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machina

Lotte, linguaggio, natura umana: l'itinerario politico-teorico di Paolo Virno

Guido Borio, Francesca Pozzi, Gigi Roggero

Intervista tratta da Gli operaisti

0e99dc 366e20efb68c4476950169a5ad9bb513mv2.jpgL'intervista che pubblichiamo oggi, a cura di Guido Borio, Francesca Pozzi e Gigi Roggero, è tratta dal volume Gli operaisti (DeriveApprodi, 2005). È un documento importante perché ricostruisce il percorso politico-intellettuale di Paolo Virno, illumina le tracce di ragionamento lasciate aperte dal filosofo e dalla sua tradizione del pensiero. Diversi i nodi che vengono trattati: oltre alle esperienze di organizzazione degli anni Settanta, Virno ci parla delle scommesse degli anni Ottanta e Novanta, ossia il tentativo di capire in che modo la trasformazione del paese negli anni della contro­rivoluzione avesse creato un nuovo tipo umano, oltre che natural­mente diverse forme di produzione, che potevano ormai comincia­re a esprimersi conflittualmente; dei limiti e delle ricchezze della tradizione operaista; dei filoni di ricerca affrontati da «marxista critico», concentrandosi su questioni fondamentali come il linguaggio, la comunicazione e la possibilità di porre al centro politicamente la natura umana.

* * * *

Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e quali gli inizi della tua attività militante?

P.V.: Mi sono formato politicamente a Genova, dove la mia famiglia viveva e io facevo il liceo. Genova era esposta all’influenza di Torino, dove nel ’67 ci furono le prime occupazioni. Nell’estate di quell’anno si mobilitarono gli studenti medi, più vivaci di quelli universitari, che invece erano in contatto con le organizzazioni tradizionali dei partiti, Ugi e via dicendo. Come studenti medi fondammo il Sindacato degli studenti, che nell'autunno del '67 fece i primi scioperi su tematiche già sessantottesche, lotta all’autoritarismo, solidarietà con gli studenti greci dopo il golpe, e via di questo passo. Questa fu l’iniziazione. Alcuni di quelli con cui feci politica a quel tempo hanno avuto i destini più diversi: da Carlo Panella che adesso lavora per Mediaset, a Franco Grisolia che sta nella segreteria di Rifondazione, trotzkista da allora a oggi senza variazione alcuna (questo hanno di buono i trotzkisti, che si proseguono!).

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Immaterial Workers of the World | Che te lo dico a fare? – a cura di Paolo Virno

di Effimera

DeriveApprodi n18 1.jpegSuccede che quando si spegne una luce, altre si accendano. Per rimediare al buio, innanzitutto. Ma anche perché prende avvio una sorta di trasmissione di energia e di afflati vitali, di propagazione e diffusione di potenza. Come nei vasi comunicanti, il contenuto non sparisce ma viceversa tracima e si distribuisce.

Eravamo sulle scale di una stazione italiana con il cellulare e le borse in mano quando è arrivata, sulla lista di Effimera, la notizia della morte di Paolo Virno e in quel momento una lampada si è accesa nella testa sull’immagine folgorante di Virno e degli Immaterial Workers of the World. Avevamo davvero potuto dimenticare? Avevamo davvero dimenticato?

Sono passati più di 25 anni dalla pubblicazione, nella primavera del 1999, sul n. 18 della rivista DeriveApprodi del documento dal titolo “Che te lo dico a fare?”. Un testo seminale, tra i cui principali estensori, per non dire il fondamentale, forse unico, c’è, appunto, Paolo Virno. È suddiviso, dopo una premessa, in tre parti.

 

Parte I

La prima parte, intitolata significativamente “La giornata lavorativa sociale”, è la parte sicuramente più radicale e affascinante, perché porta alle estreme conseguenze, quasi provocatoriamente, un insieme di analisi sulle trasformazioni produttive, tecnologiche e del lavoro del capitalismo contemporaneo.

Le prime analisi sul tema risalgono agli anni Novanta laddove si usò la nozione di “postfordismo”. Queste hanno trovato spazio su alcune influenti riviste autonome. Pensiamo, tra le altre, a Luogo Comune (che ha visto tra i suoi protagonisti Virno stesso), Riff Raff, Futuro Anteriore, Altre Ragioni, la stessa DeriveApprodi Rivista, eccetera. Si tratta di riviste che, in stretta relazione con il pensiero d’oltralpe (pensiamo a Futur Anterieur, Alice, ai primi numeri di Moltitudes…), intorno all’anno Duemila hanno cominciato a promuovere il pensiero operaista.

