Effetti culturali dell’economia neoliberista V
di Luca Benedini
(Quinta parte – Neoliberismo, dinamiche psicologico-emotive e vita relazionale: prima metà del discorso, con un approfondimento sulla naturalità della filosofia dialettica)*
Osservazioni e riflessioni a tutto campo su dipendenze, proiezioni, dualismi,
sfasature tra i sessi e forme di venerazione sociale di cosiddetti leader
carismatici, tanto più nell’attuale mondo dominato dall’ideologia neoliberista
Prima di inerpicarsi nei vari aspetti di una possibile integrazione tra il “socialismo scientifico” marx-engelsiano e le forme di esperienza, di pensiero e di movimenti alternativi più congrue, profonde e costruttive che si sono sviluppate nell’ultimo centinaio d’anni (integrazione che è stata delineata nella quarta parte del presente intervento), appare opportuno – e per molti versi intrinsecamente necessario – approfondire nel loro insieme una serie di tematiche psicologico-emotive e relazionali che riguardano il modo stesso in cui viviamo e in cui, più in particolare, affrontiamo le varie situazioni e circostanze nelle quali ci veniamo a trovare.
Naturalmente, anche i modi in cui affrontiamo i vari temi che ci si presentano nell’ambito della vita sociale possono essere profondamente influenzati da tali tematiche, benché si tratti di un argomento che è rimasto praticamente escluso dal “cielo della politica” sia durante il ’900 che in questo inizio di secolo: un’esclusione che è avvenuta non certo per caso, ma per tutelare le ambizioni personali e le tendenze ideologiche che – con pochissime, rare e solo parziali eccezioni – hanno drammaticamente predominato nella politica in tutto questo periodo, impoverendo molto pesantemente il lato umano, relazionale e intimamente democratico della politica stessa (lato che invece dovrebbe essere fondamentale in qualsiasi società che al suo interno intenda limitare fortemente il classismo e i suoi tipici effetti umanamente devastanti o che, addirittura, sia orientata esplicitamente al superamento di qualsiasi forma di classismo).
1. Sfera economica e sfera psicologico-emotiva, in rapporto col processo umano di crescita
Il senso di precarietà – e spesso di sostanziale esclusione – che il neoliberismo porta con sé sul piano sociale ed economico per le classi lavoratrici, e non di rado anche per molti piccoli imprenditori, tende ad accentuare nettamente in queste fasce sociali non solo l’insicurezza economica, ma indirettamente anche quella psicologico-emotiva.
Ciò specialmente tra coloro che a proposito delle dinamiche caratteristiche dell’economia neoliberista non colgono il loro aspetto deliberato e il loro intrinseco senso politico: senso che è costituito dall’avere come intento un dominio di classe sfacciato ed estremamente aggressivo, anche se attuato di solito per via indiretta attraverso soprattutto l’orientamento macroeconomico, che evita volutamente di tutelare l’occupazione, i servizi pubblici disponibili ai lavoratori, il loro tenore di vita, le esigenze di molte piccole aziende a confronto con le grandi, ecc.. Se non si colgono questi significati fondamentali, si finisce facilmente col sentirsi personalmente responsabili – del tutto o quasi – per le proprie eventuali difficoltà economiche (fino magari, nei casi più dolorosi, a vedersi come un perdente, un incapace, una persona irrecuperabilmente povera di senso pratico e di capacità di adattamento, un fallito, oppure uno “sfortunato cronico”).
Impegnarsi consapevolmente contro il neoliberismo, e per un’economia capace di esprimere attenzione per tutta l’umanità e per tutto il mondo vivente [220], non è quindi soltanto un modo per contribuire a liberare se stessi e la società da un’ideologia cinica, brutale e crudele e dai suoi effetti devastanti, ma è anche un modo attraverso cui persone che vivono difficoltà simili possono associarsi fattivamente tra loro evitando di colpevolizzare drammaticamente se stessi per tali difficoltà – che nella sostanza non sono affatto prevalentemente individuali, ma sono invece qualcosa di principalmente sociale e soprattutto politico – e cercando appunto di risolverle anche mediante un’azione sociale e politica.
Nel contempo, va sottolineato che ciò che secondo il nostro senso etico, umano e valoriale “dovremmo” fare nella sfera pubblica può essere pesantemente inibito non solo da fattori cui si è già fatto cenno precedentemente [221] – come l’atteggiamento individualistico capillarmente propagandato dalla “cultura di massa” neoliberista e la tipica esperienza popolare di soverchianti preoccupazioni, incertezze e timori nella sfera socio-economica e di faticose incombenze nella vita quotidiana – ma anche dalla presenza di insicurezze, tensioni, paure e blocchi nella sfera psicologico-emotiva. In altre parole, le profonde consapevolezze relative al campo politico-sociale tendono ad aver bisogno – per potersi esprimere e per poter incidere concretamente nella società – di coinvolgere in una sorta di rivoluzione vitale, creativa e liberatoria anche la vita interiore delle persone. Quest’ultima e la coscienza politico-sociale potranno in tal modo arricchirsi a vicenda, così che l’una potrà facilitare reciprocamente la fioritura dell’altra (argomento che in maniera estremamente essenziale è stato già toccato – da un punto di vista leggermente diverso, ma sempre collegato al senso della naturale interezza della personalità umana – nell’appendice inserita alla fine del precedente intervento Il neoliberismo non è una teoria economica) [222].
A proposito dell’evoluzione personale di ciascun essere umano va sottolineato che, se è vero che – come avviene ai piccoli anche di molte altre specie animali, soprattutto fra i mammiferi e gli uccelli – nasciamo in pratica in una situazione di totale dipendenza (avendo bisogno di essere nutriti, accuditi, protetti dalle intemperie, istruiti, possibilmente coccolati, ecc.), il nostro processo di crescita è in pratica un processo di autonomizzazione in cui si interiorizzano delle esperienze e delle conoscenze (che costituiscono in pratica gli stadi primari dell’istruirsi) e parallelamente si sviluppa la propria capacità di valutare, riflettere, scegliere e agire e in cui, nel contempo, si impara a passare dalla fase di dipendenza dagli altri ad una fase di collaborazione con gli altri. All’interno di questo processo, nell’esperienza umana vi è una sorta di fondamentale passaggio intermedio: il riconoscimento della propria individualità, il quale a sua volta implica il riconoscimento di una relativa diversità rispetto a tutte le altre persone e porta tendenzialmente con sé l’esigenza di affermare in una certa misura tale individualità per non renderla “inutile” e sostanzialmente non vissuta e non espressa.... Si tratta di un processo che tende a portare spontaneamente all’emergere – nella personalità di ciascuno – sia di una naturale (e non pretenziosa o arrogante) fiducia e convinzione in se stessi, spesso chiamata “sana autostima” in psicologia, sia del riconoscimento del valore intrinseco di ogni altra persona (in quanto a quel punto non si può non riconoscere anche negli altri la loro individualità, la loro relativa diversità con la sua peculiarità, la loro esigenza di esprimersi, e via di seguito) [223], così che permane un sostanziale equilibrio di fondo tra l’avvertire il senso del proprio valore e l’avvertire il senso del valore degli altri [224].
Inoltre – come si osservava ancora nell’appendice di Il neoliberismo non è una teoria economica, in sintonia con tematiche sapienziali o esistenzialiste comuni a vari luoghi, epoche ed autori (dall’antico filosofo taoista cinese Lao-tze all’altrettanto antico libro biblico di Giobbe, dal filosofo mitteleuropeo novecentesco Martin Heidegger al complesso rock statunitense dei Doors), e come si è già ricordato nella quarta parte del presente intervento (alla fine del paragrafo iniziale, riguardante le politiche keynesiane) – dal punto di vista intellettivo ed esistenziale dovremmo arrivare a renderci conto che questo mondo evidentemente non appare avere dei riguardi particolari per noi: ci espone a disastri naturali, a malattie potenzialmente devastanti, ecc., per non parlare dei rischi derivanti dal comportamento di altri esseri umani; per di più, non appaiono esservi sintonie di fondo che accompagnino il nostro venire al mondo, così che gran parte delle potenzialità creative di ciascun essere umano finisce frequentemente col rimanere inespressa e che parallelamente prende forma la tendenza a «un enorme spreco di risorse umane» e a «un grandissimo accumulo di sofferenze esistenziali».... Dovremmo pertanto arrivare alla consapevolezza che non possiamo aspettarci che il cosmo ci invii automaticamente e soprattutto sistematicamente per conto suo (attraverso dei suoi “meccanismi intrinseci” a noi attenti e favorevoli) ciò a cui aspiriamo.
E dovremmo dunque apprendere, da un lato, a coltivare per conto nostro la nostra salute nel suo complesso [225] e le nostre altre sfaccettate potenzialità di fondo, favorendo in concomitanza un analogo sviluppo delle potenzialità altrui; da un altro lato, a proporci agli altri (o per lo meno a coloro che ci appaiono più disponibili e interessati), a chiedere loro collaborazione e partecipazione alla nostra vita – offrendo evidentemente nel contempo la nostra collaborazione e partecipazione alla loro vita – e a sviluppare la nostra capacità di comunicare (nella quale sono inclusi tanto l’esprimersi quanto l’ascoltare); da un terzo lato, a non temere di fare innovazioni creative e costruttive nella nostra vita a paragone di quella degli altri intorno a noi (e ciò tanto più se chi ci sta intorno non risponde in maniera positiva alle nostre proposte, alla nostra ricerca di collaborazione e di condivisione e ai nostri inviti); parallelamente, da un quarto lato, a mettere interiormente in discussione – così da potersene difendere più efficacemente nel concreto – eventuali atteggiamenti pressanti provenienti dall’ambiente famigliare o dall’ambiente sociale circostante e comprendenti rigidi modelli prefissati di comportamento, schemi concettuali impostati in modo tendenzialmente assolutistico e/o richieste personali invadenti, aggressive e strumentali; e, da un quinto lato, a sviluppare la nostra flessibilità, duttilità e resilienza, in modo da saperci adattare alle mutevoli circostanze che incontriamo e nel contempo non abbandonare i nostri obiettivi intimi di fondo e la nostra bussola interiore – portatrice di saggezza intuitiva e/o riflessiva – anche quando le circostanze sembrano esserci insistentemente e pervicacemente nemiche. Si tratta di direzioni evolutive che sono tutte collegate sia a quella consapevolezza, e conseguentemente anche alla nostra situazione esistenziale di fondo dalla quale tale consapevolezza nasce, sia indirettamente al senso dell’onnilateralità che – come hanno espresso tanto Marx specialmente nei suoi Manoscritti economico-filosofici del 1844 quanto vari altri filosofi e “maestri di saggezza” nel corso della storia – è quanto mai intrinseco all’essere umano.
Tra l’altro, il neoliberismo tende ad accentuare enormemente sia quegli atteggiamenti pressanti sia le circostanze che ci si presentano in modo negativo, dal momento che esso appare assecondare soltanto le aspirazioni materiali e – in parte – intellettuali delle classi privilegiate, mentre appare opporsi a tutte le altre aspirazioni personali di una certa ampiezza e profondità: qualsiasi aspirazione di fondo delle classi popolari e, nel contempo, anche le eventuali aspirazioni di tipo sociale e/o spirituale che qualche esponente delle classi privilegiate possa cercare di coltivare nella propria vita.... Più in particolare, per quanto riguarda le classi popolari il neoliberismo cerca di impegnarle totalmente – e sfiancarle – in una sorta di perpetua competizione e lotta per la sopravvivenza e per un po’ di benessere economico, ottenendo così anche l’effetto di contribuire a limitare e “ingessare” queste classi da punti di vista come quello culturale, quello esistenziale e soprattutto quello socio-politico. E, più funziona quest’effetto limitante e “ingessante”, più nelle classi popolari finiscono col predominare per un motivo o per l’altro gli atteggiamenti pressanti in questione, dai quali in pratica ci si ritrova a doversi difendere se si vogliono salvaguardare in misura consistente la propria libertà interiore e concreta e la propria creatività esistenziale...
2. A mo’ di riassunto storico e di premessa: il duplice ritorno novecentesco all’estremamente precaria socialità liberista in economia (dopo lo “Stato sociale” – o welfare – keynesiano) e al socialismo utopistico nella politica della cosiddetta “sinistra” (dopo il “socialismo scientifico” marx-engelsiano)
L’impatto esistenziale dell’economia neoliberista sul mondo è tale che appaiono essere bastati alcuni decenni di tale economia per generare diffusamente, nelle persone, intense difficoltà sia nella percezione della propria identità, sia nel riconoscere la naturale complessità e multidimensionalità della propria personalità, sia nei rapporti interpersonali. In tal modo, da un lato si tende a far poggiare la propria identità su fattori esterni ad essa, come l’uso di particolari beni di consumo, il sentirsi parte di qualche gruppo sociale definito primariamente da certi aspetti etnico-culturali o religiosi, oppure – per chi appartiene a qualcuno degli strati sociali privilegiati – un elevato reddito; da un altro lato, ci si abitua di fatto al continuo manifestarsi di divisioni e fratture nella propria personalità, non necessariamente uguali sempre a se stesse nel corso del tempo ma sovente mutevoli pur in una loro continuità di fondo; e, da un terzo lato, i rapporti interpersonali tendono a divenire oltremodo complicati, rarefatti, timorosi e superficiali, oppure a risultare pieni di forzature e di egocentrismo e tendenti ad una sorta di grezza istintualità alquanto cruda e rozza e/o alla strumentalizzazione degli altri, oppure ancora ad acquisire la forma di un miscuglio – complesso e comunque involuto e spigoloso – di queste due caratteristiche (in altre parole, un po’ di rarefazione e timorosità e un po’ di egocentrismo e strumentalità). Si torna paradossalmente così, a dispetto dell’enorme evoluzione tecnologica avvenuta nel frattempo, ad una situazione culturale paragonabile per molti versi a quella su cui proiettò la propria attenzione con estrema acutezza e con intenso senso critico il giovane Karl Marx durante gli anni ’40 dell’Ottocento (soprattutto nei testi che poi divennero noti appunto come i Manoscritti economico-filosofici del 1844, che – come suggerisce la “Prefazione” contenuta in uno di tali manoscritti – erano presumibilmente parte di un progetto librario unitario che l’autore cercò di pubblicare all’epoca trovando però difficoltà eccessive, di modo che quei testi rimasero anche incompleti per diversi aspetti e solo nel 1932 ne apparve un’edizione postuma strutturata dai dei curatori, alla quale recentemente è stato associato da vari commentatori anche un altro manoscritto marxiano di quell’anno: le Note su James Mill, anch’esse peraltro pubblicate postume nel 1932). Si tratta di situazioni in cui le persone vengono tendenzialmente allontanate con grande insistenza sia da aspetti di se stesse come in particolare il proprio profondo e appunto la propria multidimensionalità, sia dalla creatività e dalla capacità di incidere nella vita sociale, come cominciò a percepire su scala crescente mezzo secolo più tardi anche la psicoanalisi, nata appunto nel tardo Ottocento.
Nei quasi 200 anni che sono trascorsi dalla metà di quel secolo, si sono progressivamente diffuse anche altre tipologie di “oppio del popolo” oltre alle forme religiose impostate in senso classista, moralista, sciovinistico, ritualistico, ecc. delle quali parlava allora Marx (in particolar modo nella sua Introduzione alla critica della filosofia del diritto di Hegel, un lungo articolo pubblicato nel febbraio 1844 subito prima di dedicarsi a quei manoscritti). Da un lato, si sono sviluppate dinamiche come l’insistenza mediatica su programmi d’intrattenimento popolare prima narrativi e teatrali (come ad esempio i feuilleton e l’operetta) e poi soprattutto cinematografici e televisivi (molti dei quali ormai oggi sono sempre accessibili tramite Internet), sul divismo di molti protagonisti dello spettacolo e dello sport (un divismo peraltro non sempre voluto, ma a volte subìto per via dei fan e dei paparazzi) e sui pettegolezzi – il famoso gossip – dedicati appunto ai “divi” del momento e come, di recente, anche i social network e per certi aspetti le ultime generazioni dei telefonini stessi (le quali mettono a disposizione di chi le usa un continuo collegamento non solo con gli altri telefoni ma pure con Internet) [226]. Da un altro lato, col diffondersi delle idee di tipo democratico tra ’800 e ’900 nel mondo (non si dimentichi che anche i regimi del “socialismo reale” – pur essendo impostati rigidamente dall’alto – cercano dalla loro nascita di definirsi pubblicamente come “democratici”, avendo assunto generalmente il nome di “democrazie popolari” e ripetendo questa terminologia infinite volte in discorsi, scritti, programmi televisivi, ecc...), i moderni mass-media – giornali, riviste, libri, cinema, radio, televisione, Internet, ecc. – vengono usati non solo per intrattenere e distrarre le persone, ma anche per inondarle molto frequentemente di pubblicità consumistica e per cercare di influenzarle e manipolarle politicamente spingendole a credere a dei finti obiettivi collettivi e a delle fandonie inventati tipicamente da qualche politico in nome delle proprie ambizioni personali e più spesso anche a favore delle élite economiche, che per procurarsi consenso, agio politico e collaborazione a vasto raggio cercano comunemente di spacciarsi per “benefattrici dell’umanità” benché solitamente il loro orizzonte sia alquanto angusto e si limiti ai loro ristrettissimi interessi materiali di breve termine [227].... E, da un terzo lato, alla frequente abitudine ad abbondanti assunzioni di bevande alcoliche si è aggiunta l’accessibilità di una serie pressoché infinita di droghe e psicofarmaci di origine non solo naturale ma anche – e ormai soprattutto – sintetica. È una questione sempre più problematica perché nel tempo gli stupefacenti e gli abusi di alcool inducono tendenzialmente considerevoli danni fisiologici – soprattutto epatici e cerebrali – a chi ne fa un uso piuttosto ampio, danni che possono anche colpire in modo particolarmente rapido chi appare avere una particolare sensibilità a queste sostanze (che oltre tutto oggi facilitano anche, specialmente tra i giovani, il ricorso a musiche ripetitive e ipnotiche come induttrici di “sballi neurologici” che a loro volta diventano una sorta di ulteriore “giustificazione” di tali sostanze, in un “circolo vizioso” che è decisamente pericoloso per la salute delle persone e che si presenta tipicamente ad esempio nei rave party o più semplicemente in molte discoteche e “feste private”).
Ma, anche se rispetto alla metà dell’Ottocento sono aumentate le tipologie correnti di “oppio del popolo”, le dinamiche psicologiche implicate in quelle tipologie e soprattutto nelle dinamiche economiche della società sono rimaste simili a quanto posto in evidenza da Marx in quei Manoscritti e in altri suoi scritti filosofici di quel periodo: una diffusissima tendenza all’estraniazione dal proprio lavoro; all’interno della singola persona, una contrapposizione tra il proprio pensiero (che per motivi di sopravvivenza cerca di spingere la persona stessa a uniformarsi alle richieste correnti del “sistema produttivo” anche se brutali e insensibili) e la propria essenza (che vorrebbe esprimere creativamente e liberamente le variegate e molteplici potenzialità umane); per reazione, una spinta emotiva a rifugiarsi durante il proprio scarso tempo libero in una istintualità grezza e meccanicistica in cui il pensiero viene messo da parte quanto possibile e in cui finisce con l’essere comunemente sacrificata anche l’affettività profonda; una complessiva alienazione esistenziale.... Questo permanere di dinamiche simili a distanza di quasi due secoli appare strettamente collegato anche – e soprattutto – al ruolo dominante mantenuto nella società dalla sfera economica durante tutto questo periodo e, parallelamente, alla sostanziale somiglianza esistente tra i meccanismi dell’economia liberista ottocentesca e quelli dell’economia neoliberista attuale (paradossalmente, anche nei regimi del cosiddetto “socialismo reale” avviatosi nel ’900 i gruppi dirigenti di tali regimi hanno mantenuto sia quella dominanza della sfera economico-produttiva nella società sia molti degli aspetti concreti collegati nelle società capitalistiche a tale dominanza, come la tendenza alla gerarchia e al dirigismo, con l’effetto generale di dinamiche psicologiche di massa simili a quelle presenti nel mondo capitalistico e talvolta – addirittura – ancor più marcate nella loro tendenza alienante...). Peraltro, Marx durante la sua vita non sembra essersi reso pienamente conto del significato culturale estremamente profondo di molte parti di quei Manoscritti (e specialmente delle parti che, nella tipica sistemazione del testo in dieci capitoli messa a punto dai curatori, occupano i posti dal quarto al nono capitolo) e anche delle Note su James Mill, visto che dal 1847 in poi si dedicò a scrivere quasi solo di argomenti strettamente economici o politici (dei quali ovviamente vi era un estremo bisogno nella società del tempo, ma in effetti vi era bisogno anche di argomenti più filosofico-culturali e psicologici...) [228]. A questo proposito, verrebbe da dire che per fortuna i manoscritti in questione si sono conservati (anche se col tempo diverse pagine sono andate perdute, a quanto pare), così – sia pure quasi un secolo dopo la loro redazione – ci sono stati resi disponibili e con la loro lucidità e il loro acume hanno potuto riscaldare, stimolare e incoraggiare la creatività, il senso vitale e la spinta innovativa di molti lettori.
Riguardo all’aumento – che è stato soprattutto novecentesco – delle tipologie esistenti di “oppio del popolo”, si può qui sottolineare di nuovo che, benché ci siano stati politici di spicco e partiti di peso che in certi momenti hanno cercato di impiegare localmente le politiche keynesiane per giungere ad un miglioramento non solo del tenore di vita delle classi lavoratrici e della stabilità economica ma anche della complessiva “qualità della vita” di tali classi, durante i decenni in cui nel mondo ad “economia di mercato” si sono diffuse moltissimo quelle politiche (tra i quali in special modo gli scorsi anni ’50, ’60 e ’70, cioè il periodo particolarmente collegato al boom economico) la tendenza dominante nei governi è stata quella di tentare di utilizzarle solo in senso economico, senza dare minimamente respiro e spazio a quella “qualità della vita”: una tendenza riduttiva e per molti versi soffocante che già durante quei decenni era stata denunciata in modo particolarmente potente in diversi testi già ricordati in parti precedenti del presente intervento, come L’uomo a una dimensione, di Herbert Marcuse (Einaudi, 1967), Il potere di tutti, di Aldo Capitini (La Nuova Italia, 1969), L’umanesimo socialista, a cura di Erich Fromm (Dedalo, 1971), La rivoluzione più lunga - Saggi sulla condizione della donna nelle società a capitalismo avanzato, a cura di Mariella Gramaglia (Savelli, 1972), La convivialità, di Ivan Illich (Mondadori, 1974), Lo sviluppo ineguale, di Samir Amin (Einaudi, 1977), e Lavoro e capitale monopolistico - La degradazione del lavoro nel XX secolo, di Harry Braverman (Einaudi, 1978).
Se quell’atteggiamento politico predominante ha fortemente favorito appunto l’aumento di tali tipologie durante quei decenni, la controcultura degli anni ’60 e ’70 – stimolata anche da correnti di pensiero sviluppatesi precedentemente nel ’900 come specialmente la psicoanalisi, i movimenti anticolonialisti del Terzo mondo, le prime forme moderne di femminismo radicale (delle quali fu espressione principalmente il libro di Simone de Beauvoir Il secondo sesso, apparso originariamente in francese nel 1949 e pubblicato in italiano nel 1961 da Il Saggiatore) e la beat generation – ha però cominciato a liberare sia il “pensiero di sinistra” dalle gabbie concettuali e dai legacci che in maniere diverse la “sinistra moderata” e i regimi del “socialismo reale” gli avevano stretto intorno, sia le potenzialità dell’economia keynesiana dai limiti che le aveva sovraimposto gran parte del mondo politico (influenzato evidentemente in modo intenso dai settori delle élite economiche più ambiziosi e soprattutto più classisti). In molte sfaccettature della vita della società quella controcultura ha prodotto bellissimi contributi e realizzazioni (a parte alcune debolezze tra le quali le maggiori appaiono essere state nella sfera esistenziale l’eccessiva disponibilità di molti verso le droghe e verso gli abusi di alcool e nella sfera politico-sociale la tendenza piuttosto frequente a un eccessivo spontaneismo o, al contrario, ad un’eccessiva e ideologica rigidità militante) e ha fatto anche da “trampolino” per ulteriori straordinari contributi e realizzazioni nei decenni successivi, contribuendo così anche a ridurre la diffusione di vari aspetti di quelle tipologie di “oppio del popolo” (a parte, appunto, l’aspetto costituito da sostanze stupefacenti e alcool).
