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La finanza corre indisturbata sui soliti sentieri
di Vincenzo Comito
Nel testo che segue riportiamo alcune notizie recenti relative al mondo della finanza mondiale, come reperibili in alcuni rapporti di ricerca e nella stampa quotidiana e settimanale. Il quadro che ne risulta non appare particolarmente entusiasmante: si tratta di un’attività che non sembra voler cambiare per niente nelle sue logiche perverse di lunga data.
Le banche continuano a finanziare le energie fossili. Secondo quanto ci informa sulla questione il Rapporto annuale “Banking on climate caos” pubblicato di recente da una coalizione di organizzazioni non governative, nel 2024 le principali banche del mondo hanno aumentato del 23% rispetto all’anno precedente i finanziamenti ai produttori di energie fossili, portandoli a 869 miliardi di dollari; e questo dopo che nei due anni precedenti si era assistito invece a una certa riduzione degli stessi e mentre la domanda di petrolio e gas tende a diminuire nel mondo (Angrand, 2025). Sul podio di questa pessima classifica si collocano ovviamente tre grandi banche americane. L’inversione di tendenza recente sembra debba essere attribuita principalmente all’evoluzione in peggio del contesto politico e regolamentare occidentale e contrasta con le ripetute dichiarazioni di molte banche in proposito. Mentre l’UE annacqua il suo cosiddetto green deal, l’arrivo di Trump alla presidenza degli Stati Uniti non contribusce certo a migliorare la situazione. Comunque la notizia non sorprende.
I paesi poveri e la finanza. Dati recenti della Unctad indicano che ormai 54 paesi spendono più del 10% delle loro entrate fiscali ogni anno soltanto per il pagamento degli interessi sul debito, mentre il peso del carico degli stessi interessi è sostanzialmente raddoppiato dal 2011 a oggi. Più di 3,3 miliardi di persone vivono in paesi che spendono più per il servizio del debito che per la sanità, mentre 2,1 miliardi in paesi che vi spendono più che nell’istruzione. Intanto i costi dello stesso debito stanno aumentando fortemente e stanno diventando proibitivi per i paesi più poveri. Le politiche del debito attuali in molti paesi sottosviluppati sono utili ai mercati finanziari, non alla gente. Questo minaccia di condannare intere nazioni a un decennio perduto o ancora peggio (Stiglitz, 2025). Per altro verso i dazi di Trump rallenteranno lo sviluppo dell’economia e così essi porteranno meno entrate ai governi. I paesi citati hanno bisogno una nuova fase di alleggerimento del carico dei debiti per evitare che i soldi che servirebbero per la salute e l’istruzione siano invece versati ai creditori.
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Dollarizzazione digitale
di Francesco Cappello
Il piano degli Stati Uniti per mantenere la supremazia del dollaro, si oppone all’abbandono progressivo dall’uso del dollaro su scala globale grazie all’implementazione di un “Dollaro digitale” che non avrà la forma di una valuta digitale emessa direttamente dalla banca centrale (CBDC), ma piuttosto di un piano per promuovere e regolamentare le stablecoin ancorate al dollaro. I Paesi BRICS+ stanno utilizzando valute alternative, e Cina ed Unione europea stanno sviluppando valute digitali controllate dalle banche centrali (CBDC) che potrebbero aggirare il sistema finanziario controllato dagli Stati Uniti. In questo scenario, le stablecoin sono un’arma digitale atta a sostenere la circolazione dei dollari in tutto il mondo (malgradi dazi e sanzioni) e preservare la supremazia finanziaria degli Stati Uniti nell’era delle criptovalute.
* * * *
Ogni transazione in Yuan Digitale (e-CNY) riduce gradualmente la dipendenza dal dollaro, tracciando la strada verso una multipolarità valutaria, dove diverse valute forti coesisteranno e si contenderanno il ruolo di riferimento. Questo è anche l’obiettivo dei BRICS plus: rendere il commercio globale più equo e meno esposto ai rischi legati a una singola moneta. La piattaforma di pagamenti cinese è pensata per rafforzare l’Asia, rendendo le economie locali più resilienti e consolidando la leadership economica della Cina nella sua regione. La Cina, promuovendo attivamente l’uso dello Yuan digitale negli scambi internazionali con oltre 20 paesi in via di sviluppo, più che una guerra commerciale sta facendo una guerra di sistema.
