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contropiano2

Accordi fuffa: la deindustrializzazione Usa è irreversibile

di Joseph Halevi*

impossibile reindustrializzare usaPenso che la formazione degli strati politici europei sia tale ormai che non riescono proprio a trovare, a individuare, spazi per i propri paesi. Di conseguenza sono piuttosto orientato a pensare che si allineano e basta, sapendo che ci saranno dei costi da pagare, ma di scaricarli poi sulla popolazione normale, diciamo così.

Non riesco proprio a pensare, a vedere, dei politici autonomi, capaci di dare un pensiero… L’ultimo che mi viene in mente è Kohl, per esempio, dopo non ne vedo. Forse un po’ Schroeder, però ha avuto la grossa responsabilità di accelerare la finanziarizzazione della Germania, tra l’altro, e quindi di rompere questa coerenza che c’era tra sistema bancario e sistema industriale tedesco che dava una notevole forza alla Germania.

L’Italia poi, con la fine della prima Repubblica, non ha più niente, non ha più nulla, quindi io non riesco a individuare spazi di autonomia, perché se si devono individuare degli spazi di autonomia bisogna pensare che la prima cosa che avrebbero dovuto proteggere è le risorse energetiche, è ovvio, le fonti energetiche. Non le hanno protette.

Voglio dire, è stato fatto saltare il North Stream 2 e questi non hanno nemmeno protestato. Di conseguenza, io proprio non vedo nessuno spazio in quel senso.

Però qui vorrei dire alcune cose: bisogna vedere quale è l’obiettivo statunitense. Noi siamo in una nuova fase del: “i problemi sono vostri e i dollari sono nostri”. John Connally, che fu il segretario al Tesoro del presidente Nixon nella crisi del ’71, proprio in un incontro di 10 paesi a Roma, alla fine del ’71, dopo l’abbandono della parità aurea decretata da Nixon il 15 agosto del 1971 tra dollaro e oro.

A Roma in questa riunione lui disse: “il dollaro è nostro, però i problemi – sottinteso del dollaro – sono i vostri”. Così disse all’Europa, al Giappone … agli europei e ai giapponesi, sostanzialmente. E noi ci ritroviamo di nuovo di fronte a questa situazione.

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laboratorio

La strategia globale dietro i dazi statunitensi secondo Stephen Miran

di Domenico Moro

I dazi secondo MIran immagine.jpegI dazi stanno caratterizzando la seconda presidenza di Donald Trump. Tuttavia, il presidente sui dazi ha un comportamento ondivago, minacciando e sospendendo le tariffe per poi aumentarle o diminuirle.

Se vogliamo capire le cause profonde dei dazi e del comportamento ondivago di Trump dobbiamo staccarci dal contingente e cercare di capire qual è la strategia complessiva. A questo proposito, dobbiamo fare riferimento a Stephen Miran, che della politica dei dazi è lo stratega e che è attualmente il presidente del Council of Economic Advisor, un organismo interno all’Ufficio Esecutivo del Presidente degli Stati Uniti, il cui compito è dare consigli al presidente su temi economici. Durante la prima amministrazione Trump, Miran è stato consigliere senior del Ministero del Tesoro e successivamente stratega senior per Hudson Bay Capital Management, un grande investitore istituzionale all’interno del Trump Media & Technology Group, che gestisce anche la piattaforma Truth Social.

In particolare, dobbiamo fare riferimento a un testo di Miran che rappresenta il manifesto della politica dei dazi, A User’s Guide to Restructuring the Global Trading System (Guida dell’utente alla ristrutturazione del sistema commerciale globale), che è stato pubblicato da Hudson Bay nel novembre del 2024 in contemporanea con la vittoria di Trump.

 

Introduzione

Cominciamo, quindi, a vedere cosa dice questo testo. Miran inizia imputando alla sopravvalutazione del dollaro la ragione del deficit commerciale con l’estero e del declino della manifattura statunitense. Miran si propone di individuare gli strumenti per ovviare a questi problemi. Lo strumento unilaterale più importante sono i dazi, che, contrariamente a quanto sostiene l’opinione comune, non necessariamente aumentano l’inflazione. Infatti, quando nel 2018-2019, durante il primo mandato Trump, furono alzati i dazi non ci furono apprezzabili aumenti dell’inflazione, anche perché i dazi furono controbilanciati dal rafforzamento del dollaro.

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storiasegreta

Il rinculo di Trump

di ***

trump e meloniI dazi che Trump aveva messo contro il resto del mondo sono durati esattamente una settimana, dopo di che sono stati sospesi per tre mesi per avviare trattative con quasi tutti i paesi, con l’eccezione della Cina.