Con lo svilupparsi e il diffondersi della controcultura è nato uno scontro di fondo tra quest’ultima e specialmente quei settori delle élite economiche: uno scontro che era stato accuratamente previsto in particolar modo da Michal Kalecki sin dagli scorsi anni ’40 – come già si è notato [229] – e che finora ha visto stravincere tali settori, che hanno buttato sempre più a mare le politiche keynesiane (di cui hanno compreso la sostanziale pericolosità per il loro assolutistico “dominio di classe”) e sono tornati ad abbracciare strettissimamente l’ideologia liberista, con solo qualche limitata e temporanea concessione a tali politiche nel caso di crisi economiche particolarmente scomode, complicate e generalizzate.... Le aree nodali della vita sociale nelle quali questo scontro appare – per lo meno per ora – essersi deciso sono costituite evidentemente dalla sfera macroeconomica e dall’ambito politico-istituzionale (dal quale in fondo quella sfera è diretta: un fatto di cui è divenuto inevitabile rendersi conto dopo le difficili – ma comunque effettive e concrete – esperienze di economia statalista avviatesi con la rivoluzione russa dell’ottobre 1917 e soprattutto dopo che negli scorsi anni ’30 hanno cominciato a diffondersi nei paesi a economia di mercato gli approcci economici di tipo keynesiano). In queste aree, i settori in questione appaiono essersi imposti grazie specialmente a una strettissima alleanza con gran parte del mondo politico – o addirittura ad una sovrapposizione con esso, come è avvenuto con Berlusconi in Italia, Fujimori in Perù, Trump negli Usa, ecc. – e ad una vasta capacità di ricatto economico (attraverso azioni come il taglio degli investimenti, la chiusura o delocalizzazione di stabilimenti, l’esportazione di capitali, la speculazione contro le finanze pubbliche di certi paesi, ecc.), fortemente favorita e facilitata su scala globale dalla crescente svolta dei governi verso un’impostazione neoliberista dell’economia internazionale. Tra l’altro – come è stato messo ampiamente in luce nel paragrafo iniziale della terza parte dell’intervento già citato Il neoliberismo non è una teoria economica – a tale impostazione appartiene anche il modo in cui la moneta unica è stata introdotta nell’eurozona un quarto di secolo fa, con il consenso di tutti i governi coinvolti, ed è stata mantenuta poi in funzione (e purtroppo la consapevolezza di questo fatica persistentemente a diffondersi nelle classi lavoratrici europee, che quindi continuano a non riuscire a difendersi dagli effetti antipopolari di quel modo, malgrado la pubblicazione di libri puntuali e divulgativi come La battaglia contro l’Europa - Come un’élite ha preso in ostaggio un continente, e come possiamo riprendercelo, di Thomas Fazi e Guido Iodice, Fazi, 2016, e L’euro - Come una moneta comune minaccia il futuro dell’Europa, di Joseph E. Stiglitz, Einaudi, 2017, 2018...).
Ovviamente, il riaffermarsi dell’economia liberista (un mutamento radicale avviatosi in pratica negli scorsi anni ’80) è stato preceduto dal ritorno al socialismo utopistico nella “politica di sinistra”: un ritorno che si è avviato sin dai primi decenni dello scorso secolo e che è stato, anzi, proprio uno dei fattori fondamentali che nel tardo ’900 ha facilitato il ripresentarsi del liberismo in economia... È però da mettere qui in evidenza l’impatto estremamente devastante (sul piano umano e ambientale) di questo ripresentarsi, che ha contrassegnato nell’ultimo mezzo secolo la parte del mondo ad economia di mercato e che in tale parte del mondo è stato in sé e per sé molto più disastroso socialmente ed ecologicamente della perdita di efficacia, di lucidità e di congruità che hanno patito le idee di tipo socialista, anche se questa perdita è servita appunto ai neoliberisti per trovare pochissimi ostacoli al progressivo trionfare della loro ideologia, e non solo tra le élite economiche e politiche delle varie parti del mondo, ma persino anche tra gli elettori stessi dei paesi aventi istituzioni di tipo democratico (elettori che, naturalmente, appartengono in gran parte alle classi popolari...). Oltre tutto, questo sostanziale soffocamento del “pensiero di tipo keynesiano” ad opera della mentalità neoliberista (con le sue estreme diseguaglianze socio-economiche e il suo orientamento smaccatamente classista ed elitario) ha allungato le sue mani anche in Cina e in altri degli odierni regimi del cosiddetto “socialismo reale”, diventando così di gran lunga l’ideologia economica dominante nel mondo attuale.
Tra il ritorno dal “socialismo scientifico” marx-engelsiano al socialismo utopistico in politica e il ritorno dalle politiche keynesiane alla precaria socialità liberista in economia vi sono profondi parallelismi: primo fra tutti il riemergere di una sfrenata esaltazione del senso gerarchico tipicamente patriarcale e/o di un’estrema superficialità concettuale. Sul primo di questi due ritorni – per molti versi drammatico, anche per la vena ambiziosa, approfittatrice, verticistica, autoritaria, oppressiva e talvolta letteralmente sanguinaria espressa da diversi dei principali protagonisti di tale ritorno – si è già commentato ampiamente in diverse occasioni [230]. Qui si può sottolineare in particolare che il ritorno in questione – caratterizzato sin dall’inizio da eventi quanto mai emblematici come il sostanziale appoggio della cosiddetta “sinistra moderata” allo scoppio della prima guerra mondiale e l’imporsi del dittatoriale stalinismo nella Russia rivoluzionaria degli anni ’30 – ha comportato tremendi scossoni alla consapevolezza politica delle classi popolari e dei “politici e intellettuali autodefinentisi di sinistra”, facendo sì che in pratica tale consapevolezza sia ritornata comunemente, tranne rare eccezioni, al vago “eclettismo” piuttosto confuso di cui parlava Engels nel primo capitolo dell’Antidühring e di L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza o addirittura alla rozzezza, all’estrema limitatezza culturale e alla tendenziale brutalità delle quali scrisse ampiamente Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 e alle quali lui ed Engels accennarono con chiarezza in testi successivi regolarmente pubblicati come il Manifesto del partito comunista e di nuovo l’Antidühring e L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza [231].
3. Insicurezze, dipendenze, proiezioni psicologiche e tendenze dualiste
I disagi socio-economici possono appunto favorire e innescare delle problematiche psicologico-emotive connesse alla stima di sé, ma naturalmente non sono gli unici a poterlo fare. Lo possono fare anche aspetti del vissuto personale esterni alla sfera strettamente socio-economica: in particolar modo, il non essere stati amati in modo incondizionato durante l’infanzia; l’essere stati esposti ad una prolungata e insistita sminuizione delle proprie capacità e caratteristiche da parte di famigliari, insegnanti, gruppi di coetanei e/o altri componenti dell’ambiente sociale circostante; il far parte di un gruppo sociale comunemente considerato “inferiore” nella società in cui si vive; il crescere all’interno di una cultura marcatamente conformista, che in quanto tale pretende dalle persone un certo tipo di comportamenti rigidamente prestabiliti [232].
A proposito di tale tendenza al conformismo si può aggiungere che, a seguito dell’enorme espansione novecentesca dei mass-media, per attrarre e sottilmente orientare l’attenzione delle persone molta pubblicità e un gran numero di altri materiali mediatici – film, varietà televisivi, riviste in vendita nelle edicole, ecc. – ricorrono a immagini, scene e protagonisti (protagonisti spesso passati con grande accuratezza tra le mani di parrucchieri, visagisti, sarti e altri addetti del settore estetico) che fanno perno su concetti standardizzati di bellezza, fascino, eleganza, raffinatezza, signorilità, e via dicendo. Ripetendosi in tante salse, questa maniera di presentare persone e situazioni tende a trasformare le forme concrete assunte da tali concetti in veri e propri modelli culturali e iconici, ribaditi insistentemente dai principali mass-media. In tal modo, veniamo spinti ad identificarci in gran parte con la nostra esteriorità e soprattutto ad assomigliare a quei modelli [233], che spesso sono “irraggiungibili” anche per motivi di reddito: se non si possono pagare profumatamente parrucchieri, visagisti, sartorie, ecc. di un livello professionale particolarmente elevato, rimane comunque difficile poter “competere” con quel tipo di immagini... Questo, alla fin fine, tende anche a privarci del piacere e della soddisfazione di essere noi stessi nella nostra singolarità e unicità e nella nostra particolare personalità e, parallelamente, a farci sentire inadeguati, insoddisfacenti, insicuri di noi stessi, persino “sbagliati”.... E ciò tanto più in una situazione complessiva di intensa competizione sociale come quella messa in moto dall’economia neoliberista. Così, tra l’altro, veniamo spinti con forza non solo a comprare cosmetici, profumi, abiti raffinati (o per lo meno alla moda), biancheria intima di pregio, attrezzi di bellezza e altri supporti per la nostra esteriorità, ma anche a rivolgerci a dei centri estetici e magari persino a sottoporci a delle costose – e spesso dolorose e rischiose – operazioni di chirurgia estetica. C’è un’intera serie di settori economici che proliferano attualmente su quel senso di inadeguatezza e di insicurezza delle persone nei confronti della propria esteriorità e sulle logiche conformiste che vengono loro proposte a questo riguardo. Questa tematica costituisce anche sia uno dei principali strumenti della “persuasione occulta” innescata dal potere per far sì che dal punto di vista sociale le persone si sentano fragili, incerte, insicure e deboli, sia una delle principali armi di distrazione di massa mirate a spingere le persone stesse – nonostante il disagio economico e sociale quanto mai diffuso – a interessarsi per lo più di cose che non infastidiscano minimamente le élite economiche e politiche (e che, anzi, facciano anche arricchire qualche esponente di queste ultime) e a dedicare a tali cose una buona parte delle proprie energie e del proprio tempo (e non necessariamente con successo, in quanto l’idea di “non invecchiare mai” – o almeno di posticipare apparentemente di decenni il proprio invecchiamento – è per molti versi un’idea non solo piuttosto incongrua, forzata e indotta, ma anche spesso impraticabile o controproducente per una ragione o per l’altra, diventando così causa di ulteriori delusioni e amarezze dalle quali può addirittura derivare un senso complessivo di sconfitta...) [234]....
Nell’intreccio tra problematiche socio-economiche e problematiche psicologico-emotive, si può osservare che molte persone che giungono a patire per spiccate insicurezze e paure nel campo psicologico-emotivo – ed eventualmente anche in altri campi come appunto quello socio-economico – tendono a sviluppare dei rapporti di dipendenza emotiva nei confronti di qualcuno che in pratica compensi quelle loro insicurezze e paure o almeno un’ampia parte di esse. Tale dipendenza, oltre a essere collegata molto spesso al provare un marcato attaccamento e una soverchiante gratitudine per chi fornisce di fatto queste rassicurazioni, è facilmente associata anche ad altre caratteristiche, in particolar modo quando si tratta di rapporti di tipo diretto e strettamente interpersonale. Tra tali caratteristiche spicca tipicamente l’ulteriore paura di perdere questa fonte di rassicurazioni senza riuscire a trovarne un’altra (una paura non difficilmente di grande intensità), mentre è frequente anche il formarsi di situazioni di co-dipendenza, nelle quali entrambe le persone trovano nell’altro compensazione e rassicurazione per le proprie rispettive fragilità [235]. Inoltre – poiché chi soffre di insicurezze psicologiche, emotive, ecc. trova spesso sollievo in situazioni quotidiane molto stabili e in gran parte prevedibili e ripetitive, che richiedono poca improvvisazione e magari possono anche essere “programmate” in molti aspetti – alla dipendenza emotiva si affianca sovente anche una quotidianità impostata più o meno sistematicamente in base a questa ricerca di stabilità e di scarsità di imprevisti (un’impostazione che limita nettamente sia la vitalità che viene posta nella sfera dei rapporti interpersonali, sia la qualità intrinseca che si vive solitamente in tale sfera...).
La principale forma di dipendenza emotiva correlata a dei rapporti diretti può essere considerata la “dipendenza relazionale”, collegata in pratica a relazioni sentimentali e/o sessuali, o anche semplicemente alla loro prospettiva. Altre forme sono il transfert psicoanalitico e la dipendenza che può svilupparsi in certi casi particolari come ad esempio con un genitore particolarmente possessivo e manipolativo, con un amico visto come una sorta di fantastico “fratello maggiore” cui ispirarsi pressoché in tutto, oppure – in campo professionale – con un proprio collega (solitamente di spiccata capacità, responsabilità e/o esperienza) considerato come estremamente autorevole, “quasi perfetto”, pressoché irraggiungibile, in sostanza come una fonte di idee e comportamenti da seguire e persino copiare.
Nella dipendenza relazionale l’affettività stessa – che solo apparentemente sta al cuore della relazione – tende ad assumere forme molto emotive o irrisolte, incentrandosi su aspetti come la possessività, il cameratismo e/o appunto la gratitudine; col passare del tempo, può anche tendere addirittura a scomparire progressivamente (trasformandosi frequentemente in una sorta di rassicurante abitudine a una certa stabilità concreta e nascondendosi spesso dietro atteggiamenti di convenienza e di circostanza) in mezzo alla lotta quotidiana per affrontare situazioni come difficoltà pratiche, personali tensioni psicologiche, eventualmente impellenti problematiche economiche, ecc.. In presenza di un rapporto di dipendenza relazionale, anche la sessualità tende molto spesso in una maniera o nell’altra ad associarsi eminentemente alla dipendenza stessa, in molti casi soprattutto come modo di rinsaldare e rafforzare il legame col partner e/o sostanzialmente come forma di scambio [236], più che come vero e proprio desiderio, spinta, pulsione, manifestazione di un’affinità interiore, attrazione, ecc.. In tali casi, col tempo nella vita sessuale compare anche la tendenza a venire vissuta per lo più come una sorta di dovere (che per quanto possibile si cerca magari di evitare, senza però che con la propria ritrosia e i propri rifiuti si giunga a rischiare fortemente di mettere a repentaglio quel legame...). Ovviamente, quando la sessualità perde le sue caratteristiche di desiderio, spinta, ecc. e diviene in pratica solo o quasi solo un mezzo, non le resta più che una parvenza anche soltanto dei più semplici aspetti di una sessualità naturale, e men che meno dei suoi aspetti più profondi, che possono anche portare i partner ad una grande acutezza percettiva e a dimensioni estatiche (aspetti che in sostanza appaiono corrispondere alla capacità di unire tra loro corporeità, interiorità e affettività e che sono stati messi particolarmente in luce nel corso della storia da alcune correnti del taoismo in Cina, del mondo poetico e mistico ebraico, del tantra yoga in India, dei movimenti socialisti sviluppatisi nell’Ottocento e nel primo Novecento e – più recentemente – della psicoanalisi, del femminismo e della controcultura fiorita soprattutto in Occidente durante gli scorsi anni ’60 e ’70, oltre che da diverse tradizioni fiabesche di varie parti del mondo) [237].
Riferendosi a un piano per molti versi più inconscio che conscio, la terapeuta statunitense Robin Norwood – che era stata resa celebre soprattutto dal libro Donne che amano troppo (Feltrinelli, 1989) – ha osservato in un suo libro successivo, Un pensiero al giorno (per donne che amano troppo) (Feltrinelli, 1998): «Raramente noi donne che amiamo troppo siamo davvero convinte, nel profondo del cuore, di essere degne di amare e di essere ricambiate, per il solo fatto di esistere. Crediamo infatti di nascondere terribili difetti e mancanze che a fatica possiamo farci perdonare. Viviamo con il senso di colpa per queste manchevolezze e la paura di essere scoperte. Facciamo l’impossibile, sforzandoci di essere buone, perché non crediamo di esserlo».... Come effetto di questo insieme di idee negative, di sensi di colpa interiori e di tentativi perfezionistici, «nella dipendenza relazionale la paura inconscia per la vicinanza coesiste con la paura ancora maggiore dell’abbandono»: la prima delle due nel timore che la vicinanza col partner dia a quest’ultimo maggiori possibilità di scoprire tutti quei difetti e mancanze; la seconda come tipico timore di perdere il rapporto in questione e le rassicurazioni che esso fornisce comunemente. E soprattutto da questa seconda paura deriva a sua volta il fatto che «il bisogno di controllare gli altri, camuffato dal voler essere utili, è un comportamento tipico» della «dipendenza relazionale»....
Un ulteriore effetto di questa forma di dipendenza è che eventuali “episodi trasgressivi” vissuti – anche piacevolmente – con qualche altra persona (ovviamente esterna al legame in questione) scatenano comunemente, in chi soffre di tale dipendenza, sia potenti sensi di colpa, sia pressanti preoccupazioni per la saldezza del legame col “partner stabile” nell’ipotesi “sfortunata” in cui la trasgressione dovesse venir scoperta da quest’ultimo. Come risultato di tutto questo, di solito chi prova una dipendenza relazionale asseconda e concretizza la possibilità di tali episodi soltanto in presenza di un’attrazione (fisica o di altro tipo) così intensa e “conturbante” da risultare almeno momentaneamente più forte di quei sensi di colpa e di quelle preoccupazioni. Nel complesso, non è raro che col trascorrere del tempo la dipendenza relazionale finisca in pratica col soffocare in una persona tanto la vitalità sentimentale quanto un’autentica espressività sessuale: ovviamente, la possibilità di un tale sostanziale soffocamento dipende soprattutto dalla qualità intrinseca del rapporto in questione, dalle eventuali caratteristiche di sintonia e di complementarità esistenziale che possono essere presenti in esso (caratteristiche che gli possono dare comunque slancio ed entusiasmo) e dall’intensità dell’insicurezza psicologica ed emotiva vissuta dalla persona stessa (insicurezza che, invece, tende ad indebolire pressoché inevitabilmente la creatività presente nel rapporto); ed è una possibilità che viene ulteriormente accentuata dal fatto che, nel contempo, questa dipendenza tende anche ad inibire il dar libero corso ad eventuali “episodi trasgressivi” che magari in base alla vita interiore della persona potrebbero invece attrarre, interessare, stimolare e in fondo rivitalizzare la persona stessa (e che – se vengono percepiti come pericolosamente trasgressivi nonostante la loro spontaneità – segnalano comunque un eccesso tendenziale di rigidità nella mentalità delle persone in gioco e/o di un ambiente circostante che tende a fare pressioni sugli individui perché assorbano i vari aspetti della sua mentalità predominante...). Tra l’altro, l’insicurezza in questione può variare nettamente nel corso del tempo – a seconda specialmente delle esperienze, degli incontri e delle riflessioni che si fanno e delle opportunità che si presentano – e naturalmente ad un certo punto potrebbe anche scomparire, venendo risolta positivamente e dando così spazio alla possibilità di un superamento dell’inclinazione alla dipendenza.
Più in particolare, un meccanismo tramite cui spesso si concretizzano quelle forme di affettività molto emotive o irrisolte è quello delle proiezioni psicologiche, nelle quali si proietta su qualcuno una marea di sogni romantici ed esistenziali e di aspettative relazionali, e ciò a partire solitamente da forme di attrazione fisica associate a valutazioni estetiche e/o a corrispondenze ormonali, oppure da confortanti “incastri emotivi” collegati all’avvertire più o meno momentaneamente – tra sé e quel qualcuno – delle complementarità di carattere e/o dei parallelismi nei modi di sentire (in chi dà un forte peso alla propria vita intellettiva, può essere incluso in questi parallelismi anche l’apprezzamento – o addirittura l’ammirazione – per la brillantezza intellettuale di una determinata persona) [238]. Si tratta di un meccanismo non necessariamente frutto di qualche dipendenza emotiva, essendo ad esempio una caratteristica piuttosto frequente nell’adolescenza, e questo principalmente per il fatto che a quell’età si ha tipicamente una scarsa conoscenza di sé e degli altri e ovviamente una scarsa esperienza relazionale (ed evidentemente tale scarsa conoscenza riguarda in particolar modo i lati più complessi e più interiori dell’essere umano, di modo che più o meno tutta la propria visione di sé e dei rapporti interpersonali può risultarne basata – per lo meno a livello conscio – sui lati dell’essere umano più semplici e più evidenti). Tale meccanismo può dunque permanere anche in seguito, qualora si mantenga un approccio alquanto adolescenziale alla vita relazionale (e, parallelamente, a quella che può essere chiamata “conoscenza di sé e dell’essere umano”). Nel contempo, è un meccanismo che, oltre ad essere chiaramente favorito da un’inclinazione alla dipendenza, può anche facilitare e indurre qualche dipendenza emotiva proprio per l’intensità dei sogni e delle aspettative che esso può smuovere (e in tal modo può anche prodursi una sorta di circolo vizioso tra proiezioni e dipendenza emotiva).
In queste propensioni psicologiche da cui nascono dinamiche interpersonali di tipo proiettivo, una parte del sé finisce di fatto col governarne e controllarne altre sovrapponendo loro le proprie speranze e i propri “sogni ad occhi aperti”, invece di collaborare e dialogare con tali altre parti ascoltando evidentemente con attenzione e lucidità quello che esse hanno notato e hanno da “dire” e da suggerire. Ad esempio, certe parti di sé – se venissero ascoltate invece che “sopraffatte” da altre – potrebbero raccontare che la persona di cui attraverso il meccanismo delle proiezioni ci si sta infatuando ha delle caratteristiche che non combaciano affatto col quadro idilliaco che le proiezioni stanno di fatto sviluppando.... Nei meccanismi proiettivi sono generalmente la corporeità e/o l’emozionalità (attraverso appunto fattori come l’attrazione fisica e gli “incastri emotivi”) a sovrapporsi e imporsi sul resto della personalità del soggetto: ad esempio, sulla capacità di cogliere e interpretare gli atteggiamenti e i comportamenti degli altri, sull’attenzione per l’etica e per la sfera spirituale e sull’intuizione. Un tale tipo di rapporto tra varie parti del sé di una persona poggia, evidentemente, sul fatto che in pratica la persona stessa veda tale parti sostanzialmente come “compartimenti stagni”, strutturalmente indipendenti l’uno dall’altro ed eventualmente anche in conflitto tra loro, e veda dunque se stessa come divisa in una serie di lati che – tranne nell’eventualità in cui alcuni di essi siano colpiti da “reciproca e vicendevole discordia” – sono pressoché scollegati l’uno dall’altro.... Di tale discordia, l’esempio che appare ormai più classico è il conflitto – ovviamente per moltissimi versi artificioso – tra “corpo riconosciuto comunque come tendenzialmente desiderante” e “norme sociali (e spesso anche religiose) ingabbianti il desiderio sessuale ed amoroso”: conflitto che storicamente è stato sviluppato – in ambito patriarcale – nella monogamia, al fine implicito di un controllo maschile sulla sessualità femminile e soprattutto sul realizzarsi della paternità e della maternità [239]. Se e quando una persona si stufa della litigiosità interiore collegata alle discordie e ai conflitti che possono nascere intimamente in questa inclinazione a vedere a “compartimenti stagni” il proprio sé, la persona stessa può tentare di risolvere la cosa in maniera rapida – ma anche superficiale e per molti versi tendenzialmente controproducente – con una scelta radicale che prenda le parti di uno di questi “compartimenti stagni” ed eviti di ascoltare ulteriormente gli altri lati del sé che sarebbero in disaccordo con il lato scelto come “vincente”: generalmente si tratta di una scelta apparentemente conscia, ma spesso è molto più inconscia che conscia, come ha ampiamente ed efficacemente argomentato tra gli altri Erich Fromm in Marx e Freud - Oltre le catene dell’illusione (Il Saggiatore, 1968, 1989) approfondendo ed espandendo le intuizioni freudiane di vari decenni prima. È questa appunto la dinamica psicologica attraverso cui le proiezioni possono prendere così corposamente il sopravvento in certi periodi della vita interiore di una persona....
Date queste divisioni e fratture interiori, e visto anche il ruolo strutturale che esse hanno nel formarsi delle proiezioni psicologiche, evidentemente tali proiezioni risultano esser parte di un modo dualista di intendere se stessi (e l’essere umano in genere), il che è – tra le altre cose – in pieno contrasto con la filosofia dialettica sviluppata in epoca moderna specialmente da Marx ed Engels, dalla psicoanalisi umanistica, da un’ampia parte del movimento femminista, da varie branche della scienza (in particolar modo la fisica quantistica e l’ecologia) e dal pensiero olistico, così come nell’antichità da Eraclito, Socrate ed altri filosofi nel mondo greco, dalla filosofia yin-yang, dal taoismo e dallo Zen in Estremo Oriente, dallo yoga e da altre correnti di pensiero nella cultura indo-tibetana, da alcune forme di misticismo nella cultura ebraico-cristiana, ecc. [240]. Benché le proiezioni in questione possano essere considerate una sorta di “malattia della crescita” frequente proprio nel periodo adolescenziale, e favorita appunto dall’esplodere di intensi cambiamenti fisiologici ed ormonali attorno all’epoca della pubertà, a questo proposito non si può che suggerire a ciascuno di cercare di uscire con una certa sollecitudine da tale “tendenziale malattia” sviluppando sia una più profonda conoscenza di sé, sia una maggiore lucidità a 360 gradi nel percepire la personalità degli altri, sia una più spiccata creatività nei rapporti interpersonali, sia una più ampia saggezza di fondo e una più evolutiva capacità costruttiva nell’insieme del proprio vivere....