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Moneta quantistica?
di Francesco Cappello
La moneta quantistica è una tecnologia, per ora soltanto teorica, che sfrutta le leggi della meccanica quantistica per creare denaro digitale che non si possa copiare, se ne possa verificare l’autenticità e che sia unico
Le caratteristiche di una moneta ideale, reale o virtuale che sia, sono sintetizzabili nel fatto che non dovrebbe essere falsificabile (*) né alterabile (per es. aumentandone il valore). Non dovrebbe essere spendibile più’ volte, dovrebbe garantire l’anonimato dello scambio.
Le monete quantistiche sono pensate per essere l’analogo digitale delle monete fisiche, tutte identiche e scambiabili senza tracciamento.
Le banconote quantistiche sono uniche e tracciabili grazie ai loro numeri di serie, mentre le monete sono tutte identiche e anonime.
Questa distinzione porta a differenti approcci per la loro verifica e la loro implementazione con le monete a chiave pubblica [1]. Quest’ultime presentano ulteriori sfide e non sono ancora state concretamente realizzate. In particolare, la moneta collision-free, che approfondiremo più avanti, è un tipo di banconota che sfrutta numeri di serie unici quale garanzia di sicurezza.
L’idea originale della moneta quantistica è stata proposta nel 1982 da Stephen Wiesner, un fisico teorico, in un articolo intitolato Conjugate Coding.
Immaginiamo una forma di moneta digitale completamente diversa da quella a cui siamo abituati. Invece di essere fatta di semplici bit (unità elementare di informazione classica) come quelli che usano i computer, che possono essere 0 o 1, (acceso o spento, vero o falso, ecc.) questa moneta è costruita con dei quantum bit, qubit [2] che sono basati sui principi, fuori dalla nostra comune esperienza, della meccanica quantistica la quale descrive il comportamento fisico della natura al livello atomico. Una sua particolarità è che un qubit può trovarsi in una specie di sovrapposizione, un po’ come una monetina che sta girando in aria che non è ancora né testa né croce, ma è un po’ entrambe le cose contemporaneamente. La monetina si trova in uno stato sospeso di possibilità, non ancora testa né croce…
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L’astronomica finanziarizzazione di Stellantis
di Francesco Cappello
Se i margini di profitto delle grandi imprese si riducono mentre si alzano i rendimenti finanziari l’economia si finanziarizza a discapito della capacità produttiva reale. La finanza parassitizza l’economia reale. Ovviamente non potrà continuare per molto. La guerra è allo stesso tempo effetto e causa di questo stato di cose
Stellantis è nata il 16 gennaio 2021 dalla fusione tra Fiat Chrysler Automobiles (FCA) e Groupe PSA. La nuova entità era diventata uno dei principali produttori automobilistici al mondo, con un portafoglio di 15 marchi in tutto il mondo, tra cui Fiat, Peugeot, Jeep, Alfa Romeo, e Maserati, 250.000 dipendenti e un fatturato di 190 miliardi di euro.
È scoppiato il bubbone della profonda crisi che sta attraversando il colosso automobilistico, in termini di calo delle vendite e aumento ingestibile delle scorte che ha portato alle dimissioni di Carlos Tavares, amministratore delegato di Stellantis. Il valore delle azioni è crollato di oltre il 50% rispetto al picco del 2024. Il licenziamento coatto dell’amministratore delegato ha fatto seguito a uno scontro interno con il consiglio di amministrazione che gli ha comunque garantito una buon’uscita da 120 milioni di dollari e il mantenimento nel consiglio di amministrazione.
È di oggi l’annuncio di un piano ambizioso per rilanciare la produzione automobilistica in Italia, che dovrebbe vedere la nuova Fiat 500 presso lo stabilimento di Mirafiori, a Torino, la produzione della Panda nello stabilimento di Pomigliano d’Arco, in Campania, e una triplicazione dei volumi di produzione a Melfi, in Basilicata. A Cassino, nel Lazio, il gruppo promette l’avvio le linee per tre nuovi modelli di Alfa Romeo. Per sostenere questo piano, Stellantis ha stanziato 2 miliardi di euro di investimenti, dichiarando di non aver richiesto alcun supporto economico da parte dello Stato italiano.