Il testo “Che te lo dico a fare?” è presentato sotto forma di tesi, come allora usava.

Si comincia a teorizzare che l’attività produttiva (di plusvalore) non è più recintata dal lavoro produttivo ma tracima verso un esterno sempre più largo e sempre più  irregolare, che tende sempre al nero:

“il lavoro postfordista è sempre anche lavoro sommerso. Questa espressione non significa solo lavoro non contrattualizzato, ‘lavoro nero’. Il lavoro sommerso è in primo luogo vita non retribuita, ovvero quella parte dell’attività umana che, completamente omogeneizzata nel lavoro, non viene tuttavia computata come forza produttiva”.

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machina

Il decennio della controrivoluzione

di Paolo Virno

0e99dc 10fdb459a2bd4d72a59159a2965d6a03mv2Per ricordare Paolo Virno pubblichiamo un testo tratto da Nel sottosopra degli anni Ottanta. Le contraddizioni di un decennio, edito da MachinaLibro nel 2024.

Il contributo riprende e rielabora la discussione tenutasi il 10 giugno 2023 al Festival 6 di DeriveApprodi, in occasione dell’uscita della nuova edizione de Sentimenti dell’aldiqua — libro cardine per comprendere e analizzare gli anni Ottanta.

In quell’occasione Paolo Virno, insieme a Marco Mazzeo e Adriano Bertollini, ha riflettuto sul significato e sull’attualità di quell’analisi.

La fotografia che accompagna l’articolo è stata scattata proprio in quel giorno.

* * * *

Il libro fu ed è ancora una meditazione sul mutamento delle forme di vita dopo la sconfitta politica, e più ancora sociale, dei movimenti rivoluzionari. Quali sono le tonalità, i ritmi delle nostre giornate allorché si è eclissata anche solo la possibilità di un mutamento radicale del modo di produzione capitalistico? Perché analizzare i giorni della controrivoluzione partendo dalle emozioni e dai sentimenti? Perché in queste tonalità emotive si manifestava una relazione con il mondo e con i propri simili in maniera più vivida che in qualche balbettio politico. Vi era un grano di verità in quei sentimenti, come se fosse un trattato sull’epoca, riguardo alla nostra relazione con la vita e la sua finitezza, i potenti e gli impotenti, il trionfo del nuovo capitalismo – del capitalismo linguistico. Non si trattava di una via umile e rassegnata di affrontare il proprio tempo, al contrario, vi era una smodata ambizione: vediamo qual è la relazione qui e oggi con il proprio stare al mondo e vediamolo attraverso la situazione emotiva prevalente, che non è un orpello di cose più solide e serie, come procacciarsi il reddito, ma qualcosa che sta alla base e che si dipana all’interno dei modi di procurarsi il reddito.

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La Sinistra Negata 05

Sinistra rivoluzionarla e composizione di classe in Italia (1960-1980)

a cura di Nico Maccentelli

Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale. Le puntate precedenti le trovate nei link a piè di pagina.

5e93eb0e 583a 11e9 aefc 80a9265852a9.jpgParte terza. Ancora sugli Anni Ottanta.

La sinistra rivoluzionaria italiana di fronte alla crisi.

La conclusione della nostra ricostruzione delle vicende della sinistra rivoluzionaria italiana, apparsa nelle due precedenti puntate de La sinistra negata, ci ha lasciato un senso di insoddisfazione. Non tanto per le molte cose che abbiamo trascurato parlando degli anni Sessanta e Settanta, quanto per aver solo sfiorato il problema cruciale: gli anni Ottanta.

Perché “problema cruciale”? Perché la reale forza, il grado di radicamento, la capacità di mobilitazione della sinistra di classe non sono seriamente valutabili sotto il profilo storico se non si tiene presente che quel movimento ha finito col crollare come un castello di carte, riducendosi a ben poca cosa nel giro di un paio d’anni.