Ovviamente, poiché le proiezioni spingono le persone a immaginare e a fantasticare – spesso a dismisura – sui loro partner possibili o anche reali facendolo però in base alle proprie aspirazioni, questo potrà facilmente generare illusioni e in seguito scatenare delusioni, pesanti sofferenze, scontri interpersonali, disillusioni, e via dicendo. Prima o poi dovrà infatti verificarsi l’inevitabile confronto-scontro tra le fantasticherie e la realtà, e se talvolta si riesce a trovare un punto d’incontro tra le une e l’altra (grazie solitamente anche ad una certa capacità personale di evolvere, di comprendere l’altro, di dialogare ed eventualmente di accontentarsi) molte altre volte ci sarà una vera e propria frantumazione della situazione in gioco: nel caso di un’infatuazione non accompagnata da una concreta relazione, ci sarà un dissolvimento dell’infatuazione stessa e/o un crollo delle speranze di relazione ad essa connesse; nel caso di una relazione concreta, ci sarà un crescente collasso della relazione o per lo meno della sua qualità intrinseca, di modo che la relazione stessa si interromperà oppure diverrà basata più che altro sul timore della solitudine, su altre forme di bisogno psicologico o pratico e/o sull’abitudine. Una tale frantumazione, specialmente se vissuta in modo alquanto doloroso o se ripetuta nel tempo attraverso molteplici esperienze simili, può anche spingere le persone sino al punto di finire con l’avere dell’intera vita sentimentale e sessuale un’immagine deludente, sconfortata e disillusa (o, in casi un po’ meno negativi, comunque inguaribilmente controversa e ondivaga, oltre che praticamente inaffidabile dal punto di vista relazionale e faticosa dal punto di vista esistenziale), credendo erroneamente ed egocentricamente – e per certi versi piuttosto scioccamente... – che quel loro approccio superficiale e sostanzialmente immaturo a tale vita sia la naturale essenza di quest’ultima.
Da un punto di vista più generale, le varie forme di dipendenza emotiva possono “ingessare” lo sviluppo esistenziale di una persona in correlazione col rapporto nei cui confronti essa correntemente si sente dipendente, in quanto alla fin fine solo ciò che è compatibile con tale rapporto può essere da lei approfondito, coltivato e vissuto senza particolari patemi (a meno che, ovviamente, lei non riesca a “far saltare” quella dipendenza, liberandosene appunto alla radice oppure sostituendola con un’altra dipendenza, con la quale però tenderà a ripresentarsi poi un analogo fenomeno di “ingessatura esistenziale”, non necessariamente identico ma comunque simile da svariati punti di vista...). E una forte inclinazione alla dipendenza relazionale spingerà comunque la persona stessa ad interessarsi intensamente – per quanto riguarda le possibilità che essa potrebbe concedere a qualcuno nell’ambito sentimentale e sessuale – pressoché soltanto a coloro che in quel momento le appaiono adatti (per aspetti caratteriali, situazione famigliare e professionale, reddito, ecc.) a fornirle rassicurazioni per le sue insicurezze e paure.
Anche la dipendenza di tipo emotivo è una caratteristica che in pratica è associata alle mentalità dualiste (così come avviene, del resto, pure per le altre forme di dipendenza sostanzialmente patologiche, che possono essere di tipo fisico oppure psicologico) [241], soprattutto in quanto separa pervicacemente alcune basilari potenzialità interiori di una persona (come, a seconda dei casi, il senso di autonomia, la fiducia in se stessi, l’ascolto del proprio profondo, il senso etico, e così via) e la capacità della persona stessa di dar loro attuazione concreta.
Il fatto di interiorizzare qualche tipo di mentalità dualista, incluse ovviamente le divisioni e fratture interiori che di essa sono tipiche (un’interiorizzazione che è spesso facilitata e sospinta da forti pressioni provenienti da un ambiente sociale circostante caratterizzato da una tale mentalità), può non limitarsi soltanto ad una stabile accettazione delle caratteristiche specifiche di quel particolare tipo di mentalità (accettazione che magari potrebbe anche essere attuata controvoglia e in modo non del tutto convinto, così che interiormente potrebbe rimanere spazio per dei dubbi, delle riflessioni critiche e delle rivalutazioni), ma arrivare anche al fatto che le persone si abituino a reagire e ragionare in modo strutturalmente dualista e a considerare normale – o addirittura naturale e persino come un segno di maturità – l’affrontare le varie situazioni della vita in modi appunto dualisti. Ci si abitua così a sacrificare comunemente qualche aspetto strutturale e naturale della propria vitalità, della propria creatività e/o della propria socialità a qualche altro aspetto del vivere (per di più, non necessariamente aspetti strutturali, ma magari aspetti indotti dall’esterno, come avviene per esempio con la fascinazione consumistica propagandata dal moderno industrialismo, col “mito del successo” che caratterizza certi ambienti sociali e professionali, col “senso ossessivo del peccato” che caratterizza certe correnti religiose, oppure con molti dei fattori particolari – come appunto l’alcool, le droghe pesanti, il gioco d’azzardo, i videogiochi, ecc. – che possono scatenare delle forme patologiche di dipendenza). E, parallelamente, ci si abitua a pensare che non valga la pena – o addirittura che non sia giusto – cercare di vivere con maggiore pienezza e interezza, cioè elaborando e costruendo concretamente soluzioni esistenziali e relazionali che non richiedano quei sacrifici di parti strutturali e naturali di sé [242].... In questa maniera, applicando ripetutamente una tale logica sacrificale a diverse delle circostanze più o meno complicate che ci si presentano nel corso del tempo (e tanto più quando lo si fa nei momenti cruciali della vita), si può finire col divenire in pratica i migliori carcerieri di se stessi....
Per di più, una volta che lo si è con se stessi si finisce sovente col tendere ad esserlo anche con altri – a partire generalmente dai propri famigliari – cui si cerca di affibbiare la medesima logica in quanto la si vede appunto come inevitabile o persino giusta. È da questo tipo di comportamento che nascono appunto molte di quelle pressioni provenienti dall’ambiente circostante, in una sorta di circolo vizioso che può proseguire anche per generazioni e generazioni [243]....
Particolarmente interessante può essere qui un breve approfondimento su temi collegati alle “ingessature esistenziali” messe precedentemente in evidenza: temi come gli effetti dolorosi – e spesso prolungati drammaticamente nel tempo – che le nostre esperienze infantili possono avere se vissute in famiglie disfunzionali e/o in ambienti sociali poveri di sensibilità e di senso di accoglienza, come le dinamiche che sarebbero naturali in un processo di crescita armonioso e felicemente evolutivo (e che possono rimanere percepibili nel nostro profondo anche se le abbiamo incontrate solo scarsamente nella nostra esistenza concreta) e come le interazioni che possono svilupparsi tra questi diversi lati del nostro vivere.
Fra coloro che si sono occupati dei blocchi psicologico-emotivi e delle altre forme di condizionamento che ci troviamo a vivere da adulti, molti hanno notato l’influsso particolarmente consistente che hanno generalmente sullo sviluppo di queste varie forme le esperienze che viviamo appunto nell’età infantile. A tale proposito, appare particolarmente degno di nota quanto ha sottolineato Robin Norwood – riassumendo decenni di studio e di esperienze principalmente nell’ambito della psicoterapia – riguardo alle dipendenze dai rapporti con altre persone. In Guarire coi perché (Feltrinelli, 1994; titolo originale Why Me? Why this? Why Now?), la terapeuta statunitense ha messo in evidenza di aver a lungo «approfondito il tema della dipendenza dai rapporti umani, rintracciandone le origini nei modelli relazionali sbagliati che normalmente si apprendono durante un’infanzia passata in famiglie disturbate [o “disfunzionali”, secondo il linguaggio caratteristico della psicologia moderna, N.d.R.]. Questi modelli relazionali scorretti» vengono tipicamente «trasferiti nella vita adulta con partner con i quali» si possono «far rivivere gli antichi drammi sperimentati durante l’infanzia». Naturalmente, non si tratta di semplice, meccanica e “automatica” ripetitività, ma di apprendimento e soprattutto di esperienze limitanti e sofferenti che non hanno consentito il verificarsi della naturale evoluzione verso la progressiva scoperta e la susseguente realizzazione di modelli relazionali equilibrati, basati sull’autonomia personale, sulla reciprocità e sull’affetto: un affetto vissuto appunto non come nelle famiglie disfunzionali, dove – di fatto – è in gran parte soffocato oppure piegato alle proiezioni psicologiche dei vari componenti della famiglia e/o alle spesso estremizzate oscillazioni emotive degli stessi, ma come fattore ispirante, rivolto sia all’insieme della propria personalità sia parallelamente all’insieme della personalità di ognuna delle altre persone coinvolte. Ed è praticamente inevitabile e persino ovvio che dietro a quei «modelli relazionali scorretti» e disarmonici vi sia anche una visione di sé incongrua e disarmonica che tende a ripetere modelli culturali assorbiti dall’ambiente circostante, o comunque a reinterpretare questi ultimi senza modificarne la struttura di fondo. Particolarmente espressive, drammatiche e stimolanti possono essere le considerazioni esposte da Audre Lorde – a partire specialmente dalle proprie spesso dolorose esperienze personali di bambina, ragazza e poi donna nella comunità afroamericana novecentesca e dal proprio percorso di ricerca esistenziale e in particolare di autocoscienza femminista – in Guardarsi negli occhi: donne Nere, odio e rabbia e in altri scritti raccolti in Sorella Outsider (Il Dito e la Luna, 2014; Meltemi, 2022; ediz. originale in inglese 1984).
Sui nodi di fondo che stanno sostanzialmente a monte di queste varie dinamiche operanti tra cultura e psiche, un quadro di sintesi particolarmente espressivo è stato realizzato dall’associazione Rio Abierto, ad esempio nell’articolo Imparare a vedere con occhi nuovi, curato dal suo Centro di Napoli e apparso nella rivista AAM Terra Nuova nel giugno 1996: «Come esseri umani, veniamo al mondo dotati di un enorme potenziale di energia, affettività ed intelligenza. Una persona sana, realizzata, dovrebbe essere un’espressione spontanea e creativa di queste qualità fondamentali. Purtroppo, così non è. Quasi sempre la nostra personalità si forma sull’impronta di modelli sociali, condizionamenti etici e morali, esperienze traumatiche, la cui influenza finisce per contrarre la nostra energia, la nostra capacità d’amare e di gioire». Come effetto di questo rispondiamo alla vita in maniera molto limitata, «a causa della diffusa tendenza a identificarci in un modello caratteriale ben definito. C’è che si identifica con il buono, chi con il colto, chi con la vittima, qualcun altro con il forte che sorregge il mondo, e così via». Tipicamente, «è proprio questo atteggiamento, che il bambino sviluppa già durante i primi anni di vita per meglio essere accettato e amato, a diventare poi nell’età adulta una prigione psicologica, da cui prima o poi sentiamo il bisogno di fuggire». Tra l’altro, «queste false personalità quasi sempre hanno un loro corrispondente nell’aspetto fisico»: ad esempio «in una determinata postura, nelle contratture o chiusure energetiche, nel modo di respirare». Il fatto, peraltro, è che «la vita per essere vissuta armoniosamente, creativamente, ha bisogno, da parte di ognuno, di infinite risposte, di tanti diversi atteggiamenti, di una capacità espressiva illimitata». In altre parole, a seconda dei momenti e delle situazioni «possiamo essere a diritto e a ragione chiusi come aperti, estroversi come introversi», ecc., e ciò nella direzione di raggiungere «una pienezza che finirà per coinvolgere l’aspetto fisico, affettivo e mentale».
Un modo particolarmente ingombrante ed opprimente in cui i bambini appaiono introiettare inconsapevolmente visioni di se stessi e del mondo intrise di dualismo è quando – come già si è accennato – la famiglia e l’ambiente sociale circostante non offrono loro affetto e calore umano incondizionati. Abituandosi al fatto – tipico del ricevere affetto in modo condizionato – che certe parti strutturali di sé vengono accolte bene ed affettuosamente (o comunque vengono per lo meno apprezzate, lodate, ecc.), mentre altre parti non meno strutturali (e quindi non costituite semplicemente da atteggiamenti nati in reazione al comportamento di altri o a particolari situazioni) vengono rifiutate e generano in risposta freddezza, tensione e/o rimproveri, ci si abitua al fatto che il proprio sé, fin nella sua essenza, si ritrova diviso dalla cultura circostante in una parte “apprezzabile” e una parte “censurabile” o addirittura “disprezzabile”. È un meccanismo che tende ad aver luogo specialmente appunto nell’età infantile, ma in una certa misura può aver luogo anche in età adolescenziale o adulta, parallelamente al rifiuto deciso – o addirittura estremo – che la cultura circostante può opporre a degli aspetti della personalità umana strutturali, essenziali [244]. Sottolineo ulteriormente che non si sta parlando qui di rifiuti e freddezze rivolte ad atteggiamenti insensibili, arroganti o pesantemente maleducati, che giustamente possono venire criticati e censurati dalle persone intorno, ma si sta parlando di aspetti essenziali del sé che vengono respinti, censurati, più o meno intensamente negati: aspetti come potrebbero essere ad esempio la voglia di muoversi e di giocare, il senso della propria fisicità, la voglia di comunicare, l’affetto che si prova per altri o che si avrebbe voglia di ricevere dagli altri, il piacere di studiare, la curiosità, la creatività, il senso sociale, il sentirsi parte della comunità umana o dell’universo in generale, la sensibilità per la natura.... A questo si può aggiungere il fatto che l’ambiente sociale circostante, oltre a respingere certe parti strutturali del sé di una persona, può anche richiedere con forza alla persona stessa di sviluppare dei suoi lati per niente strutturali, per niente essenziali, che possono persino essere in profondo contrasto con l’insieme del sé della persona, lati che però quell’ambiente tende a gradire, ad apprezzare, ad esaltare, e via dicendo (e più una cultura è autoritaria, classista, dualista, ecc., più facilmente potrà porsi in questa maniera nei confronti delle persone) [245].... Ovviamente, una tale visione del sé divisa (ed eventualmente anche forzata in qualche direzione particolare) una volta che è stata introiettata viene anche analogamente proiettata in linea generale sul resto dell’esistente. Crescendo ci si ritrova quindi caratterizzati da questa tendenza al formarsi e stabilizzarsi di divisioni interne (ed eventualmente anche di forzature, esasperazioni e manipolazioni nell’ambito della propria personalità) e all’espandere in linea di massima tale impostazione a tutta la propria visione del mondo; e se anche in seguito questa maniera di impostare, organizzare e gestire la propria sfera interiore e i propri rapporti col mondo viene “confermata” (ed eventualmente ampliata, ramificata e/o complicata ulteriormente dalle esperienze successive), è una maniera che continuerà in pratica ad operare anche nei successivi periodi della vita della persona in questione.
Liberarsi progressivamente da queste annose divisioni, forzature, esasperazioni, ecc. può rivelarsi per una persona un impegno molto complesso e piuttosto arduo. Evidentemente, incontrare altri che stanno cercando con sensibilità, lucidità e perseveranza di liberarsi dalle loro proprie annose divisioni, forzature, ecc. può rivelarsi un forte aiuto in questa ricerca della propria libertà interiore, così come può rivelarsi tale il confrontarsi con opere creative (letterarie, artistiche, ecc.) di persone che a questo “impegno personale” si sono dedicate con efficacia in passato o nel presente stesso [246].
4. Dipendenza emotiva e dipendenza pratica: la tendenziale trappola del divenire adulti (o addirittura del nascere) in società impostate in modo pesantemente insensibile e iniquo verso le classi lavoratrici oppure in modo sessista o razzista
Dal punto di vista della dipendenza emotiva, nelle tipiche società moderne e in numerose altre culture – specialmente dove l’attività principale di molti giovani è lo studio e dove l’esistenza pratica è organizzata sulla base delle famiglie nucleari – un passaggio cruciale nell’evoluzione della personalità umana appare essere il periodo in cui avviene l’ingresso stabile nel mondo del lavoro (e, più in generale, delle responsabilità adulte) e in cui, nel contempo, non si ha più una stabile sponda economica fornita dalla famiglia d’origine oppure quella sponda non la si vuole più avere con costanza proprio per evitare che nella propria vita ci sia un’eccessiva intromissione di tale famiglia. In pratica, mentre prima di questo passaggio l’esperienza tipica è quella di vivere mantenuti economicamente e logisticamente – del tutto o in buona parte – dalla famiglia d’origine (nella quale in molti casi si possono trovare anche sia una consistente vicinanza affettiva sia un certo sostegno fattivo, dialogico, emotivo, psicologico e concreto di fronte alle nuove difficoltà che la vita può presentare di volta in volta a una persona nel corso del tempo), dopo questo passaggio si perde in sostanza la dipendenza pratica dalla famiglia e, in linea di tendenza, ci si ritrova a doversela cavare senza quella “base d’appoggio” continuativa. Se a quel punto non si raggiunge nella propria vita individuale una sufficiente sicurezza economica, abitativa, ecc., si tenderà quindi pressoché inevitabilmente – e per molti versi anche quanto mai giustamente – a cercare qualcun altro che possa aiutare a trovare una tale sicurezza o almeno un supporto significativo (eventualmente dandosi aiuto vicendevolmente). Tenderà a formarsi così una “nuova” dipendenza (o co-dipendenza) di tipo pratico, del tutto esterna alla famiglia d’origine di ciascuna delle persone coinvolte. In numerosi casi – per la paura di perdere questo appoggio senza riuscire a sostituirlo in modo efficace ed eventualmente anche per altri motivi, come ad esempio una scarsità di rapporti d’amicizia oppure situazioni personali di insicurezza emotiva, di fragilità interiore o di scarsa autonomia psicologica, e tanto più se la propria famiglia d’origine per una ragione o per l’altra non riesce a dare una consistente mano a questo riguardo – a tale dipendenza pratica le persone possono finire con l’associare anche una dipendenza di tipo emotivo.
Per questo quel passaggio è cruciale: può diventare il punto di partenza di una dipendenza come quella emotiva, che alla fin fine costituisce tendenzialmente una vera e propria patologia, implicando in particolare per la persona che vive tale dipendenza – se quest’ultima si prolunga nel tempo – una menomazione della libertà interiore, degli orizzonti relazionali e, in un certo senso, della lucidità esistenziale. In effetti, si può distinguere tra le dipendenze emotive aventi un carattere duraturo e tendente alla stabilità e quelle che hanno un carattere momentaneo e transitorio, e che in certe situazioni possono risultare comprensibili e persino giustificate, come in particolare quando incontriamo qualcuno capace di aprirci dimensioni nuove e sconosciute, per l’accesso alle quali inizialmente non potremo dunque che dipendere da quel qualcuno, anche se naturalmente col tempo potremo imparare ad addentrarci in tali dimensioni anche senza quel supporto....
Diversamente, in sé e per sé la dipendenza pratica – e tanto più la co-dipendenza pratica – non ha nulla di patologico, oltre ad essere storicamente qualcosa di pressoché inevitabile e “normale” in moltissime società che non forniscono affatto ai singoli individui una base adeguata per la loro sopravvivenza e per il loro benessere socio-economico complessivo: società tra le quali spiccano in modo estremamente marcato quelle appunto di tipo liberista e – per altri versi – quelle che prevedono forme molto rigide di divisione sociale del lavoro, in particolar modo tra uomini e donne.
A questo proposito si tenga anche conto che, nonostante i tentativi di condizionamento e di manipolazione psicologica che le culture caratterizzate da delle mentalità di tipo autoritario (classiste, sessiste, repressive, moralistiche, ecc.) rivolgono solitamente – in varie maniere e con varia intensità – non solo verso gli adulti ma anche verso i bambini e i ragazzi di ambo i sessi, in molte di tali culture rimane percepibile in trasparenza in non pochi adolescenti una naturale e fluida multidimensionalità, comunemente nella forma di potenzialità in gran parte ancora vaghe ed incerte ma comunque presenti, percepibili e intimamente attive. È una caratteristica esistenziale in ampio contrasto col conformismo squadrato che tipicamente quelle culture propongono con insistenza – e richiedono almeno formalmente – soprattutto agli adulti e che concretamente si struttura sulla base di qualche modello di comportamento e qualche schema di pensiero che siano conformi alla locale mentalità predominante e approvati da essa. Questo contrasto deriva anche dal fatto che una tale tendenza alla fluidità e alla multidimensionalità nasce in maniera spontanea e principalmente dall’interno della persona stessa: non proviene dall’esterno né ha origine in una maniera deliberata, più o meno calcolata e sostanzialmente forzosa, come invece avviene a quei modelli e schemi [247].... E si tratta di una caratteristica in contrasto anche con le fondamenta stesse della dipendenza emotiva, in quanto diversamente da quest’ultima si esprime e si muove con un’ampia libertà interiore e tenderebbe inoltre – col progressivo svilupparsi delle capacità intellettive, comunicative e pratiche della persona stessa – ad espandere concretamente ancor più tale libertà.
Appare estremamente significativo il fatto che un’ampia parte dei principali fattori che possono facilitare tale dipendenza (fattori come appunto la paura di ritrovarsi senza appoggi concreti, l’insicurezza emotiva, la fragilità interiore e la scarsa autonomia psicologica) sia tipicamente inclusa tra le caratteristiche esistenziali che quelle mentalità – o meglio, le classi dominanti che fanno da motore a tali mentalità – cercano di instillare in gran parte della società, in modo tale da mantenere debole nelle classi popolari la capacità delle persone di agire collettivamente sul piano socio-politico in maniera innovativa e incisiva e da favorire dunque il perpetuarsi della cultura autoritaria in questione e della sua struttura sociale più o meno intensamente stratificata, piramidale, gerarchica. In altre parole – come risulta tanto più evidente proprio da questo – la possibilità che nel periodo di passaggio dall’adolescenza all’età adulta si produca un’inclinazione verso la dipendenza emotiva in persone che in precedenza non manifestavano in modo consistente una tale inclinazione si configura, in fondo, primariamente come uno dei tanti aspetti che quei tentativi di condizionamento e di manipolazione possono storicamente assumere.
Più specificamente, come ha messo in rilievo di nuovo Robin Norwood nel suo libro già citato Un pensiero al giorno (per donne che amano troppo), “nella nostra società, ogni donna viene attivamente incoraggiata, attraverso riviste e altri media, a comportarsi secondo modelli tipici di una persona gravemente affetta da dipendenza relazionale” e, parallelamente, “la nostra cultura in realtà incoraggia le donne ad assumere comportamenti da dipendente relazionale ed è punitiva nei confronti di quelle donne che non si conformano a questo modo di pensare, sentire e agire. [...] La dipendenza relazionale è il tipo di dipendenza che viene maggiormente idealizzato”.... Il meccanismo fondamentale attraverso cui opera questa tendenza rimane sempre quello delle insicurezze e della bassa autostima: “Noi che amiamo ossessivamente siamo piene di paure: paura di essere sola, paura di non essere degna di essere amata, paura di essere ignorata, abbandonata o distrutta. Diamo il nostro amore nella disperata speranza che l’uomo oggetto della nostra ossessione ci rassicuri delle nostre paure”.... Peraltro, pure “alcuni uomini soffrono di dipendenza relazionale allo stesso modo delle donne”, anche se per lo più gli uomini “tendono a trasferire le loro ossessioni sul lavoro, sullo sport o sugli hobby”, oltre che – si potrebbe aggiungere prendendo spunto da aree del mondo “sviluppato” meno inclini al moderno orientamento urbanizzato, tecnologico e consumista che sta predominando ampiamente in gran parte di tale mondo – su alcuni tratti caratteristici delle proprie tradizioni culturali (inclusi tipicamente il ruolo dominante maschile nella famiglia e nella vita sociale e un certo sciovinismo etnico) vissuti spesso aggressivamente come identitari, fondamentali, pressoché irrinunciabili.
Queste tipologie di meccanismi sessisti contrassegnano tendenzialmente l’intera e ormai plurimillenaria civiltà patriarcale [248], anche se negli ultimi decenni – proprio sull’onda del neoliberismo e soprattutto della conquista novecentesca di una sostanziale parità giuridica di diritti da parte delle donne – qualche aspetto di tali meccanismi ha teso ad acquisire qualche sfumatura un po’ differente, come si è già messo in evidenza nella seconda parte del presente intervento. In estrema sintesi, in questi decenni si è molto diffusa nella “cultura di massa” una tendenza a proporre alle donne modelli di comportamento più maschili (con una minore insistenza sul modo “tradizionalmente femminile” di impostare sulla dipendenza relazionale gran parte della propria vita e con una maggiore accentuazione di forme di dipendenza psicologica come quelle collegate al lavoro o agli hobby) e quindi – indirettamente – a proporre agli uomini uno spostamento esistenziale dalla frequente dipendenza psicologica che essi hanno avuto nei confronti del ruolo di “pater familias che dirige in modo fermo ma benigno la famiglia” (o della sua involuzione in “padre padrone che comanda in modo pesantemente autoritario sulla moglie e possibilmente anche sui figli”) a una più paritaria co-dipendenza emotiva con una compagna (che sia “ufficializzata” col matrimonio – accordo istituzionalizzato che sempre meno è mitizzato e considerato indispensabile nella società moderna – oppure no). È una proposta di spostamento che comunque molti uomini nel mondo di oggi appaiono non gradire affatto (e specialmente quando si trovano di fronte al fatto che la loro compagna utilizza questa sua “parità e libertà di fondo” scegliendo di lasciare l’uomo in questione), come mostrano tragicamente i tantissimi casi di violenze fisiche e di minacce che le donne subiscono attualmente e i tanti “femminicidi” che la cronaca continua a registrare [249].