A contribuire alla crisi del gruppo c’è sicuramente stata la minore attenzione verso i segmenti produttivi più tradizionali che in passato avevano decretato il successo del gruppo, a favore della transizione troppo veloce verso l’elettrico che ha causato prezzi troppo elevati delle auto elettriche e standard di qualità, sicurezza e sostenibilità ambientale assai discutibili.
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La moneta bancaria è la causa principale delle crisi del debito e delle crisi finanziarie
di Enrico Grazzini
Esistono tre tipi fondamentali di moneta: la moneta bancaria, creata dalle banche commerciali; le monete metalliche e le banconote, moneta legale; e la moneta riserva delle banche commerciali utilizzata per i pagamenti interbancari [1]. La banca centrale crea moneta dal nulla (moneta fiat) moneta di riserva solo ed esclusivamente per le banche commerciali e queste ultime creano moneta dal nulla (moneta bancaria) solo ed esclusivamente per l’economia reale e finanziaria, ovvero per le imprese, gli individui e gli enti pubblici -. I due circuiti – quello di banca centrale e quello delle banche commerciali – sono separati ma collegati [2].
Solo le banche commerciali hanno il privilegio di avere un conto corrente presso la banca centrale e di ottenere moneta legale di prima emissione: il pubblico – cittadini/e, imprese, enti pubblici – non ha accesso diretto alla moneta di banca centrale e alla moneta legale (moneta sicura perché coperta dallo Stato).
Circa l’80-90% della moneta che circola nell’economia reale è moneta bancaria. Il resto sono (oltre che le monete spicciole per le piccole spese) banconote emesse dalla banca centrale: tuttavia per avere le banconote di moneta centrale occorre avere prima un conto bancario. Infatti la banca centrale non emette banconote direttamente per il pubblico. Quindi tutte le monete che circolano nell’economia reale e nell’economia finanziaria hanno in qualche modo origine solo ed esclusivamente nel sistema bancario.
La banca commerciale crea moneta bancaria dal nulla quando concede un credito: la moneta creata dalla banca è moneta scritturale, ovvero la banca segna all’attivo il credito che il creditore dovrà restituire con l’interesse e segna al passivo il deposito bancario creato per il cliente [3].
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Missili e banconote. La finanza à la guerre
di Simone Furzi
Silvano Cacciari ci racconta il neo-tribalismo della finanza, le sue origini e il suo agire orientato a una guerra permanente per predare ricchezze. Agire con cui rischia però di far crollare l’edificio sociale che produce quelle ricchezze e rende possibile la sua esistenza
Il libro di Silvano Cacciari indaga con sguardo ampio e tagliente un buco nero tanto poco esplorato quanto capace di influenzare l’ordine gravitazionale delle norme sociali che articolano il mondo. Questo buco nero, l’ambiente della finanza, che l’autore descrive come dominato da “dinamiche antropologiche neotribali” (pag. 8) – su questa definizione tornerò alla fine – dove il vettore principale è quello della “guerra annidata negli scambi e nei servizi in moneta e suoi derivati”, identificando appunto “nell’intreccio tra conflitto sul campo e guerra finanziaria la chiave di lettura delle complessive distruzioni sociali e materiali della parte di secolo in cui viviamo” (pag. 9).
In questo mio intervento proverò ad analizzare alcuni fili di tale intreccio, partendo dai punti di contatto, dalle similitudini, dalle contraddizioni e dai ribaltamenti di senso riscontrabili a partire da un’osservazione del linguaggio.
Incomincio allora da un primo riscontro – ironicamente ossimorico rispetto al leit motiv del libro e del nostro discorrere – che sta proprio nell’origine etimologica del termine finanza, dal latino finantia, derivato da finare-finire, col significato di “definizione amichevole di una controversia” (solo poi ha assunto il significato, per primo nella lingua francese, di transazione pecuniaria, denaro contante). L’opposto di guerra, quindi, che nell’origine germanica di verre indica una baruffa violenta e confusa e in quello latino di bellum, da duellum, la risoluzione in armi di una disputa tra due soggetti.
In questo primo contatto linguistico tra i due enti, dunque, sembra essere la guerra ad aver incistato e mutato la natura della finanza. La finanza nello strutturare un suo gergo – come è tipico di ogni gruppo tribale o neo-tribale – attinge infatti proprio al vocabolario della guerra.