Non fa piacere dirlo, specie per chi, come noi, in quel movimento, nelle sue tensioni e nei suoi valori continua ad identificarsi a fondo. Peggio sarebbe, però, far finta che nulla sia successo, e che la sinistra rivoluzionaria italiana mantenga ancor oggi intatta quella forza che fino a qualche lustro fa sembrava incontenibile. Aggirare i problemi è contrario al nostro metodo, che consiste nel guardare in faccia i nodi essenziali, per quanto sgradevoli possano essere. Cosi come contrario al nostro metodo è limitarci a gettare sguardi asettici sul passato, eludendo il fatto che quel passato sfocia nel nostro presente e ne modella i tratti, e che quindi è da quest’ultimo che occorre necessariamente prendere le mosse.

Abbiamo dunque deciso di continuare la discussione su La sinistra negata partendo dal punto in cui si concludeva, dagli anni Ottanta; prima con un articolo d’insieme, che precisi a volo d’uccello la mappa della nostra ricerca, poi con studi più dettagliati, affidati ai prossimi numeri, su singoli aspetti del problema. Ciò nel tentativo di abbozzare una risposta alla domanda di fondo: la crisi attuale della sinistra rivoluzionaria italiana è irreversibile, o rappresenta solo una sosta in un percorso che continua?

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carmilla

Anticapitalismo e antifascismo. Parte II

di Nico Maccentelli

Schermata 2025 10 25 alle 18.10.24.pngIn questa seconda parte affronto l’origine e la storia del fascismo nella prospettiva di una lotta antifascista che non può non essere anticapitalista e vedremo il perché. Ad avvalorare questa ipotesi c’è l’ottimo contributo di Carlo Modesti Pauer apparso il 21 ottobre scorso sul nostro web, dal titolo: Di piazze piene a milioni e di carogne, canaglie e cialtroni…

Modesti Pauer scrive:

«Il punto cruciale è che, dopo la guerra, il “nuovo” capitalismo yankee non ha – apparentemente – più bisogno dei fascismi storici, così come se ne servì nel primo dopoguerra. La democrazia parlamentare entro certi limiti (anticomunismo ad ogni costo), diventa funzionale al nuovo ordine economico e geopolitico sorto con la Guerra fredda. Come noterà Bobbio, la “democrazia liberale è fragile ma si rivela adattabile: non un ostacolo, ma una forma di governo che il Capitale sa usare”. Tuttavia, le vicende complesse degli ultimi trent’anni, dalla dissoluzione dell’Urss in poi, hanno trasformato profondamente lo scenario geopolitico, mentre si imponeva un’economia globale di stampo neoliberista: deindustrializzazione nei paesi maturi, delocalizzazione produttiva, privatizzazioni, vendita di imprese pubbliche e riduzione dello Stato sociale; concentrazione della ricchezza, erosione dei diritti, crisi ricorrenti, tagli alla spesa pubblica, collasso dei welfare europei; omologazione giuridica al modello anglosassone, erosione della sovranità nazionale. La mattanza alla Diaz, la violenza feroce della repressione a Genova (G8-2001), doveva mettere a tacere chi indicava il nuovo orrore della teologia economica: il Capitale, nella sua autoriproduzione, si pone come realtà ultima, come principio di ogni senso, come Assoluto immanente che non tollera esterno né differenza. Il valore non rimanda più a nulla: è puro esser-presente, pura parusia del denaro che si moltiplica.»

E ancora:

«Il volto nuovo del fascismo non ha la forza né la necessità di costruire un ordine alternativo come nel 1932. Non organizza corporazioni, non genera un nuovo modello di Stato.

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sinistra

C’è una sola strada: la lotta per il socialismo

di Carlo Lucchesi

esopfreubEcco cosa accade nella nostra parte di mondo. Prima l’Ucraina. I neocon USA, la NATO e, in coda, l’U.E., hanno messo nel mirino la Russia con l’obiettivo di destabilizzarla, farla deflagrare e spartirsi le ricchissime spoglie. L’Ucraina è stata scelta allo scopo. In sequenza: colpo di stato, dichiarazione d’ingresso nella NATO, guerra, rifiuto di riconoscere le ragioni di sicurezza della Russia, sabotaggio dei tentativi di Trump di trovare un compromesso. Persa la guerra, non potendo passare allo scontro frontale data la superiorità nucleare e missilistica della Russia e temendo le reazioni popolari che seguirebbero una simile scelta, si lavora per aprire un altro fronte nella speranza di provocare quel logoramento di cui l’Ucraina e la NATO non sono stati capaci. Non basta. Si inventa un inimmaginabile pericolo di aggressione da parte della Russia per giustificare la moltiplicazione delle spese militari, portare a compimento la privatizzazione dei servizi pubblici a vantaggio dei centri finanziari, ridurre gli spazi di democrazia e irrobustire le forme di controllo sociale. Un disegno agghiacciante che la quasi totalità dei media, oramai a servizio di quelli stessi poteri che hanno inscenato lo spettacolo, si è affrettata ad abbracciare senza vergogna.