Appare opportuno rammentare qui di nuovo che non in tutte le culture le pressioni sociali che spingono verso la dipendenza emotiva hanno una sorta di acme con la fine dell’adolescenza. Nelle società classiste che riconoscono giuridicamente i diritti civili e politici di ciascuno ma economicamente tendono a riconoscere pochi o pochissimi diritti alle classi lavoratrici e/o a certi specifici gruppi sociali (solitamente alle donne come genere oppure a certe etnie), è appunto per lo più nel passaggio dall’adolescenza all’età adulta che la pressione sociale si esprime in maniera esplosiva sia direttamente nei confronti delle possibilità concrete delle persone che fanno parte dei ceti svantaggiati, sia indirettamente nei confronti del modo di sentire e pensare di queste persone. In questo tipo di società classiste (al quale appartengono chiaramente i moderni paesi industrializzati governati in modo neoliberista e dotati, almeno formalmente, di pubbliche istituzioni democratiche), quel riconoscimento giuridico implica in linea di massima alcune caratteristiche istituzionali: la presenza di tribunali in cui a parole si afferma con grande sussiego che “la legge è uguale per tutti” (ma nei fatti le cose sono spesso enormemente diverse per un verso o per l’altro, ad esempio perché gli avvocati migliori sono di solito molto costosi e perché il governo può influire pesantemente sull’attività dei magistrati – o addirittura esercitare un certo controllo su di essi – grazie magari a leggi e procedure approvate ad hoc per indebolire l’indipendenza o l’operatività del potere giudiziario...); l’esistenza di organismi politico-amministrativi eletti su scala sia nazionale che locale dall’insieme della popolazione (ma spesso i meccanismi di tali elezioni e di tali organismi favoriscono con forza il formarsi di una “casta politica” estremamente lontana dai “cittadini comuni” e quanto mai distaccata da essi...); lo svolgersi di una tendenziale “scolarizzazione di massa” (ma la qualità delle scuole pubbliche, specialmente nelle zone più popolari, è spesso combattuta dall’alto e resa volutamente scadente...); l’attuazione di qualche altra iniziativa pubblica di tipo ambientale e/o sociale, come ad esempio qualche attività di monitoraggio e controllo degli equilibri idrogeologici nel paese, certi servizi sanitari pubblici e qualche forma di assistenza sociale rivolta a persone in difficoltà economiche (ma l’atteggiamento liberista cerca costantemente di minimizzare il più possibile queste iniziative...). Complessivamente, tali caratteristiche istituzionali fanno sì che non necessariamente i bambini che in queste società fanno parte dei gruppi sociali svantaggiati (cioè le classi popolari ed eventualmente le etnie emarginate e/o il sesso femminile) debbano per forza sentirsi pienamente inadeguati e/o inferiori, ma quando poi si entra nel mondo degli adulti allora ci si rende inevitabilmente conto delle estreme diseguaglianze e iniquità presenti in tali società.... In tal modo, è specialmente in rapporto con l’ingresso nel mondo degli adulti che si concentra in un certo senso la pressione sociale mirante a rendere i gruppi svantaggiati sia subalterni e intellettualmente poco preparati (e in questo tende ad acquisire grande significato nel mondo contemporaneo la trasformazione delle università in strutture molto povere di spirito critico e rigidamente impostate in senso elitario e/o strettamente professionale, come ha recentemente sottolineato ad esempio Tomaso Montanari in Libera università, Einaudi, 2025), sia il più possibile sottomessi e politicamente passivi , così che socialmente risultino docili o eventualmente tendenti a ribellioni caotiche e poco lungimiranti che possano essere usate dal “potere costituito” come occasione – e soprattutto scusa – per poter reprimere ulteriormente l’intero gruppo sociale implicato [250]....
Diversamente, nelle società che sono sessiste, classiste e/o razziste non solo culturalmente ed economicamente ma anche giuridicamente, è solitamente il nascere stesso che mette in una posizione fortemente predisposta a forme di dipendenza emotiva i bambini che sono parte dei gruppi sociali trattati “ufficialmente” come subalterni: la “metà femminile del cielo” nelle società pesantemente patriarcali; le classi lavoratrici nelle società fortemente classiste e prive di istituzioni significativamente democratiche fondate sul suffragio universale; le etnie penalizzate e maltrattate nelle società razziste, come è avvenuto per esempio a molti “ebrei della diaspora” specialmente nell’Europa sia medioevale che moderna (con un’allucinante estremizzazione della loro persecuzione ad opera dei nazisti, che da un lato erano sciovinisticamente gelosi delle ampie ricchezze detenute in Europa da molte famiglie ebraiche ed erano avidamente intenzionati ad appropriarsi di tali ricchezze a vantaggio dell’etnia tedesca e soprattutto del nazismo stesso, ma dall’altro lato hanno finito col trasformare questa tensione economica in qualcosa di letteralmente folle e di inestinguibilmente sanguinario, distruttivo e genocida...), a molte popolazioni indigene durante i secoli del colonialismo e alle etnie nere africane nel Sudafrica dell’apartheid durante la seconda metà del ’900, e come avviene tuttora all’etnia palestinese nel moderno Stato d’Israele a opera paradossalmente proprio del sionismo ebraico. In tal modo, un senso complessivo di schiacciamento sociale, di inadeguatezza strutturale e appunto di subalternità tende ad essere inculcato nelle persone di questi gruppi sociali sin dall’infanzia.
Rispetto a quanto avviene con i gruppi sociali penalizzati soprattutto economicamente, la situazione umana dei gruppi sociali pienamente penalizzati non solo economicamente ma anche giuridicamente è tipicamente ancora peggiore, ma è stata ormai argomento di innumerevoli – e comunemente quanto mai sane – critiche, contestazioni e rivendicazioni da parte sia di movimenti femministi, terzomondisti, socialisti o laburisti, ecc., sia di movimenti o commentatori ispirati a un senso generale di etica, solidarietà, equità, giustizia, ecc.; non appare esserci quindi alcun bisogno di aggiungerne altre qui. Non a caso, a non riconoscere nemmeno formalmente una piena parità di diritti giuridici fra tutti gli abitanti di un territorio – parità che è anche uno dei principali contenuti sia della “Dichiarazione universale dei diritti umani” del 1948 sia dei suoi trattati applicativi – sussistono ormai solo pochissime nazioni: alcune in cui predomina qualche tipo di integralismo pseudo-islamico pesantemente misogino (soprattutto l’Afghanistan talebano, l’Arabia Saudita wahhabita e l’Iran khomeinista) e proprio Israele (col sionismo che continua a caratterizzare in modo sempre più estremo e guerrafondaio i governi israeliani dopo l’assassinio – sionista, appunto – del primo ministro laburista Yitzhak Rabin nel 1995 e che tende a privilegiare esplicitamente e strutturalmente gli ebrei ai danni soprattutto dell’etnia araba, che durante gli scorsi due millenni ha costituito di gran lunga la principale popolazione della Palestina).
Un altro corollario dell’attuale situazione socio-economica di fondo è il fatto che adulti che si siano ormai abituati alla loro precarietà occupazionale e alle varie forme di insicurezza, di preoccupazione e di possibile ansia che tendono a derivare da tale precarietà tenderanno facilmente a crescere i loro figli facendolo con uno spirito scarsamente fiducioso nella società, scarsamente ottimista e limitatamente dotato di allegria esistenziale e di leggerezza. A loro volta, i figli tenderanno dunque a crescere con una visione poco incoraggiante e poco ottimista sia della società, sia del loro probabile futuro, sia – alla fin fine – della personalità umana in se stessa: e questo li renderà anche meno attrezzati psicologicamente, culturalmente e prospetticamente di fronte alle disarmonie ed iniquità della società stessa, a meno che non riescano a trovare in se stessi, oppure in stimoli provenienti da persone di oggi impegnate socialmente o da vicende ed esperienze del passato (rievocabili ed assimilabili attraverso libri, opere d’arte, film, ecc.), una spinta sufficiente a mettere profondamente in discussione quelle disarmonie ed iniquità, a comprenderne le radici storiche e culturali e a cercare di costruire modi e percorsi concreti per modificare in meglio la società. Senza una tale spinta, la tendenza delle persone sarà facilmente quella di accettare le disarmonie ed iniquità in questione, chinando il capo di fronte ad esse e subendole più o meno penosamente pur di cercare di sopravvivere, oppure partecipando ad esse in prima persona (cioè tuffandosi con intensità nella competizione sociale per benessere, ricchezza, potere e privilegi) e utilizzando in questa competizione modi legali, o ai margini tra legalità e illegalità, o addirittura – come fanno non pochi in molte società – delittuosi o persino criminali [251].... E anche questo corollario può essere considerato, in fondo, come uno dei vari aspetti assunti concretamente da quei tentativi di condizionare e manipolare la gente dall’alto in base a quelli che le classi privilegiate considerano i propri interessi [252].
5. Transfert, istinti, spinte interiori e naturalità
È da sottolineare che la questione dell’inclinazione alla dipendenza e dei suoi effetti può avere anche valenze la cui portata è molto più vasta dell’ambito strettamente interpersonale. Ad esempio, ha osservato con particolare acutezza Erich Fromm in Grandezza e limiti del pensiero di Freud (Mondadori, 1979), prendendo spunto dall’esperienza del transfert che viene spesso vissuta nel rapporto tra psicoanalista e paziente e che Sigmund Freud nelle sue opere aveva ampiamente commentato in riferimento appunto a tale rapporto: «Il fenomeno del transfert, cioè la volontaria dipendenza di una persona da altre» persone percepite come «autorevoli, una situazione nella quale un individuo si sente indifeso, bisognoso di un capo dotato di forte autorità, è uno dei più frequenti e importanti fenomeni della vita sociale [...]. Chiunque [...] può constatare l’enorme ruolo che il transfert svolge nella vita sociale, politica e religiosa. È sufficiente guardare i visi in una folla che applaude un capo carismatico come Hitler o de Gaulle, e si scorgerà la stessa espressione di cieco stupore, adorazione, affetto, qualcosa che in effetti trasforma i volti dalla solita espressione di ogni giorno in quella di appassionati credenti. [...] Se si osservano le facce di coloro che contemplano i candidati presidenziali, ad esempio negli Stati Uniti, e tanto più il presidente in persona, si noterà la stessa espressione facciale che ben merita l’attributo di religiosa. E, come nel transfert psicoanalitico, essa non ha quasi niente a che fare con le effettive qualità umane dell’individuo che si ammira».... «Il nostro intero sistema sociale si fonda su questo singolare effetto prodotto da gente dotata di ascendente, grande o piccolo che sia», su altri che avvertono il peso di trovarsi «alle prese con forze naturali e sociali così soverchianti» da farli sentire impotenti «quanto un bambino nel proprio mondo». In questo sentire, «anche l’adulto è debole e, al pari del bambino, è alla ricerca di qualcuno che lo faccia sentire deciso, sicuro, in salvo, ed è per tale ragione che desidera – ed è proclive a – venerare personaggi che sono, o che volentieri si prestano ad essere considerati, salvatori e protettori anche se magari sono degli squilibrati»....
Ovviamente – come ha messo ancora in evidenza lo stesso Fromm – a disposizione delle persone ci sono delle sane alternative a questo genere di situazioni: innanzi tutto, l’evoluzione storica dell’umanità mostra che – di fronte a varie delle problematiche che si possono incontrare vivendo – «l’adulto ha imparato a difendersi in parecchi modi» ed in particolare «è in grado di istituire legami con altri, in modo da essere più attrezzato per opporre resistenza a minacce e pericoli»; e nel contempo vi è il fatto che «in una società razionalmente organizzata, che non abbia bisogno di confondere la mente dell’uomo per ingannarlo sulla situazione reale, in una società che incoraggi anziché scoraggiare l’indipendenza e la razionalità dell’essere umano, la sensazione di impotenza dovrebbe per forza scomparire, e con essa il bisogno di transfert sociale». E la prima e più fondamentale caratteristica di una tale società sarebbe il riconoscimento non soltanto degli evidenti istinti umani di fondo – indirizzati alla sopravvivenza, alla continuazione della specie e per l’appunto alla difesa dai pericoli – ma anche degli altri «bisogni o passioni» che nascono «dalla natura stessa dell’uomo» e che si intrecciano con quegli istinti: le «spinte [...] alla libertà, alla solidarietà, all’amore».
Se si è disposti ad impiegare in profondità la propria sensibilità e la propria intelligenza (riguardo ad un uso profondo di quest’ultima si trovano già nell’antichità esempi magistrali, come la maieutica socratica e i principali sutra filosofici del buddhismo mahayana, questi ultimi provenienti tutti dall’India a parte il cinese Sutra di Hui Neng), non si può che essere d’accordo con queste considerazioni di Fromm, che nascono da una complessa, aperta e dinamica “visione integrata” dell’essere umano e che tra le altre cose appaiono in profonda sintonia sia con la “visione a 360 gradi” dell’essere umano che era stata espressa a sua volta da Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, sia con la “antropologia dei chakra” che è stata sviluppata soprattutto nello yoga indo-tibetano e che – come si è già accennato [253] – appare particolarmente accurata e puntuale nella sua visione complessiva dell’essere umano. Più in particolare, scriveva Marx in quei Manoscritti: «L’uomo si appropria del suo essere onnilaterale in maniera onnilaterale, e quindi come uomo totale», attraverso «tutti i rapporti umani che l’uomo ha col mondo, vedere, udire, odorare, gustare, toccare, pensare, intuire, sentire, volere, agire, amare, in breve tutti gli organi che costituiscono la sua individualità [...]. L’appropriazione della realtà umana [...] è l’attuazione della realtà umana», che «è quindi molteplice quanto sono molteplici le determinazioni essenziali e le attività dell’uomo» [254].... E nella “antropologia dei chakra” si considera l’essere umano come caratterizzato per natura tanto da aspetti strutturali incentrati principalmente su se stesso (il piano organico, biochimico, istintuale; il piano della sensorialità, del senso ludico e del saper “dare la caccia” a ciò che si vive come necessario, come piacevole e/o come interessante; il piano emozionale, che include tra le altre cose sia la spinta ad affermarsi nel mondo come individui, sia la continua – e quanto mai vitale – sorpresa dell’incontrarsi con la personalità di ciascun altro attraverso le rispettive emozioni) quanto da aspetti altrettanto strutturali incentrati sull’apertura agli altri e al mondo in genere (il piano dell’empatia, dell’affettività e dei sentimenti profondi che ne possono nascere, al quale è riconosciuta anche una connessione primaria con la sessualità; il piano della socialità, dell’approfondimento intellettivo, della condivisione di conoscenze ed esperienze; il piano dell’intuizione, della spiritualità, del “sesto senso”), oltre che dall’intima presenza di un piano connesso a dimensioni al di là del tempo e dello spazio. Per riuscire a cogliere il senso intrinseco di questa antropologia e a non fraintenderla – evitando appunto di trasformarla erroneamente in un modello squadrato sovraimposto alla realtà individuale delle persone o addirittura in qualche sorta di ideologia – è fondamentale tener conto del suo essere non dualista e quindi del suo presentare la personalità umana come un tutt’uno che include una certa molteplicità ma permane intimamente fluido, osmotico e caleidoscopico e che al suo interno è pienamente interconnesso, senza minimamente che in ciò si stabiliscano dei “compartimenti stagni” o si cada in rigidi schematismi (e senza che dal punto di vista linguistico-lessicale si dimentichino i limiti intrinseci che le parole hanno nel cercare di descrivere la realtà...) [255].
Tra l’altro, gli istinti di fondo che ci caratterizzano sono molto più complessi di quanto potrebbe apparire di primo acchito. L’istinto di sopravvivenza implica quello al benessere fisico, sia perché – specialmente nel mondo naturale e “primitivo” in cui si sono formati i principali istinti umani e in cui non c’erano frigoriferi, impianti di riscaldamento automatizzati, potenti medicine ad effetto rapido pronte all’uso, supermercati sotto casa, comode automobili, possenti veicoli da trasporto come i treni-merci e i camion, ecc. – la sopravvivenza tendeva a richiedere una certa “buona salute” fisica (e tanto più nel medio-lungo periodo), sia perché è proprio attraverso il tendenziale ottenimento del benessere fisico che si esprime il meccanismo della sopravvivenza stessa: mangiare quando si ha fame (e possibilmente mangiare ciò di cui si sente l’esigenza), bere quando si ha sete, riposare quando si è stanchi, dormire quando si ha sonno, fare pipì e popò quando se ne sente un chiaro stimolo, correre e saltare quando si avverte la voglia di mettere in moto il proprio corpo (rimanendo in tal modo anche allenati in vista delle ulteriori attività fisiche che possono essere necessarie nell’esistenza quotidiana), massaggiarsi quando ci si sente indolenziti, cercare di curarsi quando si avverte qualche disturbo fisiologico (il ricorrere, in caso di bisogno, a delle particolari piante – o ad altre sostanze – che hanno un effetto medicinale è ad esempio una caratteristica che si trova anche in altre specie animali), ecc., così che il soddisfacimento dei propri bisogni fisici e il senso di benessere che consegue a tale soddisfacimento costituiscono la bussola primaria che consente la sopravvivenza. All’istinto di continuazione della specie sono connaturate da un lato la pulsione alla sessualità (pulsione che peraltro negli esseri umani è fortemente indipendente dalla fertilità in quanto – diversamente da quanto avviene in quasi tutte le altre specie animali sessuate – non è strettamente legata per via ormonale a dei rari momenti di estro femminile, ma tende ad avere una sostanziale continuità durante tutta la vita adolescenziale e adulta in entrambi i sessi e ha quindi acquisito una sua propria valenza autonoma e suoi propri linguaggi comunicativi), e dall’altro lato la parallela esigenza di crescere i bambini (esigenza che – specialmente in concomitanza con lo sviluppo espressivo, scientifico e tecnologico che continua a registrarsi nella società umana – tende a diventare per alcuni aspetti una vera e propria arte, come si è manifestato nel corso della storia col diffuso espandersi dell’educazione fornita ai bambini dai genitori e da altri adulti della comunità circostante e poi anche con l’emergere di ruoli sociali legati specificamente all’insegnamento: precettori, maestri, pedagoghi, educatori, professori, ecc.). Dall’istinto di difesa dai pericoli consegue l’esigenza di conoscere la natura e di poter intervenire con acume su di essa: da qui la spinta sia verso lo sviluppo delle varie scienze e tecniche (che può portare anche a tecnologie sempre più evolute e complesse), sia verso una corposa e incisiva cooperazione con gli altri esseri umani e in un certo senso anche con altri esseri viventi (come fanno comunemente ad esempio i pastori con le greggi e con i cani da pastore, animali con cui condividono ampi spazi, tempi ed esperienze, e come possono fare per molti versi anche gli altri allevatori, gli apicoltori, gli agricoltori, i selvicoltori, i floricoltori, ecc., se con le specie con cui essi interagiscono in modo particolare – cercando in primo luogo così di difendere se stessi ed altri da pericoli come la fame, le carestie, la scarsità di certe materie prime, l’eccessivo distacco dalle bellezze della natura, e altro ancora – hanno un rapporto di attenzione, rispetto, sensibilità e in fondo anche gratitudine). L’istinto rivolto al benessere fisico e la pulsione sessuale si sono anche in pratica combinati tra loro sviluppando la sensualità. Quello stesso istinto, combinandosi con la spinta alla tecnologia, ha portato pure all’invenzione delle cosiddette “comodità” (i comfort della lingua inglese), che possono rendere la vita più facile, meno dura e sensorialmente più piacevole: dormire in un letto relativamente morbido appare più efficace e gradevole che su un duro pavimento; spostarsi su un carro con buone sospensioni tirato da dei cavalli o addirittura su veicoli a motore ben progettati – e su strade ben costruite – può essere molto meno arduo che camminare a lungo, magari anche con dei carichi sulle spalle; avere a disposizione una lavatrice è molto meno faticoso e brigoso che lavare a mano i tessuti che possono esserci utili; ecc..
Peraltro, quegli stessi istinti, se esasperati oppure se applicati superficialmente e “automaticamente” a una situazione esistenziale e culturale molto diversa dalla nostra “primitività” originaria, possono anche avere delle conseguenze evidentemente negative o persino disastrose. L’aggressività che può servire per difendersi da attacchi di animali predatori o eventualmente di esseri umani violenti può anche diventare socialmente distruttiva se si tende a produrla e ad esprimerla anche quando non è in corso quel genere di attacchi (e persino autodistruttiva se stimola così una reazione aggressiva di qualcun altro più capace di combattere o più organizzato...). La tendenza a mangiare più del necessario quando ve ne è la possibilità, tendenza che si è prodotta come positivo effetto dell’istinto di sopravvivenza in culture caratterizzate da una notevole variabilità della disponibilità di cibo nel corso delle stagioni, diventa un grave pericolo per il benessere fisico e per la sopravvivenza stessa delle persone quando non vi è più quella variabilità e c’è invece con continuità una notevole abbondanza di cibo disponibile: ne deriva una tendenza a mangiare sempre in eccesso, con ovviamente una conseguente forte inclinazione all’obesità, al diabete, a problemi articolari e scheletrici e a vari altri disturbi e malattie. Le tecnologie, che dovrebbero rendere più solida e per certi versi più interessante la nostra esistenza, possono divenire estremamente distruttive se impiegate male, senza adeguati criteri, in maniera eccessivamente superficiale o a scopi di tipo bellico. La passione per i comfort può divenire un’esasperata forma di pigrizia che finisce facilmente col mettere a repentaglio sia il benessere fisico che sta all’origine di tale passione sia vari altri cruciali aspetti della vita della persona in gioco. La sessualità – se trasformata in qualcosa di egocentrico, aggressivo e umanamente insensibile, anziché di comunicativo, affettuoso e reciprocamente attento – può diventare assurdamente fonte di sopraffazione e di violenza, causa di dolore e origine di profonde e controproducenti tensioni su vari piani. E via dicendo....
Paradossalmente, le “spinte alla libertà, alla solidarietà e all’amore” citate da Fromm come altre manifestazioni della natura umana possono essere molto più semplici degli istinti di fondo, per lo meno per chi abbia sviluppato a un notevole grado la capacità di “conoscere se stessi” (o – con altre espressioni – di “dare ascolto al proprio profondo”, di “vedere dentro di sé”, di “praticare forme di introspezione”, ecc.). È molto chiara al proposito la semplicità con cui si sono espressi riguardo a tali spinte filosofi come Socrate, Lao-tze, Epicuro, Marx, Krishnamurti e Mary Daly, maestri Zen come Hui Neng, Daisetz Teitaro Suzuki e Thich Nhat Hanh, antropologhe come Riane Eisler, terapeuti come Fromm stesso, Carl Rogers, Robin Norwood, Leo Buscaglia e Cyndi Dale o narratrici come Pearl S. Buck e Benoîte Groult. Ma “semplice” non significa “semplicistico”: in tal modo, queste spinte interiori sono alla fin fine più semplici degli istinti umani di fondo, ma ne sono anche molto più complesse, potendo esprimersi in un vero e proprio caleidoscopio di forme di creatività, comunicatività, cooperazione con altri, reciprocità, e così via.
Come gli istinti di fondo, comunque, anche queste spinte naturali possono avere degli effetti problematici: in particolare, possono dar luogo non solo a un caleidoscopio di relazioni e costruzioni vitali e positive, ma anche – quando una persona ha poco sviluppato quella capacità di conoscere e comprendere sé e il mondo – ad enormi equivoci. La spinta alla libertà può trasformarsi ad esempio nel “terrore” giacobino impostosi dopo la Rivoluzione francese di fine ’700, in asperrime repressioni come quelle avviate da Stalin in Russia negli scorsi anni ’30 e da Pol Pot in Cambogia una quarantina d’anni dopo o negli atteggiamenti politici oppressivi che hanno predominato a lungo negli Usa dopo la seconda guerra mondiale come il demenziale maccartismo e l’insistenza su violente intromissioni nella vita di altri paesi (portandovi guerre come in Vietnam, in Iraq e in Serbia o sanguinosi colpi di Stato reazionari come in Persia, in Guatemala e in Cile, e via dicendo) [256], oppure, su un altro piano, in un deliberato e spesso progressivamente autodistruttivo abuso di droghe, alcool, ecc., come è avvenuto a partire dagli scorsi anni ’50 – soprattutto in Occidente – per numerosi esponenti della beat generation e poi della controcultura giovanile e poi ancora per una considerevole parte del mondo giovanile in genere (con ormai moltissimi morti a seguito proprio di tali abusi) [257].... La spinta alla solidarietà può ridursi a un superficiale altruismo banalmente assistenzialista o a un “soporifero” e sottilmente autoritario paternalismo calato dall’alto, con risultati che – come è stato sottolineato più volte – non di rado si sono rivelati nettamente controproducenti, come per esempio nel caso di chi ha sfruttato la disponibilità di certi consistenti sussidi statali (relativi alla disoccupazione e alla povertà) per rifugiarsi in un pigro, comodo e a lungo andare parassitico “far niente”, oppure nel caso degli effetti negativi provocati da certi aiuti che sono stati inviati nel Terzo mondo in una maniera un po’ generica o in un contesto deliberatamente strumentale e basato su dei particolari interessi dei cosiddetti “paesi donatori” [258], oppure ancora nel caso dell’estrema “passività politico-sociale e credulità di massa” che quel paternalismo autoritario ha finito col produrre intorno a sé nei regimi del cosiddetto “socialismo reale” e che tende a proseguire ancora a lungo anche dopo l’eventuale fine di quei regimi (una credulità nei confronti del potere costituito e una predominante passività che sono emerse in modo particolarmente tragico in occasione di prolungati conflitti armati come le guerre che hanno segnato la fine della ex Jugoslavia, le guerre russo-cecene e la guerra russo-ucraina ancora in corso).... E la spinta all’amore può diventare un sentimentalismo con venature spesso possessive e talvolta persino autodistruttive e/o distruttive (come quando non si riesce a sopportare di essere stati lasciati da un particolare partner e si finisce drammaticamente preda della delusione, della desolazione e della depressione o – da un altro lato – della rabbia e del rancore), oppure può scatenare meccanismi di autoinganno nei quali, specialmente attraverso delle proiezioni psicologiche, si insiste a “prendere lucciole per lanterne” e a scambiare qualcosa per tutt’altro (di nuovo con effetti che giungono talvolta ad essere anche autodistruttivi e di converso distruttivi, come quando una persona insiste a rimanere con un particolare partner che la maltratta e magari la picchia, e che in certi casi alla fine – solitamente quando quella persona cerca di lasciarlo perché non lo sopporta più – addirittura la uccide, come sta avvenendo tragicamente negli ultimi anni con molti degli assurdi e dementi “femminicidi” che si susseguono in Italia e in altri paesi) [259]....