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Lo scontro valutario dietro la guerra russo-ucraina
di Alessandro Bartoloni
Riceviamo e pubblichiamo uno scritto di Alessandro Bartoloni che alimenta il dibattito su un importante tema - le cause finanziarie e valutarie dietro il conflitto contro la Russia - affrontato con un pregevole lavoro scientifico dal titolo "Le radici valutarie del conflitto in Ucraina", edito dalla rivista "Materialismo Storico", che come l'AntiDiplomatico vi abbiamo riproposto la settimana scorsa. Degli stessi argomenti, il Prof. Giulio Palermo ha offerto un pregevole contributo in "Il conflitto russo-ucraino: l'imperialismo Usa alla conquista dell'UE" (LAD Edizioni 2022)
L’ispirazione per questo articolo mi è venuta dalla lettura del saggio del compagno, nonché professore, F. S. pubblicato su Materialismo Storico. Per spiegare la guerra in Ucraina, l’Autore adopera lo schema già utilizzato nel caso degli attacchi all’Iraq e alla Libia, rasi al suolo per aver osato mettere in discussione l’egemonia del dollaro nel commercio dei prodotti petroliferi. In sintesi, «quello russo-ucraino ci appare come l’ennesimo conflitto per interposta persona in cui, attraverso la NATO, il capitale legato al dollaro cerca di indebolire l’area valutaria legata allo yuan che, nel frattempo, sta crescendo economicamente in maniera straordinaria, contendendo esplicitamente l’egemonia sull’intero sistema di capitale».
Di fronte a una tale tesi mi sarei aspettato che la divisa cinese fosse cresciuta negli scambi internazionali di merci, negli investimenti diretti esteri e di portafoglio, nonché nei forzieri delle banche centrali quale valuta di riserva. Al contrario, i dati riportati sembrano suffragare che la guerra in corso non costituisce una conseguenza della potenza dell’area valutaria legata alla “moneta del popolo” (renminbi) bensì uno dei fattori che ne accelerano l’espansione. Come si vede dalla figura 1 tratta da un articolo di Bloomberg, prima della guerra l’importanza della valuta cinese è sì cresciuta, ma non così tanto da rappresentare un effettivo e imminente pericolo per l’egemonia del biglietto verde.
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Delega fiscale: Meloni fa pagare solo i lavoratori
di coniarerivolta
Pubblichiamo un articolo dedicato al disegno di legge delega sulla riforma del fisco del governo Meloni
È stata presentata nei giorni scorsi, dopo diversi annunci, la delega fiscale predisposta dal Governo Meloni. Si tratta di una proposta di legge, che dovrà essere approvata dal Parlamento, che delega il Governo ad adottare una serie di atti (decreti legislativi) sulla riforma del sistema fiscale. La legge delega si limita, come noto, a stabilire i principi e i criteri ai quali i decreti legislativi, che avranno il valore di vere e proprie leggi, dovranno attenersi. Molti dettagli, dunque, sono ancora incompleti, mentre ben chiara è, come vedremo, la direzione di marcia.
È un documento importante, non solo perché interviene a 360 gradi sul fisco, ma anche perché è forse il primo atto di politica economica interamente addebitabile a questo Governo, che finora era soprattutto intervenuto (ovviamente sempre in modo peggiorativo) in modalità parziale su singoli istituti (i casi più evidenti sono state le pensioni e il reddito di cittadinanza).
I primi articoli sono dedicati alla riforma dell’IRPEF e in generale della tassazione delle persone fisiche, e questa è la parte che forse meglio di tutte chiarisce la profonda iniquità di questa riforma.
Accompagnata dalla promessa della “flat tax per tutti”, la delega si traduce immediatamente in un enorme colpo a quel poco di progressività che residuava nel nostro sistema, con vantaggi evidenti per i redditi più alti.
