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Hamas

di Alfredo Facchini*

In apertura, una premessa: sono marxista, ateo e libertario. Tra me e Hamas c’è dunque un divario ideologico incolmabile. Non spetta a me ripulirne la reputazione e, in ogni caso, non ne avrei né il titolo né l’intenzione. Ma poiché attorno a questo movimento circolano leggende e bufale di ogni sorta, ho provato a scavare.

L’idea che “Israele abbia finanziato Hamas” o addirittura che sia una creatura del Mossad circola anche tra noi sostenitori della causa palestinese. Spesso come slogan, raramente con prove.

La storia. In pillole. Hamas nasce nel fuoco dell’Intifada. Gaza, dicembre 1987. La rabbia esplode contro l’occupazione israeliana. Nelle moschee e nei vicoli si muovono uomini dei Fratelli Musulmani. Da anni gestiscono scuole, ospedali, associazioni di carità. Tra loro c’è lo sceicco Ahmed Yassin: figura carismatica, corpo fragile, volontà ferrea.

Decide che è tempo di passare all’azione. Così nasce Harakat al-Muqawama al-Islamiyya – Movimento di Resistenza Islamica. Hamas. Nel 1988 pubblicano la Carta: religione e politica fusi in un unico progetto. Obiettivo dichiarato: liberare la Palestina storica, distruggere Israele, fondare uno Stato islamico. Orientamento: sunnita.

All’inizio Hamas non è un esercito. È una rete: prediche, assistenza, disciplina morale. Ma l’Intifada trasforma tutto. I giovani scendono in strada. Le pietre diventano simbolo. Hamas cresce nel fango, nei campi profughi, nei comitati popolari. Nel 1992 nasce l’ala armata: le Brigate ʿIzz al-Dīn al-Qassām. La resistenza diventa organizzata, permanente.

Da allora Hamas è due cose insieme: un movimento sociale che dà pane e identità e una forza combattente che colpisce il nemico. Un potere nato dal basso, cresciuto sotto assedio.

2005. Israele si ritira dalla Striscia di Gaza. Non è pace: è un disimpegno calcolato. Le colonie vengono smantellate, l’esercito si ritira, ma il controllo resta: cieli, mare, confini, tutto sotto il pugno di ferro israeliano. Nel vuoto lasciato, Hamas avanza, forte della rete sociale costruita in anni di moschee, assistenza e disciplina. Sullo sfondo, il discredito dell’Autorità Palestinese, dominata da Fatah.

Gennaio 2006. Elezioni legislative. Contro ogni previsione, Hamas vince. Fatah non accetta. L’Occidente resta attonito. Israele taglia i fondi; gli Stati Uniti impongono sanzioni: «Non tratteremo con i terroristi», dicono. Scoppia la crisi. Nelle strade di Gaza si combatte tra palestinesi: fratelli contro fratelli. Fatah viene cacciata. È il 2007. Hamas prende il controllo interno della Striscia.

Da allora Gaza è sotto assedio: blocco via terra, mare e aria. Nessuna via d’uscita. Hamas governa in isolamento; accusata, bombardata, sopravvive. Israele controlla i confini; l’Egitto chiude i varchi. Due milioni e mezzo di persone intrappolate in una prigione a cielo aperto.

 

Finanziamenti

Per anni lo Stato israeliano ha consentito l’ingresso nella Striscia di Gaza, attraverso i suoi valichi, di ingenti fondi provenienti dal Qatar, destinati ufficialmente al pagamento degli stipendi pubblici e agli aiuti umanitari. Parte di quei fondi sono stati riallocati verso l’ala militare di Hamas.

La ragione è chiara: Tel Aviv sceglie di chiudere un occhio sui flussi di denaro provenienti dal Qatar perché considera utile un Hamas rafforzato, capace di indebolire l’Autorità Palestinese in Cisgiordania e di impedire la formazione di un fronte palestinese compatto, in grado di presentarsi unito al tavolo con Israele. Dividi et impera.

Tuttavia il denaro da solo non costruisce razzi, missili o droni: serve una catena di appoggi tecnici e logistici. Il cuore vero dell’arsenale di Hamas non è nella Striscia né nelle sue casse: è in Teheran. L’Iran finanzia da decenni Hamas con decine di milioni di dollari l’anno; secondo alcuni analisti, la cifra oscillerebbe tra 70 e 100 milioni di dollari annui, solo per il ramo politico-militare.

Il generale iraniano Saeed Izadi, fino alla sua presunta uccisione nel 2025, era indicato come responsabile della “Palestine Corps” della Forza Quds dell’IRGC, ramo dedicato al supporto logistico e armiero verso Hamas e la Jihad Islamica Palestinese. In altre parole: è l’Iran la colonna vertebrale della catena dell’armamento.