Poi il Medio Oriente. Israele programma il genocidio dei palestinesi, Israele e gli USA lo attuano, l’Europa per un bel po’ fa finta di nulla, poi balbetta qualche critica ma si guarda bene da mettersi di traverso sul serio. Intanto Israele compie azioni di guerra e terroristiche quando vuole e contro chi vuole, sempre nel silenzio quando non col plauso dell’Occidente. Taccio su quella specie di accordo imposto da Trump. Comunque non sposta di una virgola il giudizio su quello che è stato.

Ce ne sarebbe abbastanza, ma se inseriamo questi avvenimenti nel bilancio dell’ultimo cinquantennio è impossibile non trarre conclusioni definitive.

Le contraddizioni del capitalismo sono arrivate a un livello insostenibile per gran parte dell’umanità. La guerra ne è una componente intrinseca, è una necessità ineliminabile per la sua sopravvivenza. La violenza, anche la più disumana, quando viene dal nostro mondo, è essa stessa diritto indiscutibile, sacrosanto perché contrasta il male che è tutto e solo dall’altra parte.

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La Sinistra Negata 04

Sinistra rivoluzionarla e composizione di classe in Italia (1960-1980)

a cura di Nico Maccentelli

Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale

psdojnviro.jpgSegue la Parte seconda. Gli Anni Settanta.

3. L’AUTONOMIA.

Il più vitale dei gruppi extraparlamentari di ascendenza operaista, Lotta Continua, è il primo a soccombere alla nuova composizione di classe. Ad appena due anni dalla sua costituzione in partito, Lotta Continua si trova infatti lacerata dal conflitto tra i soggetti sociali emergenti, giovanili e femminili, e i vecchi gruppi operai, decisi a difendere le proprie prerogative e una centralità ormai declinante1.

Interi spezzoni dell’organizzazione se ne distaccano, contestandone l’“istituzionalizzazione” e la tendenza al burocratismo. Costituiranno una costellazione di collettivi grandi e piccoli, destinati a confluire nel generico “Movimento” che si sta condensando a seguito dello sfaldamento dei gruppi e delle nuove tendenze aggregative, o in una sua specifica componente che da almeno tre anni conosce una crescita via via più rapida: l’area dell’autonomia operaia”.

Definire quest’ultima non è facile2. La compongono, originariamente, gli ex militanti di Potere Operaio e del milanese Gruppo Gramsci, cui si aggiungono altre forze provenienti da organismi di fabbrica, sia dalla diaspora degli “extraparlamentari”. Un’ulteriore componente, che però con l’operaismo in senso stretto mantiene scarsi legami, è rappresentata dalla cosiddetta “autonomia creativa”, molto attenta alle istanze giovanili e ai risvolti culturali e comportamentali del movimento.

Un discorso sull’autonomia operaia – che, rinunciando dall’inizio a una costituzione artificiale in partito, consuma la propria vicenda senza dar vita a stabili forme di centralizzazione (a parte occasionali coordinamenti e l’esperienza contrastata di un organo nazionale) – rischierebbe di risolversi in un’elencazione di sigle e di episodi.

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ilpungolorosso

Dopo le grandissime giornate di lotta del 3 e 4 ottobre

di Tendenza internazionalista rivoluzionaria

Dopo le grandissime giornate di lotta del 3 e 4 ottobre: ora bisogna continuare e andare fino in fondo, per dare maggior forza alla resistenza del popolo palestinese e buttare giù dalle piazze il governo Meloni

Screenshot 2023 10 29 181408.pngMolti, per prime le organizzazioni palestinesi, hanno fatto ricorso al termine “storico” per definire le magnifiche giornate di lotta del 3 e 4 ottobre. Forse è prematuro. Ma lo sciopero generale politico – vero! – per la Palestina proclamato inizialmente dal SI Cobas, e poi assunto dalla Cgil e dall’Usb, e i giganteschi cortei di Roma e Milano segnano con certezza un grande risveglio sociale e politico.