In altre parole, occorrono un certo discernimento, una certa intelligenza e alla fin fine un certo equilibrio di fondo nel vivere i propri istinti di fondo e le proprie naturali spinte interiori, dal momento che da un lato queste forze che si muovono dentro di noi indicano a noi stessi le direzioni in cui procedere per la nostra sopravvivenza e per il nostro benessere, ma dall’altro lato se esasperate o esagerate – o se assecondate in maniera insensibile e cieca – possono diventare appunto distruttive per altri e/o per noi stessi.... Si tratta di una tematica presente praticamente da sempre nell’evoluzione dell’umanità, come viene mostrato dal fatto che già nell’antichità si focalizzarono con particolare lucidità su questa tematica Lao-tze in Cina ed Epicuro in Grecia (quest’ultimo tra l’altro, più di due millenni dopo, divenne il principale argomento della tesi di laurea in filosofia per Marx...). Ad ogni modo, non ci si dimentichi che le conseguenze controproducenti che possiamo vivere a seguito di fraintendimenti dei nostri istinti di fondo e gli equivoci che possiamo vivere a proposito di nostre aspirazioni come quelle alla libertà, alla solidarietà e all’amore – con le sofferenze che possono nascere da questi due tipi di sfasature – sono anche occasioni per crescere, per apprendere a conoscere più ampiamente noi stessi e il mondo, per cercare di cogliere meglio il senso vitale insito in ciascuna di quelle nostre dinamiche interne e per evitare invece sempre più l’insorgere e soprattutto l’approfondirsi di tali fraintendimenti ed equivoci.
Benché le precedenti considerazioni di Erich Fromm sul “transfert sociale” appaiano solidamente giustificate – in quanto fondate su una profonda e lucida osservazione dell’essere umano e della società – e tuttora quanto mai valide vista anche l’evoluzione storica degli ultimi decenni, non si può non notare che esse hanno finito col rimanere pressappoco una vox clamantis in deserto (cioè, secondo un’antica espressione latina, una “voce che grida nel deserto”).... Infatti, praticamente in contemporanea con l’uscita di quel libro di Fromm (che è stato pubblicato nel 1979 anche nell’originale in lingua inglese), è cominciata l’ascesa apparentemente trionfale del neoliberismo, che verso la vita ha un atteggiamento di fondo sostanzialmente contrario a quello espresso da Fromm e dagli altri sostenitori di un pensiero umanistico, dialettico, olistico e ricco di affettività per l’umanità e in generale per il mondo vivente: un’ascesa che ha mosso i primissimi passi proprio sul finire degli anni ’70 con le vittorie elettorali di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e di Ronald Reagan negli Usa e che già dopo breve tempo ha potuto celebrare i suoi “successi” più grandi con l’estrema diffusione dell’economia neoliberista – in vari modi – persino nei paesi nei quali erano avvenute le principali rivoluzioni novecentesche ispirate a idee socialiste e nei quali si erano poi dolorosamente formati i principali regimi del cosiddetto “socialismo reale”, cioè la Russia (con l’ulteriore aggiunta degli altri paesi del “Patto di Varsavia” dopo la seconda guerra mondiale e col crollo generale di tutta l’incastellatura alla fine degli anni ’80) e la Cina (che, dopo la scomparsa di Mao nel 1976, con Deng Xiaoping e i suoi successori si è aperta progressivamente – e sempre più – al capitalismo liberista). E, parallelamente, nel nostro pianeta per una grandissima parte dei “cittadini comuni” è complessivamente proseguito alla fin fine l’atteggiamento di delegare in maniera sempre più ampia la politica ai “politici di professione”, in un rapporto sostanzialmente o di stabile dipendenza emotiva da loro o di complessiva sfiducia nei loro confronti senza però che da questa sfiducia riuscisse a nascere qualche sana, efficace, esauriente e vasta alternativa al loro modo corrente di porsi e di agire: entrambi i tipi di rapporto danno in sostanza lo stesso risultato, cioè appunto “la politica ai politici”, anche se nel primo caso persiste in effetti il fenomeno del transfert di massa (con la frequente tendenza ad un particolare e diffuso apprezzamento per qualche politico incline ad esprimersi in modo autoritario e a mostrare di fatto un certo disprezzo per gli aspetti della democrazia più essenziali e significativi), mentre nel secondo caso non si sviluppano nella vita sociale le sane alternative a tale transfert e quindi quest’ultimo tende a predominare concretamente benché una parte della popolazione non sia direttamente e specificamente colpita da esso. Come si è già accennato in parti precedenti del presente intervento, vi sono state delle eccezioni a quell’atteggiamento, collegate su scala nazionale a successi elettorali come ad esempio quelli di Chávez in Venezuela, Tsipras in Grecia, Mujica in Uruguay o Aung San Suu Kyi in Myanmar (successi che hanno spinto anche i “cittadini comuni” a una certa partecipazione alla sfera politica) e su scala internazionale al breve periodo del “movimento di Seattle” (quando si sono manifestate forti istanze popolari che in molti paesi hanno portato sul momento ad un’ampia crescita sia della “società civile” sia delle rivendicazioni complessive in campo sociale e che, però, non sono riuscite a risolvere il “nodo gordiano” del rapporto fra lotta sociale e lotta politica in questa “nuova” epoca di globalizzazione), ma di fatto sono sempre state eccezioni solo temporanee e parziali [260]. In altre parole – come del resto è avvenuto numerose volte nella storia con l’emergere di figure particolarmente profonde nelle loro capacità filosofico-esistenziali e socialmente propositive – Fromm, in sintonia con vari altri autori a lui precedenti o contemporanei, ci ha offerto delle lucide osservazioni dalle quali poter trarre stimoli per intervenire concretamente e appunto lucidamente nella nostra vita non soltanto sul piano personale ma anche su quello sociale, però sinora nel complesso è stato più forte l’impatto di una serie di poteri costituiti (economici, politici, militari e/o ecclesiastici, con equilibri diversi tra loro a seconda delle varie parti del mondo) interessati, al contrario, a mantenere le classi popolari in uno stato di scarsa lucidità, di passività e soprattutto di sudditanza, così da preservare, prolungare e possibilmente espandere in modo ulteriore il sussistere di quei poteri e il loro predominio....
Anche i rallentamenti che si sono verificati durante l’ultima quindicina d’anni in questa marcia trionfale del neoliberismo (col ritorno di piccole dosi di politiche keynesiane per accelerare l’uscita dalle recessioni economiche internazionali conseguenti alla “crisi dei mutui” e alla “pandemia da Covid-19” e con le logiche relativamente protezionistiche che Trump – con il suo insistere sulla questione dei dazi – sta impostando negli Usa dopo la sua recente vittoria elettorale) sono più apparenti che reali, in quanto toccano pochissimo l’aspetto della mentalità neoliberista più significativo, e cioè l’aspetto sociale, che continua a rimanere contrassegnato sia da estreme (e devastanti) diseguaglianze economiche, sia da un crescente allontanarsi delle “stanze dei bottoni” della politica dalle masse popolari, sia da una costante erosione della spesa pubblica di tipo sociale e ambientale. Da un lato, l’utilizzazione di un po’ di politiche keynesiane nel caso di diffuse crisi economiche fa comunemente parte ormai della logica neoliberista (che – come si è già notato in modo ampio alcuni anni fa in Il neoliberismo non è una teoria economica, oltre che più recentemente nella terza parte del presente intervento – è pronta a sostenere nei fatti qualsiasi direzione concreta che serva a tutelare la ricchezza materiale dei “grandi ricchi”, il loro potere e i loro privilegi), mentre dall’altro lato il limitato protezionismo rivendicato, soprattutto a parole, da Trump serve semplicemente a tentare di riassestare gli equilibri tra le élite economiche che hanno la loro base principale nelle diverse parti del mondo e che si servono di metodi considerevolmente diversi per dominare e “controllare” le classi popolari. In altre parole, anche il neoliberismo ha i suoi limiti pratici, collegati soprattutto al bisogno di un certo consenso popolare, tanto più nei paesi dove si svolgono regolarmente delle elezioni politiche a suffragio universale. E, quando il consenso popolare che stanno raccogliendo i governi neoliberisti rischia di scendere al di sotto della soglia considerata pericolosa dalle élite economiche e politiche, allora un certo ripiegamento dei governi stessi rispetto ai princìpi ufficiali del neoliberismo, se riesce a ripristinare maggiormente un rapporto fiduciario tra la “popolazione comune” da un lato e i governi e le élite in questione dall’altro, diventa quanto mai utile tanto alle élite stesse e ai governi che ne sostengono gli interessi quanto alla tenuta concreta dei principali aspetti del neoliberismo nella società [261]....
6. Forme di dualismo e società patriarcali
Ancora più a monte di tematiche quali le dipendenze e le proiezioni psicologiche, vi sono alcune forme di dualismo che appaiono talmente radicate nella cultura patriarcale da poter essere considerate sia come intrinseche ad essa, sia parallelamente come fattori che – presi singolarmente o combinati assieme – stanno anche in buona parte all’origine di qualsiasi mentalità dualista.
In primo luogo, vi è la tendenza ad una posizione di predominio degli uomini sulle donne: predominio che – applicato appunto al rapporto tra i sessi, che è ineludibilmente il più strutturale ed archetipo nella vita della specie umana, come hanno sottolineato in modo particolarmente pregnante nel movimento socialista già nell’Ottocento Charles Fourier e Karl Marx [262] – implica l’idea di fondo che è “normale” che qualcuno sia stabilmente nella posizione di comandare e qualcun altro in quella di ricevere e subire i comandi. Su questo, culturalmente e socialmente illuminanti risultano alcune considerazioni di Riane Eisler – già riportate più ampiamente nella seconda parte del presente intervento (nella sezione “Sfera occupazionale, paradossi politici, equivoci culturali”) e tratte dalla sua postfazione pubblicata nella più recente edizione italiana di Il calice e la spada (Forum, 2011) – riguardanti i ruoli sociali maschili e femminili, il servire e il venire serviti e le “mappe mentali ed emotive” che sin da bambini interiorizziamo precocemente: in breve, «il dominio maschile è un aspetto così fondante» dei sistemi sociali caratterizzati da delle forme di predominio poiché «offre un prototipo emotivo» che «fa sembrare normali l’ingiustizia e l’essere subalterni sia nelle famiglie che nelle nazioni, sia in economia che in politica».... In tal modo, questo atteggiamento sessista e la sua concretizzazione possono essere considerati l’inizio storico delle varie forme di classismo, come accennava nel 1884 Friedrich Engels in L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato e come è stato ulteriormente approfondito negli ultimi decenni da svariate esponenti del movimento femminista attraverso in particolar modo lo sviluppo di nuove ricerche archeologiche e di una loro accurata interpretazione [263]. Tra l’altro, in quella postfazione Riane Eisler sottolineava anche che il «fenomeno [...] generalmente descritto come fondamentalismo religioso» (musulmano, cristiano, indù o ebraico che sia) è «in realtà [...] la restaurazione – o il tentativo di restaurazione – di un governo autoritario, nella famiglia, nello Stato o nella tribù, attraverso un rigido dominio maschile e tramite l’idealizzazione della violenza come mezzo di controllo [...]. In realtà il “ritorno” delle donne al loro posto subordinato “tradizionale” è il tratto principale del fondamentalismo»....
A questo riguardo – come si è già argomentato in modo ampio, sempre nella seconda parte del presente intervento – è da mettere di nuovo in risalto che la recente tendenza neoliberista che propone alle donne modelli di comportamento più maschili e che riconosce abbastanza spesso alle donne posizioni sociali analoghe a quelle maschili (a patto che le donne si comportino secondo modalità simili a quelle tipicamente maschili...) è semplicemente una strategia attraverso cui l’attuale “sistema di potere” basato principalmente sull’economia ha spostato in buona parte il predominio maschile dal piano sociale al piano culturale, e ciò sostanzialmente come reazione all’ampia creatività sviluppata dal movimento femminista durante il ’900: così, il sistema sta ora spingendo tutti – anche le donne – a vivere in base alle tipiche logiche maschili e patriarcali, il che ovviamente per le donne è particolarmente complicato, difficile, stressante, alienante e intimamente insoddisfacente, anche se può consentire loro certi vantaggi dal punto di vista dello status sociale e della sfera economica.... E con questa tipologia di reazione sistemica ne convive in molti àmbiti un’altra: quella di cui parlava per l’appunto Riane Eisler, cioè una tipologia restaurativa, “fondamentalista” e incline ad un pesante autoritarismo, un aspetto della quale è la tendenza alla violenza maschile nei confronti delle donne, specialmente se queste cercano di non conformarsi al dominio maschile all’interno della sfera famigliare o della società in generale. In tal modo, mentre qualcuno ipotizza che – vista la teorica parità giuridica ormai conquistata dalle donne in gran parte del mondo – siamo già arrivati felicemente alla fine del patriarcato, in realtà il patriarcato è trionfante come prima: ha solo modificato un po’ i suoi stilemi.... Infatti – tranne che in alcuni paesi basati su forme culturali medioevali arcaicamente patriarcali e/o su forme politiche teocratiche o militaresche (come i già ricordati Afghanistan, Arabia Saudita e Iran, il Myanmar e pochi altri) – attualmente il potere funziona concretamente sempre di meno su una base giuridica e politica e sempre di più su una base economica, alla quale si sta aggiungendo in questi ultimissimi anni una crescente escrescenza di tipo militare: non a caso, l’intero diritto internazionale ed umanitario ormai è come se non esistesse più, in pratica [264].... In tal modo, di fatto governano molto di più le lobby economiche che i politici: o meglio, ufficialmente governano i politici, ma sono le lobby – che li blandiscono, li minacciano e molto spesso li comprano – a governare in realtà dietro le quinte, per lo meno per quanto riguarda tutti i temi economicamente più rilevanti; e a sua volta il crescente aspetto militare attuale appare collegato ad un’estremamente virulenta e tragica recrudescenza internazionale del “complesso militare-industriale” (una lobby specifica che ha un piede nell’economia e uno nelle forze armate), la cui pericolosità venne denunciata con particolare acume ed acutezza già nel 1961 dal presidente statunitense Eisenhower nel suo ultimo discorso pubblico [265].... La parità giuridica oggi conta decisamente poco, nei fatti (e, quindi, sempre di più la teorica parità giuridica è qualcosa con cui ci si può spazzare il didietro, con rispetto parlando...). Ad esempio, in base alla “Dichiarazione universale dei diritti umani” e ai suoi trattati applicativi (tutti assolutamente validi e vigenti) ciascuna persona avrebbe diritto a un lavoro dignitoso, a una retribuzione dignitosa, a un sistema scolastico efficace e stimolante, alla possibilità di incidere significativamente nella vita politica, e così via; ma per quanto riguarda le classi lavoratrici dove sono finiti tutti questi diritti, purtroppo ormai solamente teorici...? E anche qualche eventuale magistrato volenteroso che volesse difenderli e tutelarli, come potrebbe fare per riuscire ad agire in modo concreto e fattivo (visto che ormai i governi e – dove ci sono i Parlamenti – anche le maggioranze parlamentari si rifiutano tassativamente di prendere ampiamente in considerazione tali diritti, benché in teoria questi siano appunto assolutamente validi e vigenti)...?
Per molti versi, la frattura nel rapporto tra i sessi che è inevitabilmente associata alla volontà di predominio di un sesso sull’altro è una sorta di “madre di tutte le fratture”, è una frattura intima che colpisce l’essenza stessa della personalità umana, sia che si tratti di un predominio più sociale e diretto, sia che tale predominio sia più culturale e indiretto: dal momento che l’esistenza umana si basa – oltre che sulla capacità di sopravvivere degli individui nella loro singolarità (capacità alla quale la collaborazione con altri può dare una mano, ma alla fin fine la volontà di sopravvivere alle difficoltà e di vivere rimane poi comunque un fatto personale di ciascuno) e sulla disponibilità degli adulti ad occuparsi dei bambini accudendoli ed istruendoli – proprio sulla cooperazione riproduttiva di una persona di un sesso e di una persona dell’altro, una tale volontà di predominio lede la possibilità di un’armonia creativa e di un’autentica e gioiosa bellezza nel cuore stesso dell’esistenza umana, ferisce profondamente ciò che di tale esistenza è biologicamente il fulcro e imbruttisce in modo sostanzialmente fuorviante e amaro la maniera in cui gli esseri umani guardano a se stessi.... Naturalmente, nel corso della storia moltissime donne e molti uomini hanno resistito a questa impostazione quanto mai disarmonica del rapporto tra i sessi e non l’hanno affatto condivisa, anche se la cultura dominante ha comunque teso a presentare il rapporto uomo-donna come un rapporto non paritario, basato su una posizione maschile di comando e/o sul predominio di valori e modi di essere prepotentemente maschili. Questo ha anche significato che, per lo meno nelle società di tipo patriarcale, il rapporto tra i sessi – e in particolare la sua sfera relazionale e la sua sfera sessuale – ha continuato a essere concretizzato e definito in maniere molto diversificate nel corso della storia: da un lato, la cultura dominante con la propria inclinazione al predominio maschile e ad un complessivo sfruttamento delle donne; dall’altro lato, la cultura “resistente” con la propria descrizione e rivendicazione di rapporti sostanzialmente paritari, affettivamente coinvolti e interiormente sensibili e attenti alle esigenze esistenziali di entrambi i sessi; tra l’una e l’altra di queste tendenze culturali, varie sfumature “intermedie” emerse qua e là nel mondo a seconda dei luoghi e delle epoche.
Riguardo a vari aspetti intrinseci dei piani culturali collegati al predominio maschile nelle diverse forme che esso ha assunto storicamente, preziosa è stata in particolare – negli ultimi decenni del ’900 – la vulcanicità di Mary Daly nell’inventare nuove parole e nuove forme espressive che uscissero dall’ambito della tipica cultura patriarcale e proponessero concetti, sentimenti e modi di rapportarsi tra persone profondamente alternativi a tale cultura e aperti alla spontaneità e alla creatività di ciascuno, in particolare delle donne (tendenzialmente escluse di fatto per millenni nelle società patriarcali dall’impostazione “istituzionalmente riconosciuta” del linguaggio e dell’espressione linguistica) [266]. Così come – nel corso di tale secolo – scrittori quali soprattutto James Joyce hanno liberato la prosa da molte regole non necessarie e altri come specialmente Giuseppe Ungaretti e Allen Ginsberg hanno fatto lo stesso con la poesia, Mary Daly ha cominciato a liberare il linguaggio verbale stesso da una non necessaria impostazione patriarcale di fondo che potenzialmente può contribuire a limitare pesantemente e a restringere il modo di pensare e sentire di ciascuno. Tra l’altro, anche in vari altri campi della creazione artistico-letteraria e della sfera comunicativa la seconda metà del ’900 (in particolar modo durante gli anni ’60 e ’70) è stata caratterizzata da una fortissima tendenza alla conquista di una piena libertà espressiva che sapesse andare oltre gli schemi tradizionali [267].
In secondo luogo, vi è la parallela tendenza ad una mentalità gerarchica, sia nella società in generale (dove il classismo è infatti un tipico e frequentissimo aspetto degli assetti sociali patriarcali), sia – per lo meno nelle mentalità tradizionali – in casa (con l’abitudine alla presenza di un capofamiglia, spesso abituato a sua volta ad imporsi più o meno seccamente su tutti gli altri nell’ambiente famigliare – donne, giovani, ecc. – e non di rado con qualche sorta di ulteriore gerarchia tra di essi). Naturalmente, anche questa tendenza ha generato innumerevoli critiche, contestazioni, opposizioni, ribellioni, tentativi di riforme radicali, ecc.: nell’ambito della società in generale, specialmente da parte dei gruppi sociali considerati inferiori e subalterni; nell’ambito famigliare, specialmente da parte di chi si sentiva maltrattato e oppresso da qualcun altro. Oggi – dopo la teorica conquista novecentesca di una giuridica “parità di diritti” da parte appunto delle donne nei confronti degli uomini e dopo la diffusa ribellione giovanile esplosa negli anni attorno al ’68 soprattutto in Occidente, ribellione cui ha fatto seguito da parte delle élite economiche un ampio riconoscimento del potenziale ruolo consumistico dei giovani... – la cultura dominante stessa ha aperto considerevoli spazi ad un concetto di famiglia meno gerarchico e più incline a uno spirito tendenzialmente paritario e democratico (oltre che – cosa da non dimenticare – più utile ad un vasto sviluppo del consumismo, attraverso appunto una maggiore e più spigliata partecipazione ad esso da parte delle donne, dei giovani e persino dei bambini...) [268].
In questo, rimane storicamente e socialmente molto interessante il fatto che, quando in una società ha successo una ribellione degli strati sociali in quel momento subalterni, spessissimo le loro parole d’ordine hanno a che fare con l’eguaglianza, la solidarietà, la parità di diritti, ecc.; però, una volta che la ribellione ha ottenuto il suo successo e la nuova situazione sta cominciando a stabilizzarsi, l’andamento quanto mai tipico è che ci si accorge che si sta già formando una nuova rigida gerarchia attraverso qualche forma di selezione e di scontro interno specialmente tra i principali autori di quella ribellione. Tra l’altro, Engels notò questo aspetto storico con particolare ampiezza – e con un marcatissimo spirito critico – sia nell’Antidühring (testo del 1878 approvato pienamente da Marx) sia nella lunga Introduzione che egli scrisse nel 1895 per una riedizione del marxiano Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850. Ciononostante, è degno di nota che tutte le rivoluzioni novecentesche che si sono dette “ispirate a Marx ed Engels” hanno invece ogni volta ripetuto drammaticamente – e beffardamente per la gente – quel ritorno a qualche rigida ed oppressiva gerarchia dopo il successo della rivoluzione stessa....
Sicuramente – come si è già accennato nella seconda parte del presente intervento – ha profondamente contribuito a ciò il fatto che in nessuna delle “moderne” rivoluzioni che hanno avuto successo nel corso degli ultimi 300 anni gli uomini coinvolti in prima fila nella rivoluzione intendessero nei fatti rinunciare radicalmente alla loro posizione tradizionale di predominio e/o di presunta “supremazia culturale” (quanto mai malintesa e fasulla) nei confronti delle donne [269]: una volta che una rivoluzione non riconosce in pratica il sessismo come qualcosa di erroneo, di sbagliato, di molto pericoloso, di profondamente stupido e di estremamente limitato, vuol dire che la porta e le finestre della “nuova società” rimarranno spalancate al classismo (in quanto il sessismo è di fatto una delle forme assunte storicamente dal classismo, come sottolineò esplicitamente appunto Engels e come quasi tutti i cosiddetti “marxisti” novecenteschi di spicco risultano aver drasticamente dimenticato o volutamente ignorato...). Riguardo a diversi altri fattori che appaiono aver contribuito alle pesantissime involuzioni post-rivoluzionarie che hanno afflitto il cosiddetto “socialismo reale” durante il ’900 ed oltre, si è già scritto piuttosto ampiamente in precedenza e non appare il caso di riprendere qui ulteriormente la questione [270].
In terzo luogo, vi è la tendenza alla separazione tra fisicità e interiorità, tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra corpo e spirito, tra bellezza esteriore e bellezza interiore, di modo che il lato materiale e quello psichico tendono a restare superficialmente giustapposti oppure aggressivamente contrapposti – in maniera conflittuale – l’uno all’altro. Tra i due lati in questione, nella giustapposizione si ha una situazione di reciproca convivenza e in fondo anche di relativa indifferenza l’uno rispetto all’altro, mentre la contrapposizione può esprimersi con un reciproco scontro più o meno continuo oppure con uno dei due lati che predomina sull’altro, tollerandolo – a patto che si lasci guidare appunto dal lato dominante – o addirittura rifiutandolo, negandolo, ecc. [271].