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La politica economica tra inflazione e stabilità finanziaria
di Marcello Spanò
Il fallimento di Silicon Valley Bank – la sedicesima più grande banca degli Stati Uniti – e le altre scosse telluriche del sistema finanziario a cui abbiamo assistito in questi giorni riportano all’attenzione il tema dell’instabilità finanziaria. Ancora non sappiamo se questi siano i primi anelli di una lunga catena o se il contagio verrà in qualche modo arginato. Ciò che possiamo constatare è che, ancora una volta, l’economia capitalistica ad alta intensità finanziaria in cui ci tocca in sorte vivere si conferma fragile e soggetta a rischi sistemici. Al posto di azzardare previsioni, pratica su cui gli economisti si esercitano ostinatamente e la maggior parte delle volte inutilmente, preferisco qui avanzare alcune considerazioni sugli elementi di novità che emergono da questi (primi?) fallimenti e sulle linee guida di politica economica che dovrebbero esserne tratte.
1. I safe assets non sono safe
La prima considerazione che mi sembra opportuno sottolineare è un paradosso: i titoli del debito pubblico, normalmente considerati un rifugio per il loro basso grado di rischiosità (safe assets) sono stati proprio quelli che hanno portato la SVB al fallimento.
Una quindicina d’anni fa, quando l’intero mondo della finanza franava a causa del crollo dei titoli derivati il cui profilo di rischio era del tutto opaco e la cui valutazione tecnicamente contorta era affidata ad esperti che di economia sapevano poco o nulla, gli investitori finanziari spostarono somme enormi di ricchezza sui titoli di Stato, considerati appunto un buon rifugio di fronte al panico e all’incertezza del momento.
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Il segreto di Pulcinella dei mercati azionari
di Fabrizio Russo
I mercati azionari possiedono, da sempre, un’alea di mistero per il grande pubblico. C’è chi ingenuamente attribuisce loro le stesse caratteristiche del gioco d’azzardo – nulla di più sbagliato come dimostra Nassim Nicholas Taleb (v. “Il Cigno Nero” del medesimo autore) – salvo poi impiegare direttamente od indirettamente (assicurazioni vita, fondi pensioni, fondi d’investimento azionari o bilanciati, etc.) i risparmi previdenziali o personali – almeno in una certa quota, che può però essere assai significativa – proprio su quei tipi di mercato. E’ poi diffusa, anche tra molti addetti ai lavori (ahimè), la credenza che “è tutto pilotato”, “rigged” direbbero gli anglosassoni. Ora, certamente l’insider trading (illegale) esiste e gioca un certo ruolo. Questo specie nel convogliare per vie preferenziali le informazioni riguardanti uno dei fattori che incidono sui mercati azionari: l’EPS (Earning Per Share), o informazioni circa eventuali grosse transazioni che coinvolgono operatori di cospicue dimensioni. Tuttavia, da sostenere che alcuni, fossero anche frequenti, episodi di insider trading avvantaggiano indebitamente taluni operatori, a sostenere che, sistematicamente, la direzione dei corsi azionari è dettata puntualmente dalle “voci di corridoio”, di acqua ne passa sotto i ponti! E la cosa, sinceramente, appare addirittura grottesca e ridicola, tanto più se simili affermazioni vengono proprio da professionisti – anche magari bancari – di settori limitrofi a quello finanziario. Forse le voci sono quelle che sentono la sera dopo avere mangiato pesante e, francamente, dipingere in modo esoterico il funzionamento di un mercato – specie quello USA – sostanzialmente globalizzato, dotato di una enorme ampiezza e liquidità, lascia abbastanza perplessi ed avviliti.
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Montagne di debiti in movimento
di Tomasz Konicz
Il prodigioso mondo dei mercati obbligazionari - attualmente molto più eccitante di quanto vorrebbero molti quadri dell'economia statale e finanziaria
Tediosi, monotoni, mortalmente noiosi:così sono di solito i mercati dei titoli obbligazionari dei centri del sistema mondiale. Quando il capitale necessita di essere parcheggiato in maniera sicura, quando i fondi pensione hanno bisogno di garantire una rendita sicura, per quanto bassa, quando le compagnie di assicurazione desiderano depositare il loro denaro, ecco che allora i soldi cominciano a fluire in direzione dei titoli di Stato statunitensi o tedeschi, i quali vengono considerati come la base stabile del sistema finanziario mondiale, la spina dorsale della finanziarizzazione neoliberista del capitalismo in questi ultimi decenni. Per poter quantificare tutto questo cemento sul cui è stato costruito il castello di carte della finanza neoliberista degli ultimi decenni, l'unità di misura appropriata, è il trilione [in italiano, mille miliardi!]: alla fine del 2020, con un volume di oltre 22mila miliardi di dollari, il mercato delle obbligazioni sovrane degli Stati Uniti aveva il volume più grande al mondo, seguito dalla Cina (20mila milioni di dollari) e dal Giappone (12mila milioni di dollari) [*1]. A livello globale, nel periodo in questione sono stati scambiati 128,3mila miliardi di dollari di obbligazioni, di cui il 68% era costituito dal debito del settore pubblico, e il 32% da debito societario.