La solidarietà con la Palestina e – in misura assai minore – con la resistenza del popolo palestinese è diventata finalmente un fenomeno di massa. Anzitutto in una nuova generazione di giovani e giovanissimi fino a poco tempo fa apparentemente del tutto passivi, atomizzati, apolitici. In gran parte giovane proletariato candidato a precarietà e assenza di futuro: figli/e dell’immigrazione e italiani doc, che sempre più si sentono immigrati in quella che è, sulla carta d’identità, la “loro” terra. E poi settori significativi della classe lavoratrice salariata – oltre i facchini della logistica, ferrovieri, portuali, autisti dei trasporti locali, operai/e e impiegati/e dell’industria (non in prima fila, però), docenti delle scuole (molti), infermieri e medici, dipendenti di enti pubblici. Accanto a loro, e trainati da loro, settori di “popolo”, inclusi singoli elementi di quelle classi medie accumulative che sono schierate in forza con il governo e i poteri costituiti filo-sionisti.

Ciò che ha unito questa variegata composizione sociale è un mix di conscio e di inconscio. Il rifiuto consapevole del genocidio in corso a Gaza a opera del governo e dell’esercito di Israele in quanto inumano. L’ammirazione, ma non sempre consapevole, della forza, del coraggio, della dignità, del popolo palestinese. Il sentimento ancora meno consapevole, se ci riferiamo alla maggioranza dei manifestanti, di appartenere al mondo degli oppressi – che i settori più coscienti del movimento hanno espresso con il “siamo tutti palestinesi”, cogliendo l’unità di destino tra il popolo palestinese e gli sfruttati delle metropoli europee e occidentali.

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machina

 Il settantismo malattia senile del reducismo

di Gigi Roggero

0e99dc 5f072c4d5ba8439598a930a8c954026amv2.jpgUna decina di anni fa affrontavamo la questione della «generazione scomparsa», composta da quei militanti «di movimento» nati negli anni Settanta. Da quel decennio, più ancora che indiscutibili ricchezze, tali militanti hanno ereditato innanzitutto un complesso: «quello dell’essere arrivati tardi». La fonte di ispirazione è diventata mitologia, i rapporti intergenerazionali si sono non di rado trasformati in accettata subalternità pedagogica, la venerazione di una memoria iconica è sfociata nel torcicollo politico, cioè nell’incapacità di guardare alle complessità del presente per fuggire in un passato spesso caricaturale. D’altro canto, molti di coloro che hanno vissuto politicamente quel decennio, con il passare del tempo, sono stati vittime della nostalgia canaglia, in primo luogo quella per la trascorsa gioventù: così, anziché mettere al servizio dell’oggi i limiti della loro esperienza, l’hanno trasfigurata in metro di misura della verità, in memorialistica picaresca, o in uno spaghetti western. Come se bastasse lo spirito d’avventura o l’eroismo combattentistico individuale a cambiare le sorti di un mondo senza tempo, indipendentemente dal contesto storico e dalle composizioni sociali. Questo articolo spiega come la necessità di lottare contro la dominante rimozione degli anni Settanta sia stata sublimata nell’ideologia del «settantismo». E in alcuni ambienti la toppa è stata forse peggiore del buco.

Oggi il problema del settantismo riguarda bolle sempre più residuali e anagraficamente connotate, orfane di quello che fu il Movimento (con la maiuscola, portato dell’anomalia italiana) e nello sfarinamento del «noi», che di epoca in epoca esiste solo come prodotto di un processo collettivo.

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sinistra

La Cina può essere il nostro modello?

di Salvatore Bravo

Xi Jinping China defense propaganda Maoist Jonathan Bartlett illustration article 1160x653.jpgL’occidente, termine con cui si indica un’area geografica che si estende dagli Stati Uniti a Israele, sta mostrando in modo inequivocabile la “verità” del suo sistema. Si tratta di un’area geografica, in cui le differenze sociali e culturali sono quasi scomparse, al loro posto vige l’americanismo. Quest’ultimo si caratterizza per l’economicismo fanatico che tutto pone in vendita pur di incassare plusvalore. L’individualismo è il modello che impera e divora la storia e l’essere con la sua gerarchia valoriale. Il multi-nullismo è l’essenza dell’americanismo.