Nella vita sociale, questo tipo di separazione – specialmente nella sua modalità caratterizzata dalla contrapposizione – è diventato comunemente uno dei principali fattori storicamente coinvolti nel classismo e nelle sue modalità di concretizzazione [272]. A parte gli aspetti specificamente sessisti (già presi più volte in considerazione), in origine il classismo appare essersi prodotto solitamente sulla base del predominio della “manualità” guerriera o – alquanto più raramente – di quello della “intellettualità” politico-burocratica, teocratica, tecnologica e/o economica, di modo che l’appartenenza al gruppo dei guerrieri o a quello degli intellettuali attivi nella società e lo sviluppo individuale delle capacità specifiche richieste dal gruppo in questione risultavano essere i fattori basilari della formazione della classe dominante [273]. Col tempo però – e con lo sviluppo storico sia di Stati di grandi dimensioni, quali ad esempio già nell’antichità e nel Medioevo gli imperi cinesi, persiani, macedoni, romani, arabi, mongoli, inca, centroeuropei (come il Sacro Romano Impero, collegato soprattutto alla figura di Carlo Magno) o russi, sia di una crescente evoluzione tecnologica in molti campi, inclusa la produzione di armi, sia recentemente di una sfera economica sempre più possente e sfaccettata – le classi dominanti appaiono aver colto il fatto che in molti casi è più facile comandare intrecciando tra loro quei due possibili lati del potere. Si sono formate, così, società in cui il potere è stato articolato e suddiviso tra un ceto militare e uno intellettuale: ad esempio, questa era evidentemente una caratteristica già dei popoli invasori – appartenenti al cosiddetto ceppo “indoeuropeo” – che diversi millenni fa hanno conquistato gran parte dell’India portando con sé non solo tecniche di combattimento “vincenti”, ma anche i Veda, il sanscrito, un ampio corpus di miti e leggende e un sistema sociale basato fondamentalmente ed esplicitamente su quattro caste, delle quali due dominanti (i guerrieri e i sacerdoti) e due subordinate (i produttori – cioè i contadini e gli artigiani – e i servi). Il ceto militare stesso, sulla base proprio dell’evoluzione tecnologica degli armamenti, ha finito in pratica col suddividersi tra un settore intellettuale che se ne sta sempre più dietro le quinte (e che include in sostanza gli strateghi, i generali, gli altri ufficiali di grado elevato e coloro che fanno da collegamento tra gli eserciti e i progettisti di nuove tecnologie utilizzabili in campo bellico) e un settore di “operatori manuali” pronti a partecipare in prima persona alle azioni di guerra e a rischiare in esse la propria vita, la propria integrità fisica e la propria salute psichica (in pratica, si tratta dei soldati e dei sottufficiali, il cui agire è posto tipicamente sotto la direzione degli alti ufficiali). Da quel tipico predominio della “manualità” guerriera, si è passati in tal modo ad un predominio della “sfera intellettuale” anche nell’ambito militare, e ciò a seguito soprattutto dello sviluppo tecnologico [274].
Benché quell’articolato, dettagliato e rigido sistema di caste (suddivisesi ulteriormente poi a loro volta in molte sottocaste) sia una caratteristica particolare della storia dell’India, il tipo di tendenze sociali associate a tale sistema è molto diffuso nella storia dell’umanità: da un lato, le classi lavoratrici risultano comunemente tanto subordinate alle élite al potere quanto sfruttate da queste (e i lavoratori manuali risultano tipicamente più subordinati e sfruttati dei lavoratori intellettuali, che le élite cercano spesso di far diventare una sorta di “cuscinetto sociale” tra le élite stesse e i lavoratori manuali, così da indebolire il peso sociale dei lavoratori e la loro capacità riformatrice o rivoluzionaria, il tutto nella solita e ormai famosa logica che venne resa celebre dagli antichi politici romani con l’espressione divide et impera e che è ancora oggi utilizzatissima appunto dalle élite al potere); da un altro lato, il passaggio da una classe considerata “socialmente inferiore” ad una considerata “socialmente superiore” è sempre stato molto difficile nelle società patriarcali, e in diverse di queste praticamente impossibile; da un terzo lato, nel corso della storia si può scorgere molto spesso, a fianco di un ceto militare dominante, un ceto intellettuale che lo sostiene e gli fa propaganda (come è avvenuto specialmente in molte forme di dittatura), oppure – in alternativa – a fianco di un ceto intellettuale tendenzialmente dominante perché più in grado di gestire la complessità collegata ai grandi Stati o alle dinamiche tecnologiche ed economiche è presente molto spesso un ceto militare meno visibile che ne garantisce la posizione al potere (come è avvenuto in particolare in molti paesi almeno formalmente democratici) e che non di rado pretende anche di esercitare un’intensa influenza sulla vita pubblica. A quest’ultimo proposito basti vedere ad esempio, nell’ultimo centinaio d’anni, sia l’enorme peso conquistatosi per l’appunto dal “complesso militare-industriale” in molte cosiddette democrazie sia come sono diventati estremamente militarizzati i vari regimi del cosiddetto “socialismo reale” (e ciò non soltanto come possibile difesa nei confronti di eventuali aggressioni da parte di nazioni capitalistiche, ma anche come base interna di un potere politico che ogni volta è divenuto in breve tempo nettamente autoritario): in entrambi questi casi, formalmente c’è un ampio predominio del potere politico-intellettuale, ma dietro ad esso operano con grande – e non sempre evidente – forza gli eserciti, gli armamenti, gli apparati polizieschi e carcerari, ecc.....
Alla fin fine, non solo i gruppi sociali subordinati ma anche quelli dominanti si trovano fortemente pressati dal ruolo che i sistemi sociali classisti, gerarchici, ecc. tendono ad affibbiare loro nella vita concreta della società [275]. Ovviamente, le richieste comportamentali che ciascun ruolo sociale tende a caricare sulle spalle di una persona che per un motivo o per un altro si trova ad assumere quel ruolo possono entrare in estremo conflitto con svariati aspetti della personalità della persona stessa, tra i quali in particolar modo la sua tendenziale esigenza spontanea di libertà sia interiore che concreta. In breve, la rigidità e la limitatezza strutturale dei ruoli sociali costituiscono in linea di massima per gli esseri umani una drammatica palla al piede e tendenzialmente una feroce e conformistica gabbia comportamentale e psichica. Anche per questo la tipica rivendicazione del socialismo ottocentesco mirata alla realizzazione di una società liberata e liberatoria soprattutto dal punto di vista dei ruoli sociali permane tuttora quanto mai valida, benché durante il ’900 questa rivendicazione sia praticamente sparita dall’orizzonte tanto della cosiddetta “sinistra moderata” quanto del cosiddetto “socialismo realizzato” [276]....
Passando dall’aspetto sociale del vivere agli aspetti più psicologici e relazionali, una descrizione estremamente pregnante, lucida e stimolante della forma di dualismo che tende a dividere fisicità e interiorità e di quanto questa forma sia ormai diventata implicita e diffusa nell’esistenza quotidiana delle persone la si può trovare nelle vicende dei personaggi di quello che può essere considerato per molti versi l’ultimo romanzo di Pearl S. Buck: La dea fedele (Rizzoli, 1972; titolo originale The Goddess Abides, cioè “La dea risiede”) [277]. I principali protagonisti della narrazione sono Edith (una signora colta, benestante, intimamente piuttosto giovanile, con due figli ormai grandi, rimasta improvvisamente vedova dopo un matrimonio ormai scarsamente passionale e alquanto abitudinario), Edwin (un anziano docente universitario di filosofia, che un tempo era stato insegnante di Edith e ne è divenuto molto amico dopo la vedovanza di lei) e Jared (un giovane scienziato che con Edith ha una storia d’amore). Ecco un passo cruciale del romanzo, ambientato negli Stati Uniti di quel periodo (passo che si trova piuttosto avanti nella narrazione e che si riferisce ad un momento in cui Edwin è da poco deceduto, sostanzialmente di vecchiaia): «Edith passava le ore nella enorme biblioteca [lasciata da Edwin dopo la sua scomparsa, N.d.R.], studiando libri che non aveva mai letto, libri di storia e di filosofia dell’Asia. Edwin aveva viaggiato molto in quel continente, e ora lei cominciava a comprendere quanto l’Asia avesse influito sulla formazione del carattere di lui. Dall’Asia veniva quella istintiva libertà, quella facilità con cui lui riusciva ad armonizzare la materia e lo spirito. Il corpo era solo la manifestazione dello spirito, che traduceva in termini di carne e sangue, di pulsazioni e battiti cardiaci i desideri dello spirito. Il bisogno di amore fisico era solo una materializzazione del desiderio di comunicazione dello spirito. Non c’era una differenza sostanziale fra carne e spirito, ma solo una differenza nel modo di espressione. Jared, però, non era arrivato fino a questo punto. E nemmeno lei. La carne era la carne. Quando pensava a Jared con la carne, pensava al suo corpo. Lo spirito non c’entrava. E poi poteva pensare al suo spirito, e lo faceva, ma era una cosa a sé stante»....
È in particolare nell’estrema alterità del personaggio di Edwin e nella vitale profondità interiore di quest’ultimo che si esprime la sofferta consapevolezza esistenziale di Pearl Buck. Nella dualista e superficiale società del luogo – ma altrettanto soffertamente dualiste e interiormente superficiali erano anche le società descritte dall’autrice in altre sue opere, come ad esempio nel romanzo precedente ambientato in India, Mandala (Rizzoli, 1971), opere che in effetti possono essere considerate fondamentalmente uno specchio del mondo in cui viviamo e della sua cultura – di fatto Edwin è intimamente incompreso dall’ambiente sociale circostante (inclusa, per gran parte del romanzo, la stessa Edith) e tendenzialmente incompresa diventa pure la protagonista Edith quando riesce a cogliere l’essenza e la naturalità intrinseca del modo di essere di Edwin e inizia a condividere tale modo di essere.... Edwin, però, per l’appunto non è più presente ormai nella vicenda narrata, e per certi versi è proprio il suo decesso che spinge Edith a immergersi nella biblioteca che era stata di Edwin e a scoprire così le radici – e le fronde – filosofiche di quest’ultimo, prima da lei mai colte davvero.... In tal modo, tra le altre cose, questa scoperta avviene comunque troppo tardi dal punto di vista specifico del rapporto tra i due e della comunicatività tra i due, anche se nel contempo si tratta – peraltro – indubbiamente di un nuovo e affascinante inizio per Edith....
Nel confronto sottilmente indiretto che i lettori possono fare tra Edwin e gli altri personaggi (eventualmente anche di altri romanzi della scrittrice), Pearl Buck rivela una grande efficacia sia nel suggerire i grandi e spesso drammatici limiti che accompagnano la forma di dualismo in questione – ed eventualmente anche altre forme di dualismo che compaiono appunto in altri dei romanzi da lei scritti, come il razzismo, il sessismo, l’identificazione personale con le tradizioni culturali tipiche del proprio gruppo sociale viste in aspra e aprioristica antitesi con le tradizioni di altri luoghi o di altri gruppi sociali locali, ecc. – e che in particolare condizionano e ingabbiano la capacità di una persona di comprendere se stessa e gli altri e di interagire profondamente e armonicamente con loro (e quindi limitano anche la qualità dei rapporti interpersonali, inclusi in pratica anche quelli più stretti, tipicamente collegati in particolar modo all’affettività e/o alla sessualità), sia nel mettere in luce come quei grandi limiti appaiano praticamente normali finché si rimane all’interno della mentalità dualista [278].... In tal modo – si può aggiungere più esplicitamente – molte persone si rifiutano di vedere gli effetti limitanti che quei limiti pongono alla personalità umana e alle sue concrete possibilità esistenziali (in altre parole, esse considerano tali limiti come inscritti nell’essere umano e intrinseci ad esso e ritengono quindi che occorra accoglierli come inevitabili aspetti dell’esistenza), mentre altre colgono gli effetti limitanti in questione e in fondo se ne lamentano dentro di sé ma ritengono che per un motivo o per l’altro essi non siano superabili (solitamente, o perché la società corrente pone troppi ostacoli a chi volesse cercare di prendere un’altra strada, o perché ormai ci si è troppo abituati a tali effetti – che sono diventati così come una sorta di “seconda natura” nelle persone stesse – per riuscire a prendere nella propria esistenza strade nuove e diverse, o perché col passare degli anni si sono persi gli entusiasmi e la vitalità giovanili e non si sente più nemmeno il desiderio, la forza e le motivazioni per cercare di superare quei limiti).... Pearl Buck – che ha anche ottenuto il premio Nobel per la letteratura nel 1938 – si muove fra questa serie di tematiche in modi molto sottili, più allusivi che descrittivi, talvolta emblematicamente simbolici, ma in questo riesce ad esprimersi con una grande potenza, a patto che il lettore si lasci trasportare sin dentro lo scorrere del racconto (ed è evidente che, pur avendo pubblicato nel corso dei decenni anche diverse opere di saggistica, dedicate principalmente al dialogo fra culture e al sostegno ai diritti delle donne, con questo e con gli altri suoi romanzi lei non volesse affatto scrivere qualcosa che assomigliasse a dei trattati filosofico-psicologico-esistenziali, ma voleva soprattutto ricorrere alle molteplici e coinvolgenti possibilità espressive delle narrazioni) [279].
A sua volta, Ilaria Consolo – riassumendo nel libro Il piacere femminile (Giunti, 2017) non solo decenni di esperienze e di elaborazioni del movimento femminista ma anche una serie di recenti sviluppi delle ricerche medico-scientifiche sulla fisiologia e sulla psiche umane – ha sottolineato che «ancora oggi [...] sussiste l’errata convinzione che la mente e il corpo siano entità separate, anche se le neuroscienze e le scienze psicologiche sono ormai concordi nell’affermare che siamo esseri “psicosomatici”. In realtà, conosciamo il mondo tramite il corpo».... In altre parole, per l’evoluzione delle attività psichiche il corpo costituisce una base fondamentale e un mezzo praticamente essenziale, oltre ad essere tra le altre cose anche lo “strumento concreto” mediante il quale possiamo cercare di dare realizzazione a quanto abbiamo elaborato e progettato attraverso tali attività.... In tutto questo – proseguiva l’autrice – non si dimentichi che «la consapevolezza del proprio corpo, delle sue forme, del suo linguaggio e delle sue possibilità di movimento e di risposta agli stimoli esterni non è una conoscenza data una volta per tutte, o innata, ma si costruisce nel tempo attraverso le diverse esperienze e la loro successiva memoria. Chi siamo, cosa proviamo, come orientiamo i nostri comportamenti dipende dalla consapevolezza di essere al mondo con il nostro corpo, dipende dal nostro Sé corporeo». In particolare, il bambino «con l’apprendimento del linguaggio e della capacità di camminare e muoversi da solo nell’ambiente [...] raggiunge una sempre maggiore ricchezza di esperienze che ne modellano la personalità. Sapere che il proprio corpo è fonte di sensazioni piacevoli che si possono approfondire e riprodurre [...] porta l’individuo a un percorso di autonomia e sviluppo e fa da base per i successivi sentimenti di autostima e autoefficacia. [...] Certo, assai presto» su questo possono intervenire dei «condizionamenti culturali e sociali, tanto che una parte rilevante del concetto di sé deriva dal giudizio degli altri, in primo luogo dei genitori»....
In Tutto sull’amore - Nuove visioni (Feltrinelli, 2000; Il Saggiatore, 2022), la femminista afroamericana Bell Hooks ha messo in rilievo che Toni Morrison nel suo primo romanzo – L’occhio più azzurro (Frassinelli, 1994) – «definisce l’idea di amore romantico come una “delle più distruttive nella storia del pensiero umano”» e ha ulteriormente commentato che questa «distruttività consiste nell’idea che si giunga ad amare senza nessuna volontà e nessuna capacità di scegliere. Questa illusione, perpetuata da tanta paccottiglia sentimentale, ci impedisce di imparare ad amare. Per alimentare le nostre fantasie, mettiamo il sogno d’amore al posto dell’amore».... A proposito dell’amore appunto, «parlando con le persone intorno a me, riscontro che la disillusione è diffusa e che porta uomini e donne a sentirsi profondamente cinici nei confronti dell’amore. [...] La nostra cultura dà forse troppo peso all’amore come fantasia irresistibile o mito, ma non ne dà all’arte di amare. La nostra delusione nei confronti dell’amore è rivolta all’amore romantico. Se falliamo in amore è perché non abbiamo imparato l’arte di amare».... «Ho cercato per anni una definizione sensata della parola “amore” e ho provato un profondo sollievo quando ne ho trovato una in Voglia di bene, l’ormai classico manuale di auto-aiuto dello psichiatra M. Scott Peck, la cui prima edizione statunitense è del 1978» (mentre una traduzione italiana l’ha pubblicata Frassinelli nel 1998). Peck, «facendo eco all’opera di Erich Fromm, [...] definisce l’amore come “volontà di estendere il proprio sé al fine di favorire la crescita spirituale propria o di un’altra persona”» (definizione in cui il termine “spirituale” non ha un significato di tipo religioso ma si riferisce semplicemente alla nostra «dimensione più intima», come del resto – si potrebbe aggiungere – è stato nel corso del tempo per moltissimi altri autori, incluso lo stesso Marx). In altre parole, l’arte di amare ha a che fare con la pienezza e la «forza trasformativa» dell’amore vero, nel quale in particolare si giunge – e se ne accettano interiormente gli effetti – a sentirsi «in contatto con il nucleo identitario dell’altro. Imbarcarsi in una relazione del genere spaventa, proprio perché si sente che non ci si può nascondere. [...] Il cuore pulsante del vero amore è la volontà di riflettere sulle proprie azioni, per poi rielaborare queste riflessioni e comunicarle alla persona amata», scegliendo «l’onestà e la chiarezza» all’interno di «un dialogo profondo». Si potrebbe dire che «amare totalmente e profondamente ci mette a rischio. Quando amiamo subiamo una trasformazione radicale. Merton afferma: “L’amore non influenza solo il nostro modo di pensare e di agire nei confronti di chi amiamo, ma trasforma tutta la nostra vita. L’autentico amore è una rivoluzione personale. L’amore si impadronisce delle tue idee, dei tuoi desideri e delle tue azioni e li salda in un’esperienza e in una realtà di vita che fanno di te una persona nuova”» (dal saggio di Thomas Merton Love and Need, del 1966, poi incluso nella sua raccolta antologica postuma Love and Living, Farrar Straus and Giroux, 1979). In tal modo – ha sintetizzato Bell Hooks – accettiamo di «essere trasformati dall’amore e ci arrendiamo alla forza del nuovo sé»....
Se l’estremo costituito appunto dalle “fantasie sull’amore romantico” tende dunque – basandosi sostanzialmente su meccanismi come le proiezioni psicologiche e su fattori come la fisicità, gli ormoni e l’emotività intesa come qualcosa di totalmente irrazionale e di estraneo ai processi mentali – ad escludere tali processi dalla genesi dei sentimenti amorosi e dal loro sviluppo, l’estremo opposto è quello del decidere di formare una coppia con qualcuno praticamente solo sulla base di un’ampia condivisione di progetti, programmi e valori senza dare significativamente spazio in questa decisione alla parte irrazionale della propria personalità. Man mano che col tempo emergono gli effetti dei nostri comportamenti, entrambi questi estremi nelle loro versioni peggiori possono risultare quanto mai deludenti, pesantemente controproducenti e/o addirittura distruttivi, ma entrambi nelle loro versioni migliori possono anche risultare – sia pure, pressoché inevitabilmente, con una certa difficoltà – accettabili, considerevolmente soddisfacenti, esistenzialmente portatori di esperienze evolutive e persino capaci di evolvere essi stessi verso qualcosa di più completo e profondo. Come in tante altre cose, un efficace senso intuitivo e una sensibile comunicatività possono rivelarsi aspetti cruciali per far emergere le potenzialità costruttive che possono essere presenti in queste situazioni, mentre il motore principale di un’eventuale evoluzione delle situazioni stesse che sia capace di essere positiva e creativamente trasformativa appare essere il passare – al proprio interno – da quell’intensa separazione tra lato corporeo e lato psichico a una crescente capacità di dialogo, di collaborazione e di osmosi tra questi due lati, capacità che se condivisa dal partner può così espandersi progressivamente anche al rapporto tra le due persone, ricollegandosi in tal modo anche alle succitate considerazioni di M. Scott Peck e di Thomas Merton e ai relativi commenti di Bell Hooks [280]. A margine di tutto questo, si può aggiungere che ancor più estreme, ancor più tendenzialmente conflittuali e ancor più aspramente dualiste possono essere considerate posizioni in cui si arriva, in pratica, a negare in maniera duratura la vita sentimentale accettando sostanzialmente nelle relazioni interpersonali di tipo ravvicinato o soltanto l’aspetto sessuale o soltanto l’aspetto spirituale, sulla base rispettivamente di un’istintività esasperata o di convinzioni religiose esasperatamente spiritualiste.
Peraltro, vi sono anche non poche persone che di fatto rinunciano stabilmente alla sfera sentimentale e sessuale non tanto per delle convinzioni religiose di quel tipo (anche se la diffusione di tali convinzioni nella società può certamente facilitare in maniera indiretta queste rinunce), quanto a seguito di ferite dolorose, pesanti delusioni e/o gravi paure legate a ciò che hanno vissuto in passato nei propri rapporti interpersonali o che hanno avuto intorno nel proprio ambiente sociale, oppure a seguito di un accumulo di incombenze e di problematiche che il vivere quella sfera ha finito col portare nella loro esistenza provocando a questo proposito una sorta di affaticamento complessivo e di stanchezza, oppure ancora a seguito delle grosse complicazioni che tale sfera può innescare in certe società in cui la dimensione famigliare è strutturata rigidamente e gerarchicamente: benché non si possa negare che anche in questi casi si tratta di modi di porsi sostanzialmente dualisti, va comunque sottolineato che questi specifici modi di porsi nascono più da un’evidente esigenza di difendersi da certe situazioni spiacevoli o faticose che da una scelta definibile in qualche modo come libera.... Anche in questo tipo di difficili circostanze, comunque, rimane vero il complesso discorso effettuato da Erich Fromm in un seminario di psicoanalisi (seminario poi riportato in parte nel suo libro postumo L’arte di ascoltare, Mondadori, 1995) e incentrato sul fatto che l’obiettivo operativo essenziale della psicoanalisi è che una persona scopra «le alternative reali» alle situazioni insoddisfacenti in cui la persona stessa si trova. Vale la pena di sottolineare che – nella concezione di Fromm e di altri suoi colleghi andati alquanto oltre le prime idee che avevano dato origine al movimento psicoanalitico nell’Europa di fine ’800 e inizio ’900 (cioè le idee espresse da Sigmund Freud analizzando in pratica la civiltà mitteleuropea di quegli anni) [281] – «la psicoanalisi non è solo una terapia, ma anche uno strumento per comprendere se stessi, ossia uno strumento di autoliberazione» e «un ausilio nell’arte di vivere». In questo, «il suo vero significato storico va nella direzione di quella conoscenza di sé che ricorre anche nel pensiero buddhista» e che «mira a raggiungere un più alto stadio dell’essere», così come si tratta essenzialmente anche di «un’istanza [...] fatta propria già dal Vangelo: “La verità vi farà liberi”» (Giovanni 8,32). In termini più generali, è anche un ricollegarsi con gli intenti originari delle molte correnti di pensiero – e dei molti movimenti ad esse collegati – che impegnandosi sul piano filosofico-spirituale e/o su quello politico-sociale «hanno cercato di dare delle indicazioni su come l’essere umano può cambiare in meglio, vivere meglio, in modo più elevato, più sano, più gioioso, più intenso». In altre parole, anche quando le pressioni dell’ambiente sociale circostante e le difficoltà ci appesantiscono, ci affaticano e ci limitano, prima o poi col tempo possiamo di solito trovare qualche voce interiore espressione del nostro profondo, qualche stimolo culturale e/o qualche corrente di pensiero passata o presente che ci aiutino a (ri)trovare maggiormente la libertà perduta e ad uscire almeno interiormente dai limiti che le varie forme di dualismo ci pongono. Va posto in rilievo che, benché per motivi di opportunità discorsiva questa visione liberatoria sia stata messa in evidenza qui parlando specificamente della forma di dualismo sviluppatasi tra corpo e mente, è una visione positiva e vitale che riguarda qualsiasi forma di dualismo e che quindi è applicabile alle difficoltà esistenziali che possiamo incontrare come effetti di una qualsiasi di tali forme [282].
In ambienti sociali inclini ad un rigido moralismo, alla stigmatizzazione della sessualità non sancita dal vincolo matrimoniale e/o addirittura ad una latente sessuofobia di fondo, vi sono dei meccanismi reattivi che appaiono tipici del periodo adolescenziale e che, col tempo, possono divenire abitudinari anche in periodi successivi della vita delle persone. Tra tali meccanismi spicca il fatto che adolescenti educati sistematicamente secondo quelle linee di principio e però marcatamente sensibili dentro di sé alle pulsioni sessuali o più semplicemente al flirtare e ad attività spesso associabili ad esso, come ad esempio le festicciole in gruppo e i “balli di coppia”, sentano una forte spinta a smorzare l’influsso che quel tipo di educazione ha sulla loro sfera mentale e a questo scopo – di fronte alla fatica e all’arduo e complicato impegno che sarebbero necessari per una completa ridiscussione culturale di tale educazione e per un pieno superamento interiore di quest’ultima – preferiscano più semplicemente frequentare persone che hanno rifiutato nella propria esistenza concreta quelle linee di principio e che, contando generalmente su una spiccata convinzione in se stessi, sono pronte ad attrarre altri in questo rifiuto attraverso soprattutto una “capacità d’iniziativa” generatrice di circostanze stimolanti ed appassionanti e di intense emozioni e aperta a tali pulsioni e attività. In altre parole, il modo che questi adolescenti utilizzano per contestare le linee di principio in questione non è una prolungata e impegnativa ricerca culturale che esamini tali linee da ogni direzione così da essere poi finalmente in grado di criticarle a 360 gradi e di metterle da parte perché rivelatesi chiaramente insoddisfacenti, ma una strada molto più rapida, sbrigativa, intuitiva e pratica: spegnere il più possibile il proprio pensiero influenzato da esse e riempire il proprio sentire con quelle concrete circostanze stimolanti e quelle emozioni, che non solo non sono in contrasto con le spinte in questione vissute internamente dal soggetto e con la evidentemente parallela esigenza di un approccio culturale complessivo che intenda la personalità umana in un modo molto meno moralista e rigido e molto più vitale e libero, ma anzi danno spazio e concreto sostegno sia a tali spinte che a tale esigenza. Da qui per esempio – dal momento che in moltissime società patriarcali l’educazione delle ragazze è stata comunemente molto più repressiva, rigida e limitante e molto meno permissiva di quella rivolta ai ragazzi – il contesto di una canzone novecentesca quanto mai emblematica come She’s leaving home, dei Beatles (incisa nel loro album Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, del 1967, e scritta da Paul McCartney e John Lennon), o, più in generale, l’attrazione che in tali società molte ragazze hanno provato nel corso della storia per quelli che i loro educatori devoti al moralismo (così come, del resto, numerosi degli esponenti istituzionali di spicco delle società in questione) avrebbero sicuramente definito “cattivi ragazzi”....
