanesimo, adattandoli ai popoli slavi e alle altre popolazioni asiatiche circostanti.

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lantidiplomatico

"Così ci prepariamo a resistere"

Intervista esclusiva all'analista politica venezuelana Carolina Escarrá

a cura di Carlos Aznárez, Geraldina Colotti

mnfpòsihh5gtNel nostro programma settimanale, “Abre Brecha Venezuela”, abbiamo avuto il piacere di ospitare Carolina Escarrá, un'intellettuale venezuelana con un curriculum impressionante che include una vasta esperienza in ambito accademico, diplomatico e giornalistico. Oltre a insegnare in diverse università, Carolina è parte del vicerettorato di ricerca della UICOM, l'Università Internazionale della Comunicazione diretta dalla rettrice Tania Díaz. Politologa e consulente per diverse istituzioni, è attualmente la direttrice della Scuola di Formazione Integrale Dottor Carlos Escarrá Malavé dell'Assemblea Nazionale (EFICEM), una scuola dedicata a suo padre, un eminente giurista venezuelano. Ecco la versione ampliata dell'intervista.

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Benvenuta, Carolina, ad "Abre Brecha". Come sai, questo è un programma il cui obiettivo principale è difendere la Rivoluzione Bolivariana e, soprattutto, renderla visibile in questi momenti così difficili, non solo per il Venezuela ma per il mondo intero. Volevamo iniziare chiedendoti, alla luce della grande aggressione che il Venezuela sta subendo da parte degli Stati Uniti, come vedi la risposta del popolo venezuelano e della sua direzione rivoluzionaria, che non ha perso tempo nel "prendere il toro per le corna" e affrontare l'aggressione per quello che è realmente: una provocazione di grandi dimensioni, nonostante molti cerchino di minimizzare ciò che sta accadendo.

Prima di tutto, grazie per l'invito. È un onore per me partecipare a questo programma.

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contropiano2

Cosa si pensa nel resto del mondo?

Xinhua intervista Vladimir Putin

intervista cinese putin.jpgSe si guarda con un minimo di distacco emotivo il panorama dell’informazione occidente – quella italica è un caso di morte cerebrale ormai conclamato – ci si accorge subito che ciò che accade nel resto del mondo è sostanzialmente ignorato. Almeno fin quando non ci si inciampa sopra.

Peggio ancora, non sappiamo praticamente nulla di quel che si pensa – e come, e perché lo si pensa – al di fuori degli ormai ristretti confini dell’area euro-atlantica.

L’ammissione involontaria arriva dagli stessi gazzettieri-propagandisti che riempiono i media nostrani con titoli come “cosa c’è nella mente di Putin”, “cosa vuole Xi Jinping”, e naturalmente tutti gli altri che preoccupano appena meno.

Non possiamo garantirvi una copertura completa o sistematica, ma cominciamo a darvi qualche informazione in più, grazie in questo caso a Silvana Sale che ha tradotto un’intervista di Xinhua a Vladimir Putin, fatta poco prima della grande parata del 3 settembre per l’80esimo anniversario della vittoria sull’invasore giapponese.

Come dovrebbe esser noto, non è un personaggio che ci stia particolarmente simpatico (è salito ai vertici con Eltsin, quando veniva distrutta l’Unione Sovietica), ma forse è più attendibile sapere cosa pensa detto da lui piuttosto che attendere le invenzioni degli “indovini” spiaggiati nelle redazioni del Corriere o di Repubblica.

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lantidiplomatico

Mai così al centro del mondo la Palestina, mai così in crisi Israele

Una, cento, mille flottiglie

di Fulvio Grimaldi

Come l'AntiDiplomatico annunciamo con grande piacere la ripresa dell'editoriale a settimana di un grande giornalista come Fulvio Grimaldi nel suo spazio "Attenti al Lupo". Pur restando profondamente convinti della nostra trasmissione presente tutti i giovedì sul nostro canale Youtube e aperti a un dibattito onesto e costruttivo sulla tematica, accogliamo con grande rispetto le critiche avanzate nel testo su "Radio Gaza"

AVvXsEhXVX72jishiEbyWl5hNpCTh3F09yUEB2Per suscitare una buona disposizione alla lettura di questo mio testo, lo introduco con un furto indecente alla testata “Sinistrainrete”, dove mi ha colpito una visione davvero originale del fenomeno “Flotilla”, nostro tema ordierno. Ve ne riproduco qui un capoverso. Poi scendiamo ai piani prosaici dell’articolo mio.