Sono state proposte varie spiegazioni per questa improvvisa retromarcia, da una eccessiva reazione della Borsa, dalla pressante richiesta di trattative di quasi tutti i paesi, che Trump ha espresso a modo suo (‘vogliono tutti baciarmi il fondo-schiena’), così come naturalmente che ‘era stato tutto previsto’ (la spiegazone meno credibile di tutte).

In questo contesto di sterzate e controsterzate, per cercare di capirci qualcosa crediamo sia utile inquadrare le cose in una prospettiva di più lungo periodo.

Trump o non Trump, gli Stati Uniti si ritrovano ad affrontare due enormi problemi contemporaneamente, uno di tipo economico e uno di tipo finanziario, strettamente legati tra loro.

Come illustrato abbondantemente altrove (Maurizio Agostini, Moneta e Potere) a cinquanta anni dalla fine della convertibilità del dollaro in oro, i nodi vengono necessariamente al pettine perché senza il vincolo della convertibilità, sono state stampate dal nulla enormi quantità di dollari. Ciò ha permesso agli Stati Uniti di acquistare tutto quello che volevano nel mondo praticamente gratis. Valery Giscard d’Estaing, quando era ministro delle finanze della Francia negli anni ‘60, coniò il termine ‘esorbitante privilegio del dollaro’ che ben definisce il ruolo del dollaro nel dopo guerra. Le ragioni di questo privilegio sono legate al ruolo di leadership mondiale degli USA, al suo esercito, all’essere diventato la moneta di riserva mondiale, al ruolo del petrolio che doveva essere pagato in dollari, insomma al ‘credito’ che gli States avevano nel resto del mondo.

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lantidiplomatico

Dazi e democrazia

di Carla Filosa

jpeaojvòpsDalle promesse elettorali alle ingiunzioni televisive in mondovisione, Trump ritira provvisoriamente – sembra – i dazi a Messico e Canada. Si pone il problema se sappia, anche rivolto a chi gli suggerisce o stila i suoi proclami, di cosa stia minacciando e soprattutto con quali conseguenze potrebbero avviarsi i prodromi di una guerra commerciale che non si sa contro chi alla fine potrebbe ritorcersi. Anche quotidiani Usa scrivono che una guerra sui dazi è una cosa stupida, che la vittoria non potrà essere di nessuno e che a rimetterci sarà solo il lavoro di base in ogni settore produttivo.

Le ultime notizie poi, danno per cancellati i guadagni ottenuti nel post elezioni (bitcoin), per provocate ritorsioni ai dazi del 25% imposti a Messico, Canada e del 20% a Cina, dando un via inflazionistico dagli esiti incerti, proprio negli Usa. La motivazione eufemisticamente “fittizia”, addotta all’imposizione dei dazi, riguarderebbe il flusso di fentanyl che questi Paesi inviano negli Stati Uniti, cui farebbe seguito l’attacco protezionista provocando un’ulteriore ritorsione senza più fine. L’avvio di questa guerra commerciale, per primo solo con l’alleato canadese, ricorda la favola del lupo e dell’agnello di antica saggezza, nel coraggioso belato di Trudeau per non diventare “mai” il 51° Stato americano.

Il crollo delle borse e il prezzo dei bitcoin che avrebbe dovuto creare una “riserva strategica” di criptovalute negli Usa, segnano un primo risvolto alle risoluzioni di Trump, cui si affiancano i guai alla Tesla e a quelli possibili dei robotaxi e robot del futuro non ancora pronti di E. Musk. Se negli ultimi cinque mesi, in Cina – il più grande mercato del mondo – le vendite delle auto con la T sul cofano sono crollate, come pure la quota di mercato di Tesla in Cina al di sotto del 5%, la cinese BYD di Shenzhen vende a più del 161%.

Per quanto poi concerne l’impatto che le tariffe doganali al 25% in più si avrebbero in Italia dopo il 2 aprile, i settori più colpiti potrebbero essere vini, auto di lusso, yacht e moto, farmaci e componenti elettronici con un costo tra 4 e 7 miliardi di euro (calcolo di Prometeia, istituto di previsioni economiche).

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machina

Ripoliticizzare l'economia

Alcune riflessioni su un libro di Clara E. Mattei

di Francesco Tucci

0e99dc 319eebc264da4640af6fa9b0b73aee8emv2Francesco Tucci riflette su L’economia è politica (Fuori scena, 2023), testo di Clara E. Mattei che si pone il fine, attraverso un’analisi radicale del sistema economico contemporaneo, di ripoliticizzare il modo in cui guardiamo alle relazioni economiche, mettendo a critica il metodo di studio degli economisti mainstream, spiegando come la depoliticizzazione sia stata funzionale sul piano ideologico al mantenimento dell’ordine contemporaneo, discutendo l’incompatibilità tra capitalismo e democrazia.