Se questo meccanismo reattivo appare molto comprensibile – e per molti versi spesso piuttosto efficace – in periodi come l’adolescenza e in una certa misura anche la giovinezza, il mero e semplice prolungamento di tale meccanismo pure in periodi successivi rischia però di lasciare in una notevole superficialità esistenziale le persone in esso coinvolte, soprattutto perché in questo modo rimane tendenzialmente irrisolta la frattura tra corporeità e vita intellettuale, in quanto in fondo le dinamiche culturali in gioco non fanno che passare da un estremo (moralistico, intellettualistico e generalmente serioso) all’altro estremo (incentrato sulla fisicità, sull’istintualità, sul divertimento, ecc.). In altre parole, col tempo si dovrebbe saper meglio riempire quella strada rapida, sbrigativa, intuitiva e pratica aggiungendo anche un’ampia ricerca culturale che consenta di ritrovare una consistente armonia tra fioritura del senso fisico e fioritura dello sviluppo interiore. Certo, questo potrebbe significare di nuovo un allontanamento dall’ambiente sociale al quale si sta facendo principalmente riferimento, in quanto è tipico che, col passare degli anni, numerosi di quei “cattivi ragazzi” non abbiano alcuna intenzione di rinunciare allo strabordante accento da essi posto su fisicità, istintualità e divertimento e quindi non provino interesse per una tale ricerca culturale, ma non sempre la crescita interiore e i suoi effetti esistenziali sono qualcosa di facile e comodo (anzi, nelle società patriarcali è spesso il contrario...).
Un altro meccanismo reattivo che è piuttosto frequente nell’età adolescenziale o giovanile, e che a sua volta è collegato in special modo alla dipendenza relazionale, è il fatto che qualcuno che sia incline a tale dipendenza – e quindi incline anche a provare un forte attaccamento per un’eventuale persona che nel momento corrente quel medesimo qualcuno dovesse sentire come legata a sé, cioè in pratica un “ragazzo (o ragazza) fisso”, un moroso (o morosa), un partner, ecc. – nel caso in cui si ritrovasse a vivere in modo molto doloroso ed esplosivo qualche delusione amorosa (una condizione che nella lingua inglese viene spesso definita come “avere il cuore spezzato”) potrebbe in seguito cercare di mettere in piedi un “rapporto di coppia” solo con qualche persona avente sia una certa fragilità esistenziale sia analogamente un’inclinazione alla dipendenza relazionale, così da formare con questa persona una co-dipendenza: come tale, una co-dipendenza infatti risulta in linea di massima molto meno esposta al rischio di una nuova bruciante delusione amorosa rispetto alle situazioni in cui una persona si sente dipendente relazionalmente da un’altra che invece è molto più fiduciosa in se stessa, più convinta delle proprie forze e delle proprie capacità, magari persino spavalda e un po’ presuntuosa e tendente all’egocentrismo.... Anche questo meccanismo, che inizialmente non è altro che una forma di difesa da certi dolorosi squilibri relazionali, se non passa poi attraverso un processo di maturazione e di ridiscussione nel quale il soggetto in questione recuperi una maggiore fiducia in se stesso e riesca ad uscire dall’inclinazione alla dipendenza relazionale rischia di prolungare – anche persino all’infinito... – la scarsa autostima del soggetto e la sua tendenza a tale dipendenza.
A queste piuttosto sintetiche considerazioni sulla sfera sociale, su quella relazionale e su quella interiore, vale la pena di aggiungere che la tendenza ad una separazione conflittuale tra lato fisico-materiale e lato psichico-spirituale ha storicamente visto in origine un soffocamento di quest’ultimo ad opera del primo dei due (con il “dualismo materialista” mostrato in maniera quanto mai evidente dagli antichi popoli guerrieri, conquistatori e maschilisti che intorno ai 5.000 anni fa iniziarono a soppiantare precedenti popolazioni pacifiche, notevolmente solidali e sostanzialmente prive di sessismo, come hanno scoperto specialmente nell’ultima settantina d’anni discipline specifiche come l’archeologia e la paleogenetica), mentre in seguito è comparso anche – in una reazione contrapposta e per lo più speculare che iniziò a prender piede circa 2.500 anni fa specialmente in ambiti intellettuali e/o tendenti a forme culturali di tipo fortemente religioso – un soffocamento del primo di quei due lati ad opera del secondo (con il “dualismo spiritualista” espresso da correnti di pensiero come principalmente il monachesimo ascetico, i rami del buddhismo hinayana più rivolti al “ritirarsi dal mondo” e ad una vita strettamente contemplativa, lo stoicismo, diverse correnti del neoplatonismo, la letteratura apocalittica ebraica, lo gnosticismo e, a partire specialmente dal 3-4° secolo, anche un’ampia parte del cristianesimo) [283].
In quarto luogo, vi è la tendenza ad impostare un rapporto spigoloso, ruvido e gerarchico tra l’occuparsi di sé e l’occuparsi di altri, di modo che si tende a cadere o in un egocentrismo spesso anche egoistico, in cui l’interessamento per sé domina su quello per gli altri, o in un altruismo insistente, alla fin fine consumante e per certi versi onnipervasivo, in cui si antepongono altri a se stessi. L’atteggiamento egocentrico vissuto in una maniera generalizzata, facilmente egoistica e spesso strabordante è di solito una caratteristica dei gruppi sociali dominanti, che incoraggiano invece nei gruppi sociali subordinati o un egocentrismo fortemente limitato dalla “realistica” consapevolezza di occupare una posizione sociale subalterna – caratterizzata da possibilità e orizzonti molto più ristretti di quelli delle classi privilegiate – o per l’appunto un atteggiamento prevalentemente altruistico. Quest’ultimo, a sua volta, può prodursi non solo come effetto sostanzialmente forzoso di tali persuasive forme di condizionamento ispirate a indurre – nelle classi popolari e/o nelle persone appartenenti al genere definito furbescamente come “sesso debole” dalla cultura dominante – una passiva, tranquilla e soprattutto servizievole accettazione del proprio ruolo subalterno (incentrato sull’operare direttamente o indirettamente secondo le esigenze e le richieste di altri che vengono considerati “più importanti”), ma anche in alcuni altri modi: in particolare, come una forma di amore verso famigliari ed eventualmente amici da parte di persone che faticano – per un accumulo di esperienze esistenziali nel complesso poco incoraggianti, oppure per educazione (in quanto appartenenti per esempio a tale “sesso debole” e/o alle classi popolari) – ad amare se stesse con interezza e pienezza e quindi trovano che amare altri risulti più fattibile, “facile” ed accettabile che amare se stesse; oppure, come una sorta di “sfogo religioso” in cui vengono incanalate – e trovano una certa espressione – la spiccata sensibilità umana e la marcata sollecitudine per altri che sono vissute intensamente da persone particolarmente intrise di queste doti personali che stanno tra l’empatico, l’intuitivo, lo spirituale e il senso pratico (e che in molte società classiste sono alquanto scoraggiate e combattute dalla cultura dominante se non come valenze religiose sostanzialmente prive di un impatto consistente sulla sfera politica) [284]. Storicamente, nelle società patriarcali è avvenuto generalmente che gli uomini venissero educati ad accentuare l’attenzione per se stessi, mentre le donne – il famoso “sesso debole”, che in realtà di solito è più debole della “metà maschile del cielo” solo nel senso dell’apparato muscolare, ma non da mille altri punti di vista, incluso il fatto che le donne comunemente sono più longeve e sono anche in grado di condurre esperienze fisicamente alquanto impegnative come gravidanze e allattamenti [285] – venissero educate appunto ad accentuare l’attenzione per altri: specialmente per il marito, i figli e i genitori, ed eventualmente anche per ulteriori parenti e per altre persone bisognose di cura e di assistenza. Un effetto combinato di queste situazioni è, in pratica, che in tali società gli uomini delle classi popolari vengono incoraggiati dalla cultura dominante a sentirsi su un piedistallo rispetto alle donne delle loro stesse classi ma nel contempo in posizione subalterna rispetto agli uomini e alle donne delle classi privilegiate, nelle quali analogamente gli uomini sono incoraggiati a sentirsi “più privilegiati” delle donne del medesimo livello sociale....
Una delle migliori espressioni sia dell’assurdità di fondo insita in questa forma di dualismo, sia indirettamente degli effetti limitanti che tale forma ha sulla personalità umana, la possiamo trovare in Amore, di Leo Buscaglia (Mondadori, 1985): «Soltanto noi possiamo essere noi. Se ci sforziamo di essere uguali a un altro [...] potremo riuscire a somigliargli [...], ma saremo sempre “il numero due”. L’uomo è in grado, per contro, di essere “il miglior se stesso”. È il meglio che ci è dato essere, la cosa più logica, più concreta, più gratificante».... «Amare noi stessi significa scoprire i prodigi racchiusi in noi; e non soltanto le meraviglie del nostro io contingente e immediato, ma anche quelle che interessano le molteplici possibilità intimamente connesse alla nostra personalità esclusiva quanto irripetibile. Significa renderci conto della nostra unicità; significa comprendere che siamo diversi da ogni altro al mondo, e che la vita s’identifica – o dovrebbe identificarsi – con la scoperta, la valorizzazione, la compartecipazione di tale unicità».... «Se impariamo a conoscere, ad accettare, ad apprezzare la nostra unicità, automaticamente consentiamo ad altri di agire in questa stessa direzione. Se attribuiamo il giusto valore alla scoperta di noi stessi, incoraggiamo i nostri simili ad attuare la medesima autoindagine. [...] E, se ciascuno di noi riesce ad essere il “miglior se stesso”, parimenti è tenuto ad ammettere che ogni singolo componente della nostra cultura giunga a una conclusione equivalente. [...] Ama te stesso, e amerai gli altri. E, quanto più ampio e profondo sarà l’amore che porterai alla tua persona, tanto più esteso e perspicace sarà quello che proverai per il prossimo».
In questo appare esserci uno degli aspetti-chiave della naturale autostima umana: ognuno ha in sé un intrinseco e profondo valore per il fatto stesso di esistere come essere senziente e di essere diverso dagli altri. Proprio l’essere per natura relativamente diversi gli uni dagli altri (una caratteristica che per molti versi viene rimproverata – e sostanzialmente rifiutata – dai tanti tipi di culture conformistiche che hanno preso piede nelle varie parti del mondo nel corso della storia) è una delle naturali chiavi di volta dell’esistenza umana e dell’intima saggezza rintracciabile in essa.... Nell’umanità si tratta di una caratteristica talmente strutturale e fondamentale che la si trova persino tra i gemelli monozigoti, i quali – pur avendo il medesimo codice genetico e pur essendo cresciuti pienamente assieme durante tutta la loro fase fetale (e pur essendo spesso trattati sostanzialmente nello stesso modo durante i loro primissimi anni di vita) – sin dall’infanzia mostrano comunque di sviluppare tra loro delle differenze di carattere, di inclinazione esistenziale, ecc.. A sua volta, la percezione dell’avere in se stessi quel valore porta essenzialmente con sé il senso del non avere alcun bisogno di durature dipendenze emotive, psicologiche o fisiche (che anzi, in una tale cornice interiore, non possono che essere percepite come vuote di significato e alla fin fine controproducenti...).
A ciò si può aggiungere che nell’ambito umano il processo complesso di crescita al quale si è fatto riferimento nella sezione iniziale di questo paragrafo può incontrare, nel suo svolgersi, due difficoltà principali, opposte l’una all’altra. Da un lato, vi è il tendere a rimanere emotivamente dipendenti da qualcun altro (solitamente per scarsità di fiducia e convinzione in se stessi, di autostima, come quando si viene cresciuti da qualcuno che insistentemente sminuisce e sottovaluta le nostre capacità fino al punto di persuaderci di “valere poco” e di “non essere capaci di cavarcela con i nostri mezzi” per lo meno in certi campi fondamentali del vivere, finendo così col farci interiorizzare un tale convincimento) o a sostituire tale dipendenza emotiva con una dipendenza fisica e/o psicologica da qualche sostanza o situazione che in qualche modo ci dà una sensazione di forza, di fiducia, di convinzione, di entusiasmo, di carica emotiva, o comunque di distacco dalle tensioni interne più opprimenti. La tendenza alla dipendenza può anche rimanere latente, nella forma di semplice predisposizione, fintantoché non si verifichi qualche fattore – collegato di solito a eventi apportatori di marcate insicurezze o a situazioni particolarmente stressanti – che possa innescare il passaggio dalla fase di latenza a una fase di effettiva esistenza. In particolare, uno dei tipici effetti collegati specificamente alla tendenza – o anche solo alla predisposizione – alla dipendenza emotiva è l’assorbire con eccessiva acriticità e facilità le idee di altri (del presente o del passato) per i quali si provino stima, ammirazione, gratitudine, affetto, ecc.; si tratta, in pratica, di un’inclinazione a mettere queste persone su una sorta di piedistallo o addirittura, in un modo o nell’altro, a mitizzarle più o meno intensamente.... Dall’altro lato, vi è il tendere all’autoritarismo, a voler comandare, a mettersi al di sopra degli altri, in un’estremizzazione del naturale passaggio dalla dipendenza infantile all’autonomia adulta, passaggio che in tal modo viene portato ben oltre la sua naturalità e trasformato in un abnorme e deforme tentativo di conquistare una superiorità sugli altri. Uno dei meccanismi che può favorire l’instaurarsi di questa tendenza in qualcuno è indubbiamente il fatto che siamo tutti diversi e che ci sono persone che possono avere capacità nettamente al di sopra della media in qualche campo specifico, ma una cosa è sentire la naturale esigenza di trovare modi per esprimere e “mettere a frutto” tali particolari capacità e tutt’altra cosa è pretendere di trasformare una tale situazione personale in una stabile, fissa, innaturale e forzosa – oltre che quanto mai artificiosa e fasulla – posizione generale di superiorità rispetto agli altri....
In realtà, qualsiasi pretesa di stabilire tra esseri diversi classifiche gerarchiche che siano generali e totalizzanti è semplicemente un assurdo, perché si basa sullo scambiare – e confondere – una cosa per l’altra: più specificamente, sullo scambiare qualche specifico e particolare campo in cui è possibile concepire qualche forma di classifica (come accade per esempio nello sport, nei quiz che si fanno comunemente per ottenere la patente, nei test attitudinali che si possono collegare tendenzialmente alle varie professioni, nei dati sulla produzione economica lorda che si registra nelle varie aziende, e via dicendo) con l’insieme complessivo che – per ciascun singolo essere – raccoglie in sé la personalità di tale essere, le sue varie capacità e le sue ancor più varie potenzialità, un insieme che tra l’altro include manifestamente ed ineludibilmente degli aspetti irrazionali, non misurabili, non completamente noti a un qualsiasi presunto analista e alla fin fine nemmeno conoscibili interamente.... Oltre tutto, al fatto che qualcuno sappia fare qualcosa meglio di qualcun altro in un particolare campo corrisponde generalmente il fatto speculare che quel qualcun altro sappia fare qualcosa meglio di quel qualcuno in un altro campo.... La tendenza a mettersi pienamente al di sopra degli altri non può quindi essere vista come qualcosa di congruamente giustificabile, di potenzialmente oggettivo, di effettivamente razionale: banalmente, sarà invece dal punto di vista concettuale una semplificazione riduttiva ed egocentrica e, soprattutto, dal punto di vista interpersonale una questione di tentata violenza psicologica (cercare di inculcare manipolativamente in altri idee incongrue non è altro che questo, alla fin fine) o addirittura di qualche forma di violenza fisica (dal momento che lo scontrarsi fisicamente è usato piuttosto spesso come metro essenziale in queste classificazioni) [286]....
Il fatto che strutturalmente non ci sia alcun conflitto tra l’amare se stessi e l’amare gli altri è stato messo in evidenza con particolare lucidità e chiarezza nello yoga indo-tibetano, nel quale – come si è già visto riguardo alla sua branca che potrebbe essere chiamata “antropologia dei chakra” – si considera l’essere umano come dotato naturalmente sia di aspetti strutturali incentrati su se stesso sia di aspetti altrettanto strutturali incentrati sull’apertura agli altri e al mondo in genere: in tal modo, se una persona coglie sufficientemente i propri vari aspetti strutturali – e ovviamente naturali – coglie anche il fatto che amare veramente se stessi implica amare anche gli altri e il mondo in genere, così come amare veramente gli altri e il mondo implica anche amare se stessi (in quanto, in un certo senso, noi portiamo dentro di noi gli altri e il mondo, mentre gli altri e il mondo portano dentro di sé anche noi stessi...). In maniera estremamente simile, nella filosofia yin-yang dell’Estremo Oriente – che è poi confluita in gran parte anche nel taoismo (nato in Cina verso la metà del 1° millennio a.C. fondamentalmente come evoluzione proprio di tale filosofia) e nello Zen (nato invece nella seconda metà del 1° millennio d.C. principalmente come evoluzione cinese del buddhismo mahayana proveniente dall’India) – si considerano tutti gli esseri e le cose esistenti come formatisi a partire da energie spiraliche, una forma strutturalmente aperta che fa sì che essi abbiano tutti una sottile connessione gli uni con gli altri (come tra l’altro nel mondo moderno hanno concluso scienze quali in particolar modo la fisica quantistica e lo studio degli ecosistemi e come più in generale ha riconosciuto parallelamente il pensiero olistico). Tutto questo è anche in profonda sintonia sia col pensiero marx-engelsiano (come emerge in modo particolare dalla precedente citazione di Marx tratta dai Manoscritti economico-filosofici del 1844 e dal fatto che in Dialettica della natura Engels proponesse la definizione della «dialettica come scienza della universale interdipendenza e interconnessione»), sia col pensiero femminista (come emerge chiaramente da un’ampia serie di opere, diverse delle quali già ricordate in precedenza), sia con le forme umanistiche di psicologia e psicoanalisi [287].
È da notare che anche l’antica cultura ebraica, malgrado la sua tendenza nettamente patriarcale, proponeva con forza – per lo meno nell’ambito specifico della popolazione che si riconosceva in tale cultura – l’orientamento che non vede conflitti tra l’amore per sé e l’amore per gli altri: nella Torah (che della Bibbia ebraica è considerata tradizionalmente la parte più fondante ed essenziale) è contenuto infatti l’invito – o forse si dovrebbe dire addirittura la “prescrizione” – ad “amare il prossimo tuo come te stesso” (come si trova in Levitico 19,18). E, se in quel caso si trattava di un invito riguardante chiaramente i rapporti interpersonali interni a tale popolazione (che a quell’epoca si distingueva nella regione mediorientale per non avere una religione di tipo idolatrico, basata cioè in sostanza su palesi finzioni proiettive che separavano un mondo umano visto in maniera estremamente materiale ed un mondo di mitici dèi immaginati con poteri sovrumani e però con personalità simili a quelle tipicamente umane, tra ambizioni personali, egocentrismi, reciproci inganni, feroci conflitti, ecc.), secoli dopo nei Vangeli l’invito in questione verrà richiamato esplicitamente ed espanso invece all’intera umanità (come si trova in special modo in Marco 12,28-31 e 16,15, Luca 10,25-37, Matteo 5,43-48 e Giovanni 15,17 e 17,20-21). A questo proposito, non si dimentichi che la Bibbia ebraica e i Vangeli, oltre ad essere giunti a costituire il principale testo-base rispettivamente dell’ebraismo e del cristianesimo, sono anche riconosciuti come scritti fondamentali dal Corano, che è a sua volta il principale testo-base dell’Islam [288]. Anche in altre antiche forme di pensiero religioso o scuole di saggezza non si vedeva alcun conflitto tra l’attenzione per sé e quella per gli altri, come emerge ad esempio dallo zoroastrismo dell’Asia centrale, dalle tradizioni degli aborigeni australiani, dalle tradizioni africane raccolte in un volume come Origini - 365 pensieri di saggi dell’Africa, a cura di Danielle e Olivier Föllmi (L’Ippocampo, 2006) e dalle narrazioni mitiche dei nativi americani riportate – in inglese – nell’altro volume Book of the Hopi, a cura di Frank Waters (Viking Press, 1963), o relative a figure come Quetzalcóatl e Viracocha.
Queste varie sintonie non devono stupire troppo, dal momento che la filosofia yin-yang, lo zoroastrismo, il taoismo, lo yoga, lo Zen, il pensiero marx-engelsiano, la fisica quantistica, la scienza degli ecosistemi, molti rami del pensiero femminista, il pensiero olistico, ecc. sono tutti intimamente collegati dal fatto di essere giunti tutti, per una via o per l’altra, alla filosofia dialettica [289]. Pure nei Vangeli lo spirito dialettico e paradossale che sfugge radicalmente ai discorsi dualisti ha uno spazio non solo consistente ma anche quanto mai evidente, benché pochissimi sembrino essersene accorti in Occidente (dove, tra il tramonto della Grecia classica verso la fine del 1° millennio a.C. e l’inizio della riflessione critica marx-engelsiana verso la metà dell’Ottocento, la filosofia dialettica non è stata impiegata in modo pienamente consapevole probabilmente da nessuno, anche se alcuni autori medioevali e diversi autori di epoca rinascimentale o illuministica appaiono averla utilizzata in una maniera più che altro intuitiva, oppure idealistica), in quanto il lato filosofico del testo evangelico è stato persistentemente soffocato e oscurato in Occidente da diversi fattori: originariamente, dalla comprensibile esigenza degli apostoli e dei loro collaboratori di incentrare la loro iniziale predicazione sui temi più cruciali, più evidenti e più “nuovi” – oltre che concettualmente non troppo complicati – che erano collegati alla vita di Gesù Cristo; subito dopo, dalle prolungate persecuzioni inflitte ai cristiani in vari periodi dai rappresentanti dell’impero romano (persecuzioni che hanno spinto i cristiani stessi a limitare, essenzializzare e semplificare la loro predicazione e le loro altre attività di gruppo); infine, dallo spirito dogmatico e pervicacemente normativo che per l’appunto è divenuto dominante nella cristianità dal 3°-4° secolo in poi, e tanto più per il fatto che nel contempo il cristianesimo è cominciato a diventare anche la “religione di Stato” prima nell’impero romano e poi in molte nazioni della storia soprattutto europea.... Diversamente, in diverse correnti orientali di pensiero aventi un forte spirito dialettico e un accento autenticamente mistico è stata notata più volte la profonda vicinanza di tali correnti con quanto i Vangeli hanno tramandato degli atti e detti di Gesù Cristo [290]. E per quanto riguarda la Bibbia ebraica – la quale contiene in sé scritti di varia origine dai contenuti estremamente variegati, che per di più sono non di rado in contraddizione tra uno scritto e l’altro e talvolta addirittura anche all’interno del medesimo scritto – non si può certo trovare in essa uno stabile approccio dialettico (anzi, la cultura patriarcale fortemente predominante in tutta la storia del popolo ebraico tende di per sé a contrapporsi brutalmente allo spirito dialettico); però non si può negare che certi scritti profetici (come specialmente il primo Isaia, Amos, Ezechiele e Malachia) o sapienziali (come il Cantico dei Cantici, Qohelet e per vari versi anche Giobbe) e certe parti della Torah rivelino sfumature in cui lo spirito dialettico – aperto alla sensibilità, all’affettività, all’etica, alla spiritualità e alla pienezza multidimensionale della personalità umana – ricompare con forza, critica la “logica del potere” spesso straripante nella storia ebraica e rivendica i lati naturali e creativi della vita umana che sono stati soffocati e sacrificati in nome di tale logica.