Il genocidio dei palestinesi si consuma in mondovisione e, e mentre tutto questo accade la chiacchiera domina e impera. Israele non è oggetto di sanzioni reali, anzi alla potenza che difende gli interessi occidentali in Medio Oriente si chiede “moderazione” con le tregue e la si invita a far passare gli aiuti umanitari. Estetica funebre che vorrebbe mascherare la sostanziale complicità dell’occidente. In questo clima di marcescente mostruosità divenuta banale e ordinaria porsi il problema dell’alternativa a un sistema che sembra invincibile ed eterno, ma in realtà è assediato da un mondo che muta velocemente, è fondamentale per riportare la speranza nel deserto della disperazione. Ci si avvia verso una rivoluzione anche in occidente, poiché le tecnologie e le risorse minerarie sono ormai in pieno possesso dei popoli non occidentali. I secoli del parassitismo e del saccheggio sono terminati o stanno terminando. La popolazione in occidente è in forte contrazione e invecchiamento; la cultura dei soli diritti individuali sta mostrando il suo vero volto, ovvero la famiglia si dilegua e con essa il futuro, restano solo individualità consumanti che dietro di sé non lasciano nessuna traccia. Non vi è cura dell’altro (famiglia in senso proprio ed esteso), per cui l’occidentale medio termina i suoi giorni depauperando ciò che lo umanizza. In questo contesto cercare e fondare l’alternativa è inevitabile.

I colonizzati sono coloro che difendono il modello americano. Sono gli atei devoti che per rafforzare il sistema si impegnano a sostenere riforme puramente estetiche che possano legittimarlo fortemente.

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rete dei com

Le tre grandi rotture del Novecento

di Gianmarco Pisa

lenin.jpegIl contributo offerto dai compagni e dalle compagne della Rete dei Comunisti con il Forum – e la successiva pubblicazione degli Atti – per un “Elogio del comunismo del Novecento”, nelle sue quattro sessioni-approfondimenti tematici (prima della Seconda guerra mondiale: l’assalto al cielo; dopo la Seconda guerra mondiale: le nuove rivoluzioni, le conquiste operaie e i movimenti di liberazione dei Paesi in via di sviluppo; la regressione del movimento comunista e la controffensiva capitalista; la riemersione delle contraddizioni accumulate dalla supremazia del capitalismo), rappresenta, nel suo complesso, una iniziativa preziosa per l’approfondimento e il dialogo tra comunisti (e oltre l’ambito specifico del movimento di classe) nonché un terreno di lavoro condiviso con le soggettività del movimento che intendono sviluppare una riflessione, non apologetica e non liquidatoria, non eclettica e non dogmatica, per attualizzare l’analisi critica, marxista, e ricomporre terreni unitari.

Al di là delle – e senza l’esigenza di definire più o meno arbitrarie – periodizzazioni, un tema che conviene fare emergere e che offre elementi di riflessione e di approfondimento non scontati è offerto dalle grandi rotture che l’esperienza storica, politica e culturale del movimento comunista del Novecento ha attraversato e delle quali è stata, più volte, protagonista indiscussa.

Non va dimenticato, infatti che proprio il movimento comunista e, alla sua base, il marxismo e il leninismo hanno rappresentato, in Oriente, la concretizzazione di società e di sistemi liberi dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, in cui per la prima volta si sono realizzati diritti e istanze di emancipazione e di liberazione, e, in Occidente, il fattore maggiore nella sconfitta del fascismo storico e nell’avanzamento della democrazia.

Quali possono essere individuate, dunque, tra le grandi rotture del Novecento? La prima anzitutto: l’avanzata del movimento di classe e l’affermazione su scala planetaria del socialismo nel periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale alla metà degli anni Settanta.

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nicomaccentelli

La menzogna di Ventotene e il 25 Aprile

di Nico Maccentelli

480741427 1063795025555759 5339780102461705052 n 768x576.jpgAppunti sulla Resistenza ieri e oggi

Questo 25 aprile è stato il peggiore di tutti: la Brigata Ebraica (1), che ha operato in Italia poche settimane per andare poi a sterminare gli arabi in Palestina, ha preso la scena di tutti i TG, mentre le manifestazioni realmente partigiane sono state demonizzate come episodi di intolleranza estremistica.