Di solito è più emozionante stare a guardare l'erba crescere, piuttosto che osservare i mercati dei titoli del Tesoro statunitense. Normalmente. Il fatto che la sfera finanziaria sia al centro di quella che è - a dir poco - una crisi insolita che sta erodendo le sue stesse basi, possiamo misurarlo proprio dal movimento dei mercati obbligazionari negli Stati Uniti e nell'Unione Europea, come in un giro sulle montagne russe che fa saltare i nervi sia ai grandi che ai piccoli investitori.
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La dittatura della finanza e il mercato del gas
di Andrea Fumagalli
Prefazione
Il 12 e 13 settembre 2008, nel pieno del crollo finanziario dei subprime negli Usa, due giorni prima del fallimento della Lehmann Brother (15 settembre 2008), a Bologna si svolgeva un convegno organizzato da UniNomade sui mercati finanziari e la crisi dei mercati globali. Gli atti di quel convegno (e molto di più) verranno pubblicati l’anno successivo da Ombre Corte a cura di Andrea Fumagalli e Sandro Mezzadra con il titolo Crisi dell’economia globale. Mercati finanziari, lotte sociali e nuovi scenari politici[1]. All’interno di quella raccolta di saggi, compariva un testo di Stefano Lucarelli: “Il biopotere della finanza”. All’epoca, tale titolo ci pareva più che mai azzeccato per descrivere il dominio delle oligarchie finanziare nel definire le traiettorie di accumulazione del nuovo capitalismo delle piattaforme, che da lì a poco sarebbe emerso dalle ceneri di quella crisi.
Oggi a quasi 15 anni da quegli eventi, possiamo dire di aver sottovalutato il problema. Certo, la nostra analisi si era rivelata più che corretta nel sottolineare il ruolo centrale e dominante della finanza speculativa nel nuovo (dis)ordine monetario internazionale e il tendenziale declino del dollaro come moneta di riserva internazionale. Ma nel frattempo, il biopotere (che poteva dare origine anche a qualche forma di contropotere, come illusoriamente ha fatto credere la parabola del bitcoin) si è trasformato in una vera e propria dittatura.
La finanziarizzazione delle materie prime
Ciò che sta succedendo nella determinazione del prezzo del gas nel mercato di Amsterdam lo conferma ampiamente. Già nel passato c’erano state avvisaglie della capacità della speculazione finanziaria, oggi sempre più essenza e anima dei mercati finanziari, di stravolgere in modo quasi irreversibile le stesse regole di funzionamento di un mercato neo-liberista.
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Il sistema del dollaro in un mondo multipolare
di James K. Galbraith
Il mondo finanziario multipolare è qui. Gli Stati Uniti possono sopravvivere, ma solo con grandi cambiamenti politici ed economici in patria. È ora di iniziare a pensare a cosa devono essere
Come sottolinea Costabile (2022), il dollaro è ormai di fatto da oltre cento anni il principale asset di riserva mondiale, in primo luogo a causa della preminenza statunitense nella detenzione dell’oro e della sua posizione creditoria rispetto ai belligeranti europei nella Grande Guerra. Nel 1944 la potenza militare e industriale degli Stati Uniti, presto sostenuta, nell’ombra, da un monopolio sulla bomba atomica, furono le basi del gold exchange standard stabilito a Bretton Woods.