Global Sumud Flotilla: eterotopie di contestazione nello spazio liscio, di Paolo Lago

Le navi della flottiglia sono mitiche anche perché si spostano come le navi degli eroi antichi creatrici di storie…. Così, la Flotilla apre il nostro immaginario a un’idea di libertà, scava in profondità nel malato immaginario contemporaneo occidentale incasellato in vuoti e imposti schemi di pensiero dominati dall’indifferenza, colpisce e ferisce nel profondo il pensiero unico dell’Occidente capitalista…  Flotilla è anche questo: un poema che apre nuovi squarci possibili al nostro immaginario, apre varchi di fuga e di resistenza all’irreggimentazione incasellante del pensiero.

Incominciamo. Mi corre l’obbligo… come direbbe colui a cui l’italiano pare bello com’era e come sarebbe senza la fregola di anglicizzarlo, al pari di cent’anni fa quando c’era, per figurare in società, quella di francesizzarlo.

Mi corre l’obbligo di parlare un tantino di me. Ma solo in quanto assurto – o disceso – al ruolo di uno cui è capitato di finire in prima fila, insieme alla sua compagna, in una batracomiomachia che ha imperversato per buona parte della stagione.

L’AntiDiplomatico è stato il campo di battaglia privilegiato in cui si è svolta la disputa, sia perché ospita alcuni dei contendenti più impegnati nella pugna, sia perché, per sue doti di saggezza, equilibrio e lungimiranza, all’un fronte come all’altro ha dato piena libertà di suonare le proprie trombe. Eliminando gli orpelli dialettici, si tratta di chi della Flottiglia Global Sumud ha una buona idea, e chi no; di chi della Palestina e Gaza ritiene di dover evidenziare i tratti umanitari imposti dalla condizione di atroce vittima, e chi ritiene urgente fare emergere l’essenzialità della sua natura politica e di resistenza combattente.

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gliasini

Il genocidio sta accadendo. Proprio in questo momento

di Giovanni Pillonca 

pance 1 2048x1435.jpgIl primo quadro che Hedges ci consegna in questo suo ultimo libro, A Genocide Foretold (ora anche in edizione italiana, per Fazi) è quello del suo ritorno, a un anno dal 7 ottobre, nei territori noti e a lui cari della Cisgiordania: egli è stato, infatti, per 7 anni a capo della sezione Medio Oriente del NYT e per il suo lavoro di giornalista è stato insignito del premio Pulitzer.

Hedges vuole incontrare un suo vecchio amico, lo scrittore Atef Abu Saif, che ha appena pubblicato Don’t Look Left: A Diary of Genocide (Boston: Beacon Press, 2024), un libro che contiene il resoconto degli 85 giorni trascorsi da Abu Saif a Gaza dove si trovava in visita a dei parenti il 7 ottobre e dove resta bloccato dall’attacco israeliano e dalla conseguente chiusura di tutti i varchi.
Abu Saif è un testimone prezioso.  Essendo nato nel 1973, ha vissuto le tragedie e le speranze del suo popolo dell’ultimo mezzo secolo, dalla guerra del Kippur, passando per le due intifada, inframmezzate dai colloqui che portarono agli accordi di Oslo, a loro volta sconfessati dall’inarrestabile processo di spossessamento prodotto dall’occupazione e da tutte le rappresaglie di Israele sui Territori e tutte le operazioni su Gaza degli ultimi vent’anni. Abu Saif si trovava, infatti, a Gaza anche durante la campagna denominata “Piombo fuso” del 2008-2009 e durante quella del 2014 chiamata “Margine protettivo” su cui si basa il suo The Drone Eats Me: Diaries From a City Under Fire.

Già a pochi giorni dall’inizio dei bombardamenti Gaza si presenta come “una landa desolata di macerie e detriti”, da cui affiorano le membra delle vittime sorprese dai bombardamenti. Mentre rischia ogni giorno la vita, Saif è colpito direttamente dalla morte di persone care, la nipote adolescente cui vengono amputate entrambe le gambe, e che chiede di morire, dall’eliminazione mirata di giornalisti, di colleghi scrittori e poeti, tra i quali l’amico Refaat Alareer, l’autore di “Se devo morire”, la poesia più tradotta e citata in questi ultimi mesi. L’eliminazione di testimoni articolati ed eloquenti come Alareer, e in genere di altri scrittori, era stata preannunciata da settimane di minacce ricevute per telefono da numeri israeliani.