I principali politici guerrafondai hanno strumentalizzato la Resistenza e i partigiani accostandoli al regime nazista banderista ucraino spacciato per resistente, mentre la maggior parte della popolazione ucraina non ne può più né della guerra né della repressione sanguinaria che pratica la SBU, i servizi di intelligence ucraini e i sequestri dei reclutatori ai danni dei cittadini che cerano di non andare a morte certa al fronte: uno stravolgimento propagandistico filo-nazista della realtà dei fatti nel nome di una non meglio precisata “libertà”.

Ma ciò su cui si regge tutto questo cumulo di manipolazioni della nostra Resistenza è la menzogna nata pochi anni fa, creata ad arte, e che non ha nulla a che vedere con la nostra lotta di Liberazione dal nazifascismo e ancor prima sulla lotta antifascista durante il Ventennio. Una patina ideologica sulle reali ragioni della Resistenza, che sostituisce gli imprinting politici e ideologici dei partiti della Prima Repubblica, provenienti per valori e visioni del mondo proprio da quella Resistenza stessa. In particolare mi riferisco al percorso storico del PCI: il gruppo dirigente del PD formatosi in tutti questi anni, non solo ha abbandonato la missione di emancipazione delle classi popolari dal dominio classista del capitalismo, ma oggi osanna l’esistente sopprimendo ogni passaggio politico e punto di vista di classe e popolare, manipolando la storia a uso e consumo di una costruzione europea postuma alle Resistenze e che non è uno stato sovranazionale con i suoi organi democratici (ricordo che il Parlamento Europeo, ha solo funzione consultiva), ma un grumo di gestione del potere continentale, delle sue oligarchie finanziarie e multinazionali che sta involvendosi verso un’economia di guerra.

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crs

BSW, sfide e nuovi equilibri politici in Germania

di Claudia Wittig

L’insuccesso alle prime elezioni generali dell’Alleanza Sahra Wagenknecht è da attribuire a un clima mediatico non favorevole, agli errori nella strutturazione del programma politico e nell’organizzazione del partito

sahra wagenknecht 1.pngLa Germania ha votato anticipatamente. Il 6 novembre 2024, il cancelliere Olaf Scholz ha esautorato il ministro delle Finanze e annunciato l’intenzione di porre una questione di fiducia, con la possibilità di elezioni anticipate.

Nel frattempo, l’Alleanza Sahra Wagenknecht (BSW), nata meno di un anno prima, a gennaio 2024, da una scissione della Linke, aveva già attirato molta attenzione. Dopo anni di conflitti interni, Sahra Wagenknecht aveva lasciato Die Linke, formando una nuova forza politica. Alle elezioni europee del giugno 2024, la BSW aveva ottenuto il 6,2% dei voti, raggiungendo pochi mesi dopo risultati significativi alle regionali in Germania orientale, entrando anche in coalizioni di governo in Brandeburgo e Turingia.

Nonostante questi buoni risultati, alle ultime elezioni la BSW non è riuscita a entrare, per soli 9.000 voti, nel Bundestag. Pur avendo ottenuto il miglior risultato per un partito di nuova formazione, la delusione è stata grande. Gli eventi tra la caduta della coalizione di governo e le elezioni evidenziano però le criticità del sistema politico tedesco e il ruolo crescente della BSW nel dibattito pubblico.

 

1. Cosa vuole la BSW?

Non esiste ancora un programma di base, ma già a novembre era chiaro quali fossero i principi cardine del nuovo partito: pace, economia sociale di mercato e un approccio più sfumato al dibattito sulla migrazione.

Nel suo anno di fondazione, il principale tratto distintivo della BSW consisteva nell’opposizione alla “politica estera basata sui valori” della coalizione di governo, proponendo invece una coerente politica di pace. Secondo la BSW, la strategia della ministra degli Esteri Annalena Baerbock e del ministro dell’Economia Robert Habeck non solo aveva causato gravi danni economici e aumentato il rischio di un’escalation della guerra in Ucraina, ma aveva anche portato la Germania, con le sue massicce forniture di armi, a sostenere una guerra di ritorsione contro i palestinesi.

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iltascabile

Rossana Rossanda. Politica, memoria e rivoluzione

di Franco Cimei*

A vent’anni da La ragazza del secolo scorso, come recuperare nella sua complessità la storia del comunismo?