Il traffico d’armi non passa attraverso canali ufficiali: esplode nel mercato nero, nel contrabbando e nelle reti regionali. Molti convogli partivano da Khartoum, attraversavano il Sudan orientale, entravano in Egitto e poi tramite tunnel nel Sinai giungevano a Gaza. Le forze israeliane hanno colpito diversi convogli in Sudan nel corso degli anni. Broker regionali e hub logistici in Pakistan, Turchia, Libano e Iran sono snodi di approvvigionamento di componenti militari (propellenti, motori, circuiti, esplosivi). Hamas acquista parti, non armi finite, e compone i sistemi nella sua «war-economy» interna.

Produzione dentro Gaza: tunnel, laboratori sotterranei e officine clandestine producono razzi rudimentali, modificano droni commerciali e creano esplosivi da materie prime (fertilizzanti e nitrati) reperibili anche in economia civile.

Finanza parallela: fondi dall’Iran, riciclaggio, società fittizie, criptovalute, investimenti mascherati, Hamas gestisce un portafoglio globale e compie operazioni internazionali per occultare tracce. Il Tesoro USA ha sanzionato decine di facilitatori, società e operatori in Sudan, Turchia, Qatar e Algeria.

L’esito: nessuno Stato vende a Hamas «pacchetti chiavi in mano» sul mercato internazionale. Le armi sono assemblate a mosaico, pezzo per pezzo.

 

Ricapitoliamo

Primo: il «silenzio attivo» di Tel Aviv sugli afflussi di denaro dal Qatar nasceva dall’idea che un Hamas forte potesse fungere da «contrappeso» alla leadership dell’Autorità Palestinese in Cisgiordania, ostacolando la formazione di un fronte negoziale palestinese unitario di fronte a Israele.

Secondo: l’Iran ha costruito l’ossatura dell’arsenale, il vero «sponsor armato», il bancomat ideologico e tecnico. Il mercato nero e le officine sotterranee hanno fatto il resto: pezzi, componenti, propellenti e assemblaggi artigianali.

In conclusione: molte delle narrazioni diffuse sulla nascita e la crescita di Hamas sono, semplicemente, fake. Israele non ha creato Hamas, né lo ha finanziato direttamente. Ha però tollerato – e in parte favorito – le condizioni che ne hanno permesso il rafforzamento, per calcolo politico e convenienza strategica. Un nemico dichiarato torna utile: legittima politiche securitarie e misure liberticide.

L’idea di un “Hamas creatura del Mossad” è una semplificazione comoda, che cancella la complessità del quadro: la matrice originaria dei Fratelli Musulmani, l’esplosione della prima Intifada, il vuoto politico lasciato da Fatah, l’intervento iraniano, il denaro del Qatar.

La realtà è più dura e più nuda: Hamas non nasce da un complotto. È un prodotto della storia, dell’assedio, delle divisioni palestinesi e delle ipocrisie israeliane.


* da Facebook
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Comments

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Aniello Galasso
Monday, 20 October 2025 20:42
Mi scusi ma su hamas i fatti dicono altro .
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Alfred
Tuesday, 21 October 2025 11:40
Anche dicessero altro... dove sta il problema?
Forse nessun movimento di liberazione ( visto lo stato coloniale del mondo che si e' liberato giusto il secolo scorso, dall'Algeria al Congo alla Cina ecc ce ne sono parecchi esempi) e' duro e puro.
Si fanno doppi giochi, si prende da chi da e non sempre per i tuoi interessi o si ruba ecc. Di tutto quello che arriva si fanno armi, si fa sostentamento, si pagano spie e anche traffici ambigui.
E' una novita'? Perche' cercare il certificato di verginita' di hamas?
Vogliamo confrontare con l'Irgun?
Non ho niente da spartire con religione o hamas.
Hamas e' un movimento di liberazione creato da gente in un ghetto e bombardata, uccisa quotidianamente in palestina. La religione li unisce, li coalizza ecc? Probabile che la religione e i movimenti religiosi diventino la struttura e il collante. Li tiene insieme una ideologia come i viet? sara' l'ideologia a essere collante e propulsore. Sono situazioni eterne? A voi sembra che oggi il Vietnam sia lo stesso della lotta di liberazione? O che lo sia il Mozambico o il Sudafrica?
Dovessi far parte di un movimento anticoloniale di liberazione farei con quel che c'e' non disdegnando il cinismo. I risultati non sono scontati. Dipende da parecchie variabili. Gli indigeni Usa non hanno avuto scampo, per algerini e ai cinesi c'e' stata un'altra storia condivisibile o meno. Per i palestinesi molto dipende da noi, da quanto riusciremo a ostracizzare i nostri governi complici e a isolare Israele.
E' anche la nostra lotta di liberazione, per non fare la stessa fine dei palestinesi, non per aderire ad hamas, ma per evitare che sia la sola hamas a dare voce ai diritti dei palestinesi e di tutti. Che fine fara' hamas? E chi lo sa, che fine hanno fatto i maoisti o quelli di Mandela? Il mondo e' divenire
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