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transform

Un capitalismo con caratteristiche cinesi

di Ernesto Screpanti

stelle3.jpgRecentemente mi è capitato di leggere e ascoltare diverse favole sulla natura sociale e politica della Cina, ad esempio che si tratta di un sistema socialista. In questo articolo vorrei tentare di smontarle. Ovviamente lo farò come si può fare in un articolo di dieci pagine. Per approfondire scientificamente lo studio del sistema cinese ci sarebbe bisogno di scrivere almeno due libri, uno sugli aspetti politici e uno sugli aspetti economici. Ma credo che le cose essenziali si possano dire anche in modo semplice e sintetico.

Visto che tratterò di capitalismo, imperialismo e socialismo, devo fare una breve premessa teorica. Il capitalismo lo definisco come un sistema economico in cui il lavoro è mobilitato con il contratto di lavoro subordinato e il controllo dei mezzi di produzione è assegnato al capitale, il quale usa il lavoro salariato per estrarre plusvalore e impiega il plusvalore per valorizzare e accumulare il capitale stesso. L’imperialismo lo definisco come un sistema di potere internazionale in cui il capitale di un paese sfrutta risorse umane e naturali di un altro paese e usa il plusvalore e la ricchezza così estratti per valorizzare e accumulare il capitale su scala mondiale.

Più difficile è definire il socialismo, se non altro per la varietà di teorie cui si può attingere. Per essere più ecumenico possibile, lo definirò facendo riferimento a due posizioni molto diverse, quasi polarmente opposte. In tal modo chiunque può scegliere quella che preferisce, tra la gamma di definizioni collocabili tra i due poli, e ognuno può valutare come vuole il grado di socialismo di un sistema reale. La prima definizione la definirò “marxista”, pur sapendo che qualche marxista non la condividerà. Secondo questo punto di vista, il socialismo è un sistema in cui il reddito è distribuito in modo da dare a ognuno secondo le sue capacità, il potere economico in modo da assegnare ai produttori il controllo della produzione e il potere politico in modo da attribuire al popolo il controllo democratico dello stato. La seconda definizione la definirò “bellamista”.

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krisis.png

Che cosa vuole la Cina?

di David C. Kang, Jackie S. H. Wong e Zenobia T. Chan

L’analisi controcorrente della rivista americana «International Security», che ha riaperto il dibattito sugli obiettivi di Pechino

1280px Embroidery view 2 China Tung Chih Period silk George Walter Vincent Smith Art Museum DSC03828 2Krisis presenta l’abstract del saggio comparso ad agosto su International Security, rivista statunitense pubblicata da MIT Press e considerata la più autorevole nel campo delle Relazioni internazionali. I tre autori, che insegnano in università americane, hanno analizzato 12.000 articoli e centinaia di discorsi del presidente Xi Jinping per capire le effettive intenzioni di Pechino. I dati emersi mostrano una Cina a difesa dello status quo, concentrata sulla stabilità interna e su obiettivi regionali chiari e limitati. Pur non lesinando critiche a Pechino, gli studiosi concludono dicendo che la minaccia militare cinese è sovrastimata: «La Cina non vuole invadere e conquistare altri Paesi».

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L’opinione corrente sostiene che la Cina è una potenza egemonica emergente, desiderosa di rimpiazzare gli Stati Uniti, dominare le istituzioni internazionali e ricreare l’ordine internazionale liberale a propria immagine. Basandoci su dati tratti da 12.000 articoli e da centinaia di discorsi di Xi Jinping, per discernere le intenzioni della Cina abbiamo analizzato tre termini o espressioni della retorica cinese: «lotta» (斗争), «l’ascesa dell’Oriente, il declino dell’Occidente» (东升西降) e «nessuna intenzione di sostituire gli Stati Uniti» (无意取代美国).

I risultati della nostra indagine indicano che la Cina è una potenza a difesa dello status quo, preoccupata della stabilità del regime e più rivolta verso l’interno che verso l’esterno. Gli obiettivi della Cina sono inequivocabili, durevoli e limitati: si preoccupa dei propri confini, della sovranità e delle relazioni economiche estere. Le principali preoccupazioni della Cina sono quasi tutte regionali e collegate a parti della Cina che il resto della regione riconosce come cinesi – Hong Kong, Taiwan, Tibet e Xinjiang.