Rossana Rossanda. Politica memoria e rivoluzione.jpgUn’epifania: Rossana ha appena scoperto che il suo professore di filosofia è un comunista. Lei ha 19 anni, è il 1943, Milano è occupata dai nazisti. Il professore, Antonio Banfi, non ha risposto alle sue domande ma le ha consegnato un fogliettino stropicciato su cui ha scritto i titoli di una serie di libri per capire, gli autori sono: Marx, Lenin, Harold Laski. Rossana corre in biblioteca, poi per tornare a casa prende il tram per Olmeda, su questo incontra tre operai:

Sfiniti di fatica e mi parve di vino, malmessi, le mani ruvide, le unghie nere, le teste penzolanti sul petto. Non li avevo mai guardati, il mio mondo era altrove, loro erano altro, che cosa? Erano la fatica senza luce, le cose del mondo che evitavo, sulle quali nulla si poteva. Come nulla potevo sui poveri, un’elemosina e via. Le teste ciondolavano, scosse a ogni svolta del tram, i visi non li vedevo. Era con loro che dovevo andare. A casa lessi tutta la notte, un giorno, due giorni.

In questa scoperta della sua vocazione politica c’è tutta Rossana Rossanda, tutta la sua idea di politica. È un episodio che ci racconta lei stessa nella sua autobiografia, La ragazza del secolo scorso, uscita vent’anni fa per Einaudi, in cui condensa tutto il suo percorso politico e intellettuale fino agli anni Settanta. Ma c’è anche una strana incongruenza. Francesco de Cristofaro, uno dei più attenti studiosi di Rossanda, in Aperte lettere (2022) fa notare quello “scandalo logico fra la penultima e l’ultima frase”. Rossanda empatizza con la condizione umana degli operai, sembra trascinata d’impulso verso la loro strada e quindi torna a casa e legge tutta la notte.

Questo movimento apparentemente incongruo è caratteristico di Rossanda, per cui l’azione politica ha sempre una genesi emotiva, strappata dalla vita, poi fatta propria attraverso la razionalità e lo studio. Un movimento centrifugo che va dalla vita ai libri e solo allora può diventare azione. Un modo di concepire l’azione politica che si avvicina molto a quello di Lenin, suo grande maestro.

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sinistra

Alcune divergenze tra i compagni Ottoliner e noi

di Claudia Pozzana e Alessandro Russo

1banks 640x420.jpgDue precisazioni preliminari. Anzitutto, il “noi” di cui qui si parla è fortemente ipotetico, ben più di quello cui fa allusione il titolo (un’antica polemica del PCC col PCI), e in ogni caso lo usiamo affiggendovi sempre un grande punto interrogativo.1 Inoltre, Ottolina TV la seguiamo quotidianamente, è una torcia accesa nella nebbia venefica dell’odierno disorientamento del mondo. Un piccolo gruppo di compagni che con grande generosità sono stati capaci di auto-organizzarsi in modo esemplare. È con sentimenti di amicizia politica che vogliamo manifestare le nostre divergenze su alcuni temi cruciali, o per dirla con Lenin, su “alcuni problemi scottanti del nostro movimento”, beninteso “nostro” nel senso di un desiderio da realizzare.

Ci sono in particolare due grandi problemi irrisolti, che proponiamo di discutere nello spirito della “giusta soluzione di contraddizioni in seno al popolo”: uno è il “che fare?” immediato, l’altro è la prospettiva storica, o meglio il bilancio dell'esperienza storica di altri tentativi di “abolizione dello stato presente delle cose” in epoca moderna. (Ci scusiamo per l’abbondanza di citazioni classiche ma speriamo che aiutino a capirci).

 

#tuttiacasa

La parola d’ordine di Ottolina – un hashtag, per stare al passo coi tempi – è oggi “Tutti a casa”. Avete perso la guerra, dunque andate via tutti, ma proprio tutti, precisa Marrucci per chi non avesse capito bene. A parte una serie di problemi operativi (chi, quale noi, e come, manda a casa tutti?), c’è un problema politico, e in una certa misura perfino logico. Ciò che vogliamo deve venire prima di ciò che non vogliamo. Non vogliamo più questo governo, bene, ma che cosa vogliamo politicamente? E come vogliamo conseguirlo? Senza mettere al primo posto un enunciato affermativo, il nostro sarà solo un grido di dolore, incapace tuttavia di alleviare la nostra impotenza. Non si cede alla seduzione del “pensiero magico” (bersaglio polemico di Ottolina) quando si esaltano le virtù palingenetiche della distruzione?