In quinto luogo, vi è la tendenza a non saper far convivere armonicamente tra loro i due evidenti aspetti della realtà e del sentire umano che possono essere definiti come “soggettività” e “tendenziale oggettività”. È una tematica che è collegata al rapporto evidentemente dialettico – già messo in evidenza – esistente tra l’ineludibile diversità che c’è tra tutti gli esseri umani (che quindi mostrano di avere ciascuno un proprio modo soggettivo di vedere) e il saper dialogare e comunicare gli uni con gli altri sino anche a sapersi vicendevolmente apprezzare ed amare (il che porta ciascuno al di là della sua specifica angolazione soggettiva, introducendolo in un reame percettivo e intellettivo in cui emerge inevitabilmente non solo che tutti hanno qualcosa in comune tra loro, ma anche che, più in particolare, tutti scoprono di avere una percezione del mondo che in molte sfaccettature può essere per tutti simile o addirittura praticamente identica). A questa tematica si associano caratteristiche culturali che possono avere un peso particolarmente grande nella vita sociale (in special modo in quella politica e – storicamente – anche in quella religiosa e in numerosi altri “usi e costumi” locali): in breve, chi tende a sminuire o persino negare il lato della soggettività finisce tipicamente col cadere nel dogmatismo (con cui in pratica qualcuno pretenderebbe di imporre a tutti dei concetti e delle idee da lui apprezzati per un motivo o per l’altro), mentre chi tende a sminuire o persino negare il lato della tendenziale oggettività finisce tipicamente col cadere nel relativismo (in cui, a dispetto dell’evidente condivisione umana di molti tipi di esperienze, si pretenderebbe di affermare in pratica che tutte le opinioni sono valide allo stesso modo perché appunto non esiste nulla di oggettivo, e tanto più in tutto ciò che è al di fuori dei ristretti e specifici campi di applicazione delle cosiddette “scienze fisiche”). Benché sia il dogmatismo che il relativismo risultino evidentemente qualcosa di assurdo, molti finiscono col cascarci dentro, e ciò per ignoranza, per interessi personali (poiché si tratta di “modi di ragionare” – o meglio, “modi di sragionare” – che spesso possono far comodo a tutela di tali interessi) e/o per aver assorbito acriticamente certi influssi culturali esterni. C’è anche chi a favore dei propri interessi personali sostiene pubblicamente l’uno o l’altro di questi due modi pur non credendoci davvero nel suo intimo....
Se dunque quando si è immersi nel dogmatismo si pretenderebbe di cancellare tutte le opinioni diverse dalla propria, d’altro canto immergendosi nel relativismo si finisce appunto col disconoscere il fatto che tutti condividiamo molte esperienze non solo in quei campi ma anche al di fuori di essi: benché la maggior parte dei sostenitori del relativismo abbia per lo meno l’accortezza di ammettere la tendenziale oggettività generalmente collegata a quelle scienze, per esempio alla fisica (come il fatto che se qui sulla Terra usando la forza delle braccia lanciamo un sasso per aria questo dopo un po’ cade verso il suolo, o che certi materiali particolari galleggiano se appoggiati su uno specchio d’acqua mentre altri vanno a fondo, ecc.) o alla fisiologia (come il fatto che tutti sanguiniamo se si taglia profondamente la nostra pelle, o che tutti per vivere abbiamo bisogno di aria contenente certe percentuali di ossigeno, e via dicendo), il tipico dogma relativista – fatto alquanto paradossale e ironico, giacché il relativismo dovrebbe per principio escludere i dogmi... – è il rifiuto di riconoscere che anche passando dal piano fisiologico a quello psicologico o sociologico si possono trovare delle caratteristiche in comune praticamente in tutti, anche se più complesse e sfaccettate e meno facili da definire in modo breve e secco. Questo tipo di disconoscimento porta alla tendenza a considerare valide anche delle idee che in effetti non potrebbero reggere ad un’accurata analisi e verifica, tendenza che a sua volta ha l’effetto di sospingere e favorire il prodursi di un’estrema confusione nella cultura umana: e di questa confusione beneficia tipicamente chi si trova già socialmente in una posizione di vantaggio dal punto di vista pratico. Infatti, finché si resta in una concezione culturale relativista, il confronto fra le idee non serve sostanzialmente a nulla (il che sminuisce radicalmente i possibile effetti del dibattito politico, dell’approfondimento filosofico, di un’eventuale riflessione di tipo teologico, ecc.) e quindi nella stratificazione della società vengono facilitati e promossi la staticità, il conservatorismo e soprattutto la tendenza secondo cui il potere effettivo non agisce affatto in base ad un’accurata ed esauriente discussione politica e alle sue risultanze, ma – operando dall’alto – in base soprattutto agli interessi specifici e alla volontà specifica di chi si trova correntemente al potere in quel momento e delle principali forze sociali (solitamente di tipo economico e/o militare) che lo sostengono [291]....
La concezione relativista è diretta dunque a negare l’esistenza stessa della scientificità (se non nell’ambito particolare delle “scienze fisiche”) e di concetti e valori universali, mentre al contrario l’atteggiamento dogmatico pretende di aver scoperto verità assolute e/o concetti e valori totalmente e universalmente indiscutibili. E, se socialmente il relativismo sottintende appunto il favorire le classi privilegiate già esistenti, il dogmatismo sottintende a sua volta il favorire la formazione – o la permanenza – di un’élite privilegiata contraddistinta dal corrispondere ai particolari dogmi in questione (oltre che evidentemente anche dal sostenerli e propagandarli). In altre parole, né il relativismo né il dogmatismo possono essere considerati minimamente sani e sensati, però in una maniera o nell’altra sono vantaggiosi per certe élite privilegiate che se ne servono a proprio favore cercando anche di instillare l’uno o l’altro – a seconda dei casi e delle circostanze – nella cultura delle classi popolari.... L’alternativa – sana e sensata – a questi due modi dualisti di vedere e di essere è comune a qualsiasi filosofia dialettica capace di dinamicità sul piano concreto e, più in generale, a qualsiasi modo di sentire che sappia riconoscere il valore che è intrinseco sia nella soggettività di ciascuno, sia nella possibilità di trarre dall’esperienza e dalla riflessione conclusioni che al momento si possono considerare “ampiamente valide in generale” (ma non per questo “assolute” e/o “totalmente indiscutibili”) nei vari campi dell’esistenza umana e della realtà in genere [292].
Queste svariate forme di dualismo (qui raggruppate indicativamente appunto in cinque tipologie principali), dunque, invece dello sviluppo di rapporti integrati, dialettici, creativi e caleidoscopici tra mondo maschile e mondo femminile, tra i vari gruppi di popolazione che si possono mettere tendenzialmente in evidenza nella società, tra dimensione corporea e dimensione interiore, tra il senso della propria individualità e il senso della relazione, tra percezione soggettiva e valutazione dotata di valenze relativamente oggettive [293]. E la questione è ancor più complessa e profonda, in quanto – benché non tutte le correnti di pensiero che hanno sviluppato un consistente spirito dialettico abbiano approfondito le sottili dinamiche interne alla realtà che si possono mettere in particolare evidenza attraverso la filosofia dialettica – correnti come specialmente la filosofia yin-yang che ha avuto origine anticamente in Estremo Oriente, l’ottocentesco “socialismo scientifico” marx-engelsiano e il novecentesco pensiero olistico hanno spesso sottolineato come proprio attraverso l’interazione tra i due estremi di una polarità naturale entrambi gli estremi si arricchiscono, si trasformano espandendosi e diventano maggiormente creativi e fecondi: in tal modo, come già si è accennato nella quarta parte del presente intervento (nella sezione “Implicazioni e approfondimenti” dell’ultimo paragrafo), «separare – nel pensiero e soprattutto nell’agire – i due poli di una tale polarità implica per ciascuno dei due poli stessi una menomazione e una vera e propria diminutio (cioè l’esser percepito e vissuto in una maniera nettamente riduttiva)», ma di questa implicazione estremamente limitante non ci si rende ampiamente conto finché si resta all’interno delle mentalità abituate al dualismo.
Tra l’altro – nell’ambito della capacità delle classi popolari di sviluppare da un lato forme di cultura alternativa rispetto a quella dominante e dall’altro movimenti indirizzati a dare espressione più concreta a tali forme – l’intuizione che l’essere umano nella sua completezza è pienamente uno e molteplice e che ciascuno è anche profondamente interconnesso con gli altri e con il resto della natura è stata uno dei numerosi frutti della controcultura del periodo intorno al ’68 [294]. Purtroppo, anche in questo caso non si è riusciti a passare da quell’intuizione alla sua attuazione nell’insieme della vita sociale e politica (che rimane tuttora diretta da un’élite profondamente insensibile, dualista e drammaticamente egocentrica che finora è riuscita a manipolare e gestire a proprio vantaggio il funzionamento delle pubbliche istituzioni di tipo democratico e che sta provocando distruzioni sempre più vaste sia nell’umanità stessa sia sul piano ambientale), con l’effetto che anche quell’intuizione stessa si è nettamente indebolita nell’ultima cinquantina d’anni – trasformandosi un po’ nel fantasma di se stessa... – anche se in parte sopravvive soprattutto nei movimenti ambientalisti e nel ricordo popolare delle riuscite lotte operaie, femministe e studentesche di quel periodo.
Comunemente, particolari atteggiamenti dualisti come le dipendenze e le proiezioni psicologiche si inseriscono in un quadro della personalità già caratterizzato più o meno fortemente da tendenze emblematiche come le cinque in questione, che sono appunto pressoché ubiquitarie nelle forme culturali predominanti nelle società patriarcali. A questo proposito si consideri anche che una persona che al proprio interno sappia mantenere in particolare un equilibrio dinamico, vitale, sensibile ed armonico tra corpo e mente, tra l’attenzione per sé e quella per gli altri, nel rapporto uomo/donna, in quello tra soggettività e tendenziale oggettività e nel partecipare con attenzione e vivacità alla vita sociale riesce più facilmente a trovare in sé l’energia e i modi per contrastare in maniera naturale ed efficace quel tipo di atteggiamenti. Nel contempo, lo strettissimo collegamento che c’è tra quelle tendenze e le società patriarcali mette in evidenza il rivoluzionario valore culturale di tale molteplice equilibrio dinamico, che ovviamente non basta a costruire concretamente una società alternativa e “liberata”, ma ne è chiaramente un aspetto fondamentale ed imprescindibile.
Estremamente significativo in questo appare il fatto che Audre Lorde – in Età, razza, classe e sesso: le donne ridefiniscono la differenza (un intervento da lei presentato nel 1980 ad un convegno accademico e poi pubblicato nella già citata raccolta Sorella Outsider) – abbia messo in evidenza come spesso i poteri verticistici e le culture da essi promosse tendano non soltanto a dividere fra loro i vari gruppi sociali sulla base di caratteristiche come il genere, il ceto, il colore della pelle, l’età, la religione, le preferenze sessuali, ecc., ma anche a dividere la personalità stessa di ciascuno tra i vari campi in cui si esprime la sua esistenza: campi come la vita affettiva, il lavoro, la situazione famigliare, gli interessi di tipo intellettuale, il ruolo sociale attribuito comunemente dalla società circostante al genere e al ceto di una persona, e via di seguito. Così – ha sottolineato la scrittrice afroamericana parlando della sua esperienza personale – pur essendo una donna «che si trova a suo agio con i molti diversi ingredienti della sua identità [...] mi ritrovo costantemente incoraggiata a scegliere questo o quell’aspetto di me stessa e presentarlo come l’intero significativo, mettendo in ombra o negando le altre parti di me. Ma questa frammentazione è un modo di vivere distruttivo. A me è possibile concentrare al massimo le mie energie solo quando integro tutte le parti di quello che sono, apertamente, permettendo al potere che scaturisce dalle singole fonti della mia vita di scorrere avanti e indietro liberamente attraverso tutti i miei diversi io, senza le restrizioni di una definizione imposta dall’esterno. Solo allora io posso mettere me stessa e le mie energie, intere, al servizio di quelle battaglie che abbraccio come parte del mio vivere». In altre parole, il concetto autoritario che i latini riassumevano nell’espressione divide et impera viene frequentemente espanso di fatto dalla sfera sociale e politica alla sfera interiore e psicologica (e ciò sempre comunque in supporto alle logiche classiste, sfruttatrici ed elitarie di quei poteri), di modo che controbattere a tale concetto e costruire alternative ad esso tanto in una sfera quanto nell’altra risulta essere appunto un passo tendenzialmente rivoluzionario quanto mai fondamentale e imprescindibile....
7. Interludio: l’intrinseca naturalità del pensiero dialettico
Nel suo libro già ricordato Marx e Freud - Oltre le catene dell’illusione (e anche in altre sue opere), Erich Fromm si è soffermato sulla «differenza fra la logica aristotelica e quella paradossale. La logica aristotelica è fondata sulla legge di identità, la quale afferma che A è A, sulla legge di contraddizione (A non è non-A) e sulla legge del terzo escluso (A non può essere A e non-A, né A o non-A)». Invece, per «quella che si potrebbe definire la logica paradossale, [...] A e non-A non si escludono a vicenda come predicati di X» (cioè di un ulteriore elemento). Parallelamente, Fromm osservava anche che un importante «componente del filtro che rende possibile la consapevolezza è la logica, la quale informa il nostro modo di pensare in una data cultura. [...] Nella misura in cui una persona vive in una cultura in cui non è messa in dubbio la correttezza della logica aristotelica, le riesce enormemente difficile, se non impossibile, diventare consapevole di esperienze che contraddicono la logica aristotelica, e che sono quindi insensate dal punto di vista della sua cultura». Mentre tale logica ha impregnato molto di sé il pensiero occidentale, «la logica paradossale era predominante nel pensiero cinese e indiano [295], nella filosofia di Eraclito e quindi, con il nome di dialettica, nel pensiero di Hegel e di Marx», oltre che – come lo stesso Fromm aveva aggiunto in L’arte d’amare (Il Saggiatore, 1963) – nel modo di porsi di alcuni «mistici», come ad esempio in Occidente Meister Eckart. In pratica, la “logica aristotelica” dà per scontato che vi sia una totale separazione tra un essere e l’altro, tra una cosa e l’altra, ecc., laddove la “logica paradossale” suggerisce a una persona di essere strutturalmente parte dell’umanità e della natura e di avere sottili connessioni dirette con tutto ciò che esiste.
Mentre Fromm si è mosso in un orizzonte collegato principalmente alla ricerca filosofica e psicoanalitica, più di recente si è intensamente occupato di dialettica anche Vito Mancuso, vicino a correnti di pensiero ispirate soprattutto alla religiosità e alla moderna scientificità emergente dall’imperscrutabile esperienza della fisica quantistica (con figure di riferimento come Pavel Florenskij, Simone Weil e Niels Bohr). Nel libro Il coraggio di essere liberi (Garzanti, 2016), Mancuso ha delineato alquanto efficacemente il senso intrinseco della filosofia dialettica, come metodologia che in pratica «non è legata pregiudizialmente a nulla se non al desiderio di procedere il più onestamente possibile, e quindi intende assumere ora un punto di vista ora un altro al fine di scorgere i diversi lati del problema e così non perdere nessun frammento della realtà. [...] Praticando il metodo dialettico, la mente sperimenta l’impossibilità di comprendere il reale nel senso radicale del termine, l’impossibilità cioè di prendere-con, di afferrare e quindi di immobilizzare la realtà della vita. La vita appare al contrario simile all’acqua: mobile, fluida, inafferrabile. [...] Così, coloro che amano la verità della vita più delle dottrine nella loro rassicurante staticità, e che non temono di ritrovarsi soli ma hanno il coraggio di essere liberi, capiscono che non devono limitarsi a un unico punto di vista ma praticare un pensiero mobile, tale da circondare l’oggetto da tutti i lati e ottenere conoscenza per contatto reale».... Uno degli effetti di questo orientamento – ha sottolineato Mancuso – è quella che si potrebbe chiamare «arte del dialogare, [...] che non è semplice conversazione né tanto meno chiacchiera, ma esposizione e richiesta di argomenti, e che perciò non teme di trasformarsi in confutazione quando gli argomenti dell’interlocutore appaiono deboli o inesistenti. Si tratta di un uso della parola che ha lo scopo non di passare il tempo ma di indagare il tempo, e con esso il senso del nostro passare al suo interno».
Nel corso del ’900 e oltre, considerazioni simili a queste di Fromm e Mancuso si possono trovare in particolar modo nel “principio dialogico” di Martin Buber, nella “psicoterapia della Gestalt” [296] e in altre correnti del pensiero olistico (con autori come per esempio Fritjof Capra e Lynn Margulis), così come nello Zen slegato dalla vita monastica che è stato proposto specialmente da Daisetz Teitaro Suzuki e Thich Nhat Hanh (riallacciatisi in questo alle origini stesse dello Zen, rintracciabili soprattutto nelle esperienze raccolte nel Sutra di Hui Neng, risalente all’8° secolo) oltre che da Masanobu Fukuoka attraverso la dimensione specifica dell’agricoltura e dell’ecosistema, in altre forme di misticismo (con protagonisti come ad esempio Sri Aurobindo, Paramahansa Yogananda e Krishnamurti, commentatori come in special modo Alan Watts e Cyndi Dale e artisti impegnati in esperienze correlate come per esempio Jacob Levi Moreno, Alejandro Jodorowsky e Pan Nalin) e nel movimento femminista, espressosi tipicamente in termini più organici e meno specialistici rispetto al mondo maschile [297]. In sintesi, come ha saggiamente constatato Alba Marcoli in Il bambino nascosto (Mondadori, 1993), dovremmo «abituarci [...] a reggere la tensione degli opposti dentro di noi, visto che questa dialettica sembra caratterizzare il vivere; nessuno di noi è mai soltanto questo o quello, noi siamo in genere un po’ questo, un po’ quello e un po’ qualcos’altro ancora»....
È tra l’altro un discorso che va oltre il piano strettamente umano, in quanto la scienza odierna stessa ci presenta un universo organizzato sostanzialmente sulla base di forze e tendenze naturali disposte in coppie di poli opposti e complementari, connessi vicendevolmente in maniera intrinseca e creativa: protone ed elettrone a livello atomico, onda e particella a livello subatomico, polo positivo e polo negativo a livello elettromagnetico, acido e alcalino nelle reazioni molecolari, vegetale ed animale nello svilupparsi degli ecosistemi, maschio e femmina come base della continuità di moltissime specie viventi, stelle e pianeti sul piano astrofisico, e così via (in modo analogo, tra l’altro, a come l’antica filosofia yin-yang – rimasta pressoché sconosciuta in Occidente sino al ’900 – presentava il mondo già tre millenni or sono).
Se la “logica aristotelica” ha predominato enormemente nella cultura occidentale degli ultimi 2.500 anni, ciò appare essere avvenuto grazie soprattutto al fatto che già nell’antichità questa logica si era rivelata molto efficace in aree “tecniche” come specialmente la matematica, la tecnologia, la fisica, l’astronomia e la chimica [298]. Cruciale a questo proposito appare quanto osservò Friedrich Engels nell’Antidühring (del 1878), in pieno accordo con Marx. Engels, chiamando in pratica rispettivamente “senso comune” e appunto “dialettica” quelle che Fromm chiamerà poi “logica aristotelica” e “logica paradossale”, mise a fuoco vari aspetti del rapporto che intercorre tra queste due modalità intellettive, sottolineando in particolare che il senso comune, pur funzionale in molti aspetti delle cosiddette scienze esatte e in campi del vivere particolarmente semplici, pratici e di portata limitata, mostra invece gravi limiti, unilaterali tendenze astratte e «contraddizioni insolubili» quando si cerca – o addirittura si pretende – di applicarlo a campi di notevole complessità come le indagini sulla società, sulla storia, sulle dinamiche della natura, sulla personalità umana stessa, ecc. (inclusi anche gli aspetti più sottili e sfaccettati che si possono trovare nelle scienze esatte) [299].
In sostanza, più ci si ferma alla superficie delle cose, dei singoli eventi e dell’essere umano stesso più può apparire valida ed efficace la “logica aristotelica”, che se presa in modo univoco porta a vedere il mondo in modo dualista, mentre più ci si immerge nel profondo delle cose, degli eventi e dell’essere umano più emerge quella che può essere chiamata “logica paradossale”, o in altre parole il senso dialettico, che va oltre i dualismi e che per lo meno per quanto riguarda la sfera dell’interiorità umana non ha bisogno di erudizione per essere percepito, ma è sostanzialmente accessibile a chiunque. Alla fin fine, la tendenza di fondo della “logica aristotelica” – quando la si applica alla complessità della vita, della società o della personalità umana – è l’eccesso di superficialità, il ricorso a modalità semplicistiche, la sbrigatività, il voler imporre autoritariamente come metro dell’intera realtà (o di una sua ampia parte) qualche particolare dettaglio di propria scelta: da ciò segue l’indirizzarsi verso schemi e modelli rigidi, che poi danno facilmente luogo a idee preconcette. In altri termini, nelle questioni ampiamente complesse questo approccio corrisponde ad una modalità autoritaria di porsi che può essere attuata, a seconda dei casi, da qualche parte di una persona nei confronti di altre sue parti e/o da qualcuno verso altre persone o altri esseri.
La “logica paradossale” non soffre di questi problemi, ma anche con essa si corrono dei pericoli: il maggiore è il fermarsi ai livelli di tale logica meno evoluti, cioè saper avvertire la complessità della realtà ma non sapersi districare in tale complessità e non saper trovare, quindi, soluzioni adeguate alle problematiche e alle difficoltà che si possono incontrare nel vivere. A questo proposito si dovrebbe ricordare, da un lato, che una buona “logica paradossale” deve saper inglobare la “logica aristotelica” nella sua capacità specifica di essere usata proficuamente come “senso comune” – quando cioè è di fatto portatrice di efficaci risposte a questioni relativamente semplici – e, dall’altro lato, che saper maneggiare la “logica paradossale” implica molto più che avvertire la complessità della realtà: implica voler (e poi saper di fatto) sia cogliere per lo meno le relazioni principali che hanno luogo tra gli aspetti di tale complessità dei quali ci si sta occupando, sia orientarsi tra di esse così da poter agire in maniera complessivamente congrua e positiva. I due strumenti principali che abbiamo per poter maneggiare effettivamente tale logica – e quindi per riuscire a mantenere vivo, vitale e concreto il nostro spirito dialettico – appaiono essere gli approfondimenti e l’intuizione: a noi saperci muovere tra gli uni e l’altra.
In ogni persona (o, se si preferisce, in ogni bambino), il “pensiero naturale” umano appare nascere sostanzialmente – appunto – nella forma del pensiero dialettico non evoluto, caratterizzato semplicemente dal fatto di non essere legato «pregiudizialmente a nulla se non al desiderio di procedere il più onestamente possibile» e, quindi, di «assumere ora un punto di vista ora un altro» (con le parole di Mancuso). Nella misura in cui questo approccio risulta efficace nella concretezza del vivere di ciascuno, lo si potrà portare progressivamente a livelli più evoluti (e anche più capaci di efficacia) [300]; ma, nella misura in cui ci si limita a cogliere la complessità senza riuscire a trovare soluzioni adatte alle difficoltà implicate naturalmente dal vivere stesso, molti tenderanno a rinunciare a questo approccio e a sostituirlo col “senso comune” e con la sua tendenza ad affrontare le cose in modo semplicistico, sbrigativo, dualista.
Ovviamente, questa sostituzione – che di fatto implica una rinuncia alla “ricerca attiva” di una genuina, fluida e aderente “visione d’insieme” della realtà e si accontenta di qualche risposta parziale – sarà facilitata se nell’ambiente sociale circostante anche altri hanno operato un’analoga sostituzione (e se, per di più, essi esercitano pressioni per diffondere il loro modo di pensare) e potrà risultare invece potenzialmente superflua e fuori luogo se tale ambiente ha sviluppato una corposa e diffusa capacità di approfondire e concretizzare l’approccio dialettico portandolo a buoni risultati pratici in vari campi del vivere.
In pratica, attraverso una tale sostituzione il “senso comune” tende a diventare anche un’espressione dell’egocentrismo che è latente nell’essere umano: “se non riesco a trovare soluzioni soddisfacenti per me e contemporaneamente per gli altri, farò almeno quello che è soddisfacente per me, anche se può risultare negativo per altri”.... E in tal modo anche l’egocentrismo umano passa dallo stato di latenza a quello di esistenza e poi di persistenza.
Non necessariamente questo passaggio implica comunque l’acquisizione di un vero e proprio egoismo di fondo, ma ne è un fattore predisponente: dopo un tale passaggio, nella sostanziale “separazione di fondo” che a quel punto il soggetto non può che tendere ad attribuire al rapporto in corso tra se stesso e il mondo circostante, chi ha una maggiore sensibilità umana, un maggior senso etico e un maggior senso della natura può attraverso queste caratteristiche mantenere – nell’insieme – dei “buoni rapporti” col mondo stesso, ma chi avverte di meno dentro di sé tali caratteristiche può scivolare progressivamente nell’egoismo, col suo sostanziale “fregarsene degli altri” e col suo immergersi pienamente nel “farsi i propri interessi”. Naturalmente, si potrebbe discutere se siano davvero di questo tipo gli effettivi interessi della persona in questione, in quanto l’egoismo spessissimo è oltremodo miope e povero di lungimiranza, ma ciò che conta di fatto nella vita concreta è se quella persona ritiene che lo siano....
In una sorta di considerazione conclusiva, si può aggiungere che le varie forme di dualismo che possono svilupparsi nella maniera di pensare e di reagire di una persona agiranno ovviamente in modi relativamente diversi l’una dall’altra, ma tutte in sostanza minano e ledono nella persona stessa l’integrità, la libertà interiore, la profondità, l’autonomia psicologica ed emotiva e la capacità di percepire ed amare altri nella loro personale interezza, contribuendo così anche a quell’alienazione che dopo Feuerbach e Marx è divenuta un tema imprescindibile nelle indagini su società e cultura. E tutto ciò in una maniera tanto più intensa quanto più sono profondi i conflitti interiori che entrano in gioco in tali forme.