* * * *

In conclusione alla sezione introduttiva del proprio volume, Clara Mattei dichiara esplicitamente quali siano gli obiettivi intellettuali ma soprattutto politici del proprio scrivere:

Voglio invece chiarire quali sono i meccanismi oppressivi e quali i nemici da combattere. Scrivo queste pagine esplicitamente militanti in opposizione alla tipica maniera distaccata degli economisti. Ciò non significa rinunciare al rigore scientifico nell’indagine. Al contrario, vuol dire rivendicare l’inestricabile posizionamento sociale dell’intellettuale, che non può che essere situato nel mondo e, come ricordava Gramsci, organico alla lotta di classe (Mattei, 2023, pag. 30).

In questo breve passaggio troviamo tutti i temi che animano L’economia è politica, uscito nel novembre 2023 per Fuori Scena. Clara E. Mattei è professoressa associata al Dipartimento di Economia della New School for Social Research, e la sua ricerca nel corso degli anni si è concentrata in particolare sulla relazione tra la filosofia del pensiero economico e le ideologie politiche. Tra i temi sollevati, a mio avviso ne emerge soprattutto uno, che rappresenta indubbiamente la spina dorsale del libro. L’economia è politica è infatti un volume che attraverso un’analisi radicale del sistema economico contemporaneo si pone il fine di ripoliticizzare il modo in cui guardiamo alle relazioni economiche, le percepiamo e ne discutiamo all’interno della società.

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Alti tassi esentasse

di Ascanio Bernardeschi

1024px northeast portland homeless camp tentsL’aumento dei tassi di interesse non è una misura tecnica ma uno strumento politico della lotta di classe per arricchire le banche a scapito dell’economia reale e delle condizioni dei lavoratori. In un Paese in cui non esiste più l’edilizia residenziale pubblica e la mitigazione dei canoni di affitto, anche la questione abitativa viene aggravata con il rischio di mettere sul lastrico i lavoratori che con fatica avevano acquistato la casa.

L’inasprimento dei tassi di interesse praticato sia dalla Federal Reserve negli Stati Uniti che dalla Banca Centrale Europea (Bce) doveva essere funzionale, almeno secondo le motivazioni ufficiali, a contrastare l’inflazione. È noto però che il ricorso a questo strumento, che tende a raffreddare un’economia surriscaldata, è giustificato se l’inflazione è provocata da un eccesso di domanda rispetto all’offerta. Ma nel nostro caso l’inflazione non è determinata dalla troppa euforia dei mercati. Tutt’altro. Durante la fase acuta della pandemia le chiusure avevano determinato colli di bottiglia disorganizzando la produzione, grazie anche alla configurazione frammentata delle filiere produttive. Per quanto riguarda l’Europa, inoltre, si assiste a un inasprimento dei costi quale conseguenza della guerra in Ucraina e delle sanzioni alla Russia che privano il nostro sistema produttivo della possibilità di importare a basso costo materie prime e prodotti energetici dalla Russia. Incide inoltre la speculazione sui futures del petrolio, che assurdamente determinano i prezzi degli energetici. In simili casi l’innalzamento dei tassi certamente riduce la domanda, la quale, viste le difficoltà produttive, viene soddisfatta in buona parte dalle importazioni, e con ciò tende anche a migliorare i conti con l’estero, avendo così un effetto sull’inflazione ma questo beneficio è molto inferiore al danno che si provoca all’apparato produttivo.

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Attraversando il PNRR. Parte III

La formazione della forza lavoro

di Emiliano Gentili, Federico Giusti, Stefano Macera

0e99dc d31ec907253d4e3c8226fcc975afe889mv2La terza parte del dettagliato studio di Emiliano Gentili, Federico Giusti e Stefano Macera sul Pnrr. L’articolo odierno si concentra sulle trasformazioni dell’insegnamento e del sistema scolastico previste dal piano per favorire la formazione di una forza-lavoro che risponda alle esigenze delle imprese.

Parte I - Parte II

* * * *

I. Innovazione, digitalizzazione e formazione della forza lavoro

La formazione dei lavoratori è da tempo uno degli argomenti più dibattuti dalla stampa, che, in un'ottica favorevole agli interessi delle imprese, non perde occasione per magnificare i vantaggi derivanti dalla crescita delle competenze nella forza lavoro. Per essere espliciti potremmo sintetizzare il ragionamento in questi termini: una forza lavoro meglio formata è una condizione imprescindibile per arrivare a una maggiore produttività, ottenendo da ciascun dipendente maggiore efficacia nello svolgimento delle proprie mansioni. In più, essendo spesso un elemento necessario per far sì che un settore dell’economia produttiva progredisca, l’aumento della produttività può consentire alle imprese di stare al passo coi tempi.