Una breve storia dell’era neoliberista
Il 15 agosto 1971 cala il sipario sul gold-exchange standard e si alza – anche se allora non lo sapevamo e pensavamo diversamente – sull’era neoliberista. Svalutazione, controlli sulle esportazioni, congelamento dei prezzi salariali e stimolo fiscale all’estero : queste erano misure keynesiane e persino in tempo di guerra che sembravano segnalare una conversione di massa della cerchia di Richard Nixon verso la piena occupazione, la stabilità dei prezzi e il commercio gestito. Mio padre, John Kenneth Galbraith, il capo del controllo dei prezzi della seconda guerra mondiale, è stato chiamato dal Washington Post per un commento. “Mi sento come la camminatrice di strada”, ha risposto, “a cui è stato appena detto che non solo la sua professione è legale, ma la più alta forma di servizio municipale”.
L’impressione è rimasta durante l’anno di crescita esplosiva del 1972, assicurando la rielezione di Nixon con la piena occupazione al salario medio reale più alto di tutti i tempi. Ma andò in pezzi nel 1973 quando lo stimolo terminò, i controlli furono indeboliti o scaduti, i prezzi del petrolio aumentarono e l’inflazione generale risultante fu accolta da alti tassi di interesse, stimolando una nuova crisi nel 1974.
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Il dilemma dei banchieri centrali
di Michael Roberts
"L'inflazione che abbiamo ottenuto non era affatto quella che stavamo cercando ", ha detto il presidente della Federal Reserve statunitense Jay Powell nella sua conferenza stampa dopo che il Comitato di politica monetaria della Fed ha deciso di accelerare il "tapering" dei suoi acquisti di Titoli di stato a zero entro marzo 2022 e ha segnalato che subito dopo inizierà ad aumentare il tasso di interesse di riferimento (il tasso dei "Fed funds") da zero.
Cosa intendeva Powell con "non era l'inflazione che stavamo cercando"? Non si riferiva solo al livello del tasso di inflazione. L'inflazione dei beni di consumo e dei servizi negli Stati Uniti è ora molto più alta delle previsioni fatte a settembre dalla Fed durante la sua ultima riunione, ed è quella che viene chiamata "inflazione di base", che esclude l'aumento dei prezzi dell'energia e dei generi alimentari. A novembre l'inflazione complessiva ha raggiunto il 6,5%, il tasso più alto da quasi 40 anni.
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La riforma fiscale del Governo Draghi: cambiare poco per cambiare male
di coniarerivolta
Da mesi ormai si parla con toni da grande attesa dell’imminente riforma fiscale studiata dal governo Draghi. Nel suo discorso programmatico in Senato del 17 febbraio scorso, Mario Draghi spese parole enfatiche, ma assai vaghe nei contenuti, per annunciare le intenzioni di intervenire in modo energico sul fisco: “in questa prospettiva” affermava Draghi, “va studiata una revisione profonda dell’Irpef con il duplice obiettivo di semplificare e razionalizzare la struttura del prelievo, riducendo gradualmente il carico fiscale e preservando la progressività”.
Delle intenzioni trasformatrici espresse durante il discorso di insediamento cosa troviamo nell’attuale legge finanziaria in via di approvazione? Sostanzialmente nulla e sicuramente nulla di buono. La proposta, più o meno definita nei contenuti generali, è quella di andare a limare lievissimamente uno o due aliquote Irpef ed andare a ridurre l’Irap per le imprese, per un costo complessivo di circa 8 miliardi di euro. Per capire la direzione degli interventi proposti occorre fare un passo indietro e capire da dove veniamo.
Anni e anni di riforme involutive dagli anni ’80 ad oggi hanno portato ad una diminuzione continua del carico fiscale sui redditi da capitale e in generale sul reddito dei più ricchi. Una tendenza che si è articolata lungo due direzioni: da un lato la riduzione delle tipologie di reddito incluse nella base imponibile Irpef (Imposta sul reddito delle persone fisiche), con la previsione di regimi separati e agevolati per una parte cospicua dei redditi da capitale (reddito delle società di capitali, rendite finanziarie, rendite immobiliari); dall’altra una drastica riduzione della progressività in seno all’Irpef. Quest’ultima imposta, che ormai colpisce quasi esclusivamente redditi da lavoro e da pensione e solo in piccola parte i redditi da capitale (profitti della piccola e talvolta media impresa), è passata dai 32 scaglioni del lontano 1974 ai 5 attuali, con un differenziale ridottissimo tra prima e ultima aliquota e tra primo scaglione e ultimo scaglione di reddito ad esse associati.
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