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Furedi: sacrosanta critica del politicamente corretto o apologia dell'imperialismo occidentale?

di Carlo Formenti

guerra passato.jpgRiprendo a scrivere su questa pagina dopo una lunga pausa, che non è purtroppo dipesa dall’essermi dedicato a sollazzi balneari o a passeggiate fra ameni boschi montani, bensì dal fatto che mi sono dedicato a tempo pieno a completare la prima stesura di un libro che uscirà dall’editore Meltemi nei primi mesi del 2026, quasi contemporaneamente a un lavoro di Alessandro Visalli. I due volumi avranno lo stesso titolo Oltre l'Occidente, benché con sottotitoli diversi, in quanto sono parte di un unico progetto al quale lavoravamo da tempo. Dirò qualcosa in merito a conclusione dell’articolo che trovate qui di seguito, soprattutto per sottolineare che le nostre riflessioni divergono di centottanta gradi rispetto a quelle dell’autore che sto per commentare.

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Una delle massime più sballate di cui io sia a conoscenza è quella che recita “il nemico del mio nemico è mio amico”. Si tratta di un principio basato su un logica binaria e paranoica. Binaria, nel senso che semplifica brutalmente la realtà, riducendola a una serie di opposizioni: questo o quello, l’uno o l’altro, sopra o sotto, destra o sinistra, un punto di vista che rispecchia lo spirito di un’epoca dominata dalla successione di zero e uno che consente il funzionamento dei computer, macchine chiamate anche calcolatori appunto perché calcolano, non pensano, ma simulano il pensiero umano. Paranoica, perché rassicura chi non riesce a comprendere la complessità del reale, con le sue contraddizioni, ambiguità e sfumature, consentendogli di distinguere a priori chi e cosa considerare amico da chi e cosa guardarsi in quanto nemico (reale, possibile o immaginario). A ricordarmi quanto sia sbagliata la massima di cui sopra è stata la lettura di un libro fresco di stampa: La guerra contro il passato. Cancel culture e memoria storica di Frank Furedi (Fazi editore). 

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contropiano2

“La Sumud Flotilla vuole aprire un corridoio per Gaza”

di Alessio Ramaccioni intervista Maria Elena Delia

Sumud barca.jpgTra qualche giorno inizierà il viaggio della Global Sumud Flottilla, la più grande missione marittima civile coordinata della storia per sfidare il blocco illegale imposto da Israele sulla Striscia di Gaza. Imbarcazioni di ogni dimensione salperanno da più porti, convergendo verso Gaza per aprire un corridoio umanitario e chiedere la fine del genocidio.

Con una serie di interviste, approfondimenti e collegamenti dalle navi, Radio Città Aperta seguirà questi ultimi giorni di preparazione, gli eventi, la partenza ed il viaggio. Sulle nostre piattaforme social e sul sito potrete ascoltare i podcast e seguire gli approfondimenti.

In questo primo episodio dello Speciale Maria Elena Delia, portavoce del Global Sumud Flottilla, spiega come è nato il progetto, che obiettivi si pone di raggiungere e racconta cosa sta succedendo in questi ultimi giorni di preparativi.

L’intervista è a cura di Alessio Ramaccioni.

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Come annunciato dalle nostre piattaforme social e dal sito, inizia oggi il racconto di Radio Città Aperta, il contributo al racconto da parte di Radio Città Aperta, del viaggio della Global Sumud Flottiglia, che vuole rompere il blocco israeliano a Gaza, aprendo un corridoio umanitario. Questa prima puntata avrà come protagonista Maria Elena Delia, che è la portavoce italiana di Global Sound Flottiglia. Da qui ai prossimi giorni proporremo interviste, approfondimenti e collegamenti dalle navi, nel corso della traversata. Entriamo nel merito con Maria Elena: vi aspettavate la visibilità, il consenso, le adesioni che stanno arrivando numerose in queste settimane?

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intelligence for the people

Israele avvia la soluzione finale a Gaza City

di Roberto Iannuzzi

La nuova operazione militare punta a spopolare e cancellare la città, sospingendo i palestinesi verso sud in vista della definitiva pulizia etnica della Striscia. L’Occidente tace

2970296b ea14 4295 85c4 c54efe6ca3c6 3432x2109In un mese di agosto ricco di notizie internazionali ma scarso di risultati incoraggianti, il presidente americano Donald Trump, dopo aver avviato un inconcludente sforzo negoziale in Alaska riguardo al conflitto ucraino, durante un interludio della guerra dei dazi ha autorizzato attacchi militari contro i cartelli della droga in Messico e dispiegato forze navali USA al limite delle acque territoriali venezuelane.

La Casa Bianca è anche molto attiva in Medio Oriente, dal Caucaso al Libano dove la campagna USA di pressione nei confronti del governo locale affinché disarmi Hezbollah rischia di scatenare una guerra civile. Sullo sfondo rimangono le irrisolte tensioni con l’Iran e il rischio di un secondo round nello scontro fra Tel Aviv e Teheran.

Se la guerra in Ucraina e le altre perturbazioni internazionali ci ricordano che la crisi mondiale legata al declino dell’egemonia statunitense non ammette pause estive, è la Palestina – in primo luogo con l’immane catastrofe di Gaza – a rimanere l’epicentro del collasso morale dell’Occidente.

 

Cancellare Gaza City

Nell’inerzia delle capitali europee, e con il consenso di fatto accordato da Washington, gli aerei e i carri armati israeliani hanno già iniziato a martellare i quartieri a nord e a est di Gaza City, in base a un piano del governo Netanyahu approvato lo scorso 8 agosto, il quale prevede che Israele assuma il pieno controllo militare della Striscia a cominciare dalla regione settentrionale.

In coincidenza con l’avvio di quella che i vertici militari israeliani hanno definito la seconda fase dell’operazione “Carri di Gedeone”, un nuovo ordine di evacuazione è stato emanato per i residenti di Gaza City dove centinaia di migliaia di persone erano tornate durante il cessate il fuoco dello scorso gennaio.

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lantidiplomatico

Venezuela, storie di bufale e cartelli

di Geraldina Colotti

njvwseihkugtjkvLa notizia è ormai nota: il mese scorso, Trump ha firmato una direttiva, ancora segreta, in cui dava istruzioni al Pentagono di usare la forza militare contro alcuni cartelli della droga che il suo governo ha classificato come organizzazioni terroristiche. Quasi in contemporanea, gli Usa hanno dichiarato che una di queste organizzazioni si chiama Cartel de los Soles, e che è capeggiata dal presidente venezuelano, Nicolás Maduro. Un presidente illegittimo, secondo gli Stati uniti che, per bocca del loro Segretario di Stato, il rabbioso anticomunista, Marco Rubio, hanno dichiarato di aver aumentato la “taglia” sulla sua testa fino a 50 milioni di dollari. Quella precedente – di 15 milioni – era stata decisa da Trump nel 2020, durante il suo primo mandato.

Una canagliata subito ripresa ed enfatizzata dall'estrema destra venezuelana (che preme affinché Trump “faccia sul serio”), e dai giornali mainstream, che avallano l'accusa di “narco-stato” e il far-west trumpista, così come hanno avallato in precedenza il circo dell'”autoproclamazione” di un governo fittizio: per appropriarsi di un malloppo però assai reale come sono i beni del paese all'estero (per inciso, gli europei stanno facendo la stessa cosa con i fondi russi). Mostrare evidenza del contrario, è come convincere un terrapiattista che la terra è rotonda. Il meccanismo delle fake-news è un circolo perverso che si alimenta da sé e occulta l'inesistenza di una fonte attendibile. È stato così fin dalla messa in moto di questa balla spaziale sul Cartel de los soles, con cui inizialmente uno dei principali giornali di opposizione ha calunniato in Venezuela il vicepresidente del PSUV, Diosdado Cabello, oggi ministro degli Interni e Pace.

Nel libro La comunicación liberadora, che abbiamo pubblicato con l'Università internazionale della Comunicazione (LAUICOM), la giornalista e deputata, Tania Diaz, oggi rettrice dell'università, ha raccontato come sia stata una squadra di reporter ben collaudati a scoprire che quello “scoop” si basava su una falsa notizia di partenza: quella secondo cui era stata depositata presso un giudice di New York una presunta denuncia contro Diosdado in quanto capo del Cartel de los soles.

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Dall’Ucraina a Gaza: il doppio standard dell’Occidente

di Elena Basile

SIPA ap22822126 000109 scaled 1.jpgSe vogliamo avere contezza delle contraddizioni delle oligarchie illiberali bisogna concentrarsi sul pensiero progressista e stanare l’ipocrisia che lo domina. Sono colpita da come i media più ascoltati riescano a continuare a sabotare i deboli tentativi di mediazione che Mosca e Washington potrebbero raggiungere sull’Ucraina e presentarsi, insieme alle classi dirigenti europee, come i detentori di una morale basata su Rule of Law e diritti umani. Era chiaro ai più che la difesa di questa narrativa non era conciliabile con il sostegno al genocidio in corso a opera di Netanyahu.

Questo spiega come mai su alcuni giornali del mainstream la denuncia dei crimini di guerra in Cisgiordania, del genocidio di Gaza e del regime fascista di Netanyahu, Smotrich e Ben Gvir sia ormai comune. Articoli che ci consolano e che potrebbero uscire dalla nostra penna. La denuncia del terrorismo di Stato di Israele non è tuttavia accompagnata dalla proposizione realistica di politiche di concreto isolamento del Paese. L’unica possibilità di frenare la hybris israeliana sarebbe costituita dalla fine della cooperazione politico-militare, economica ed energetica con Israele da parte dei Paesi europei. Sanzioni dure, diciotto pacchetti di sanzioni alla stregua di quelle applicate alla Russia, dovrebbero essere fortemente sostenute. Ursula von der Leyen e Kallas potrebbero essere assediate e costrette ad affermare che l’UE ha raggiunto una decisione comune dalla quale si astengono l’Ungheria, l’Italia e pochi altri. Non avviene, purtroppo.

Messi alle strette, i Macron, Starmer e Scholz, per citare i più influenti, che fingono di disapprovare il genocidio, l’apartheid e l’invasione di Gaza, non oserebbero prendere alcuna misura concreta che penalizzi Israele. Si tratta della stessa posizione di tanta parte della diaspora ebraica che si mette la coscienza a posto con la critica al genocidio di Netanyahu, considerato un incidente di percorso di una storia di Israele mai esaminata nelle sue premesse, che hanno determinato i crimini odierni.

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contropiano2

Come i ‘diritti umani’ sono diventati un’arma occidentale

di Kit Klarenberg*

Kit Klarenberg denuncia come l’Occidente abbia trasformato i ‘diritti umani’ in un’arma dopo gli accordi di Helsinki, trasformando un’idea nobile in uno strumento per regime change, sanzioni e guerre imperialiste.

Helsinki act.jpgIl 1° agosto ha segnato il 50° anniversario della firma degli Accordi di Helsinki. Il giubileo d’oro dell’evento è trascorso senza grandi commenti o riconoscimenti da parte del grande pubblico. Eppure, la data è assolutamente ‘sismica’, le cui conseguenze distruttive si ripercuotono ancora oggi in tutta Europa e oltre. Gli Accordi non solo hanno sancito la condanna a morte dell’Unione Sovietica, del Patto di Varsavia e della Jugoslavia anni dopo, ma hanno anche creato un mondo nuovo, in cui i ‘diritti umani’ – in particolare, una concezione occidentale e imposta – sono diventati un’arma formidabile nell’arsenale dell’Impero.

Gli Accordi miravano formalmente a concretizzare la distensione tra Stati Uniti e Unione Sovietica. In base ai loro termini, in cambio del riconoscimento dell’influenza politica di quest’ultima sull’Europa centrale e orientale, Mosca e i suoi satelliti del Patto di Varsavia accettarono di sostenere una definizione di ‘diritti umani’ che riguardasse esclusivamente le libertà politiche, come la libertà di riunione, espressione, informazione e movimento. Le tutele di cui godevano universalmente gli abitanti del blocco orientale – come la garanzia di istruzione gratuita, lavoro, alloggio e altro – erano del tutto assenti da questa tassonomia.

C’era un altro inconveniente. Gli Accordi portarono alla creazione di diverse organizzazioni occidentali incaricate di monitorare il rispetto dei termini da parte del Blocco Orientale, tra cui Helsinki Watch, precursore di Human Rights Watch. Successivamente, queste entità visitarono frequentemente la regione e strinsero stretti legami con le fazioni politiche dissidenti locali, supportandole nelle loro attività di agitazione antigovernativa. Non si parlava nemmeno di invitare rappresentanti dell’Unione Sovietica, del Patto di Varsavia o della Jugoslavia a valutare il rispetto dei ‘diritti umani’ in patria o all’estero da parte degli Stati Uniti o dei loro vassalli.