A ben vedere, oggi la questione ha assunto maggior rilevanza proprio in relazione a quella trasformazione in atto che si suole indicare con la formula «Industria 4.0». Ora, diversi sono i fattori che hanno portato l’Italia a presentarsi in ritardo a questo appuntamento. Uno di questi è la prevalenza, nel tessuto produttivo, di aziende di piccole e medie dimensioni, tradizionalmente meno propense all’innovazione e dunque poco sensibili all’idea di una formazione continua della manodopera, soprattutto se la stessa avviene a discapito dell'attività produttiva quotidianamente erogata.

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“La guerra e l’oligarchia finanziaria”

Recensione del saggio di Federico Fioranelli

di Ascanio Bernardeschi

Le contraddizioni del modo di produzione capitalistico rendono necessario l’intervento dello Stato, ma le classi dominanti preferiscono la spesa pubblica per la guerra a quella sociale. Nella fase monopolistica del capitalismo si ha l’intreccio fra industria e finanza e la trasformazione delle economie dei paesi occidentali in parassitari e usurai, sorretti dalla potenza militare

9788869247033.jpgFederico Fioranelli è un giovane docente di economia politica, autore di diversi articoli e saggi sia di teoria economica che di analisi delle concrete economie, facente parte del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”.

A fine 2023 ha pubblicato per le edizioni Simple di Macerata il libro La guerra e l’oligarchia finanziaria, che è un’analisi dell’economia di guerra nell’attuale fase di finanziarizzazione dell’economia, un agile volumetto di 94 pagine, inclusa la ricca bibliografia, dalla lettura molto scorrevole.

La tesi da cui parte questo lavoro è che non è stata tanto la spesa civile ma quella militare, in particolare quella degli Usa, che ha consentito di sostenere, tramite il moltiplicatore keynesiano, la domanda e quindi di scongiurare per alcuni decenni la recessione. Questa tesi è sostenuta dopo un excursus essenziale ma illuminante della storia economica degli Usa, mettendo in fila una serie di dati statistici assai utili, che evidenziano la stretta correlazione fra spesa militare e crescita economica.

Fioranelli ci fornisce anche una spiegazione della preferenza per la spesa militare su quella civile, che pure sarebbe ugualmente in grado di attivare il moltiplicatore. Tale preferenza non sta solo nelle ragioni geostrategiche e nella natura imperialistica degli States, ma esiste anche una spiegazione più strettamente economica: mentre la spesa civile sottrae spazio al settore privato, quindi ai profitti, quella militare, attivando le imprese private del comparto, non presenta questo inconveniente. Inoltre la militarizzazione produce “un rispetto cieco per l’autorità” e “una condotta di conformismo e di sottomissione” che rassicura l’oligarchia finanziaria riguardo alla “sua autorità morale” e alla “sua posizione materiale” (p. 50). Ciò spiega perché, dopo la grande crisi del ’29-30, il new deal di Roosevelt abbia incontrato forti resistenze da parte delle classi dominanti e in ragione di ciò sia stato attuato in forma timida e contraddittoria, non producendo i risultati sperati, risultati ottenuti pienamente invece con la corsa agli armamenti a partire dal 1940.

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economiaepolitica

Dai bassi tassi di interesse all’alta spesa militare

Crisi di egemonia e pulsioni belliche degli Stati Uniti d’America

di Aldo Barba, Massimo Pivetti

1709289785001.jpegI. Domanda effettiva e crescita dei consumi delle famiglie

La spesa per consumi personali è stata la componente più dinamica della domanda aggregata negli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni ‘70. Tra il 1951 e il 1980, il suo rapporto con il PIL è stato in media intorno al 58%, per poi crescere costantemente di 10 punti percentuali, stabilizzandosi dal 2003 al livello più elevato di circa il 68%. A partire dall’inizio della seconda metà degli anni ‘70, la crescita sostenuta della spesa per consumi personali ha compensato sia l’andamento sfavorevole della bilancia commerciale, sia il rallentamento dei consumi pubblici e della spesa lorda per investimenti (la crescita degli investimenti privati ​​è rimasta allineata a quella del prodotto, grazie al peso in rapido aumento degli investimenti in prodotti di proprietà intellettuale che ha controbilanciato un marcato rallentamento degli investimenti in strutture e attrezzature non residenziali). Con la crescita della spesa per consumi, il tasso di risparmio personale è sceso dal 15% nel 1975 a meno del 2% nel 2005. Il calo del tasso di risparmio si è verificato nonostante un massiccio spostamento della distribuzione del reddito dai salari ai profitti. A causa dell’influenza del mutamento distributivo sul tasso di risparmio personale, quest’ultimo avrebbe dovuto aumentare, non diminuire. Le ragioni della sua caduta vanno quindi ricercate altrove, ponendole in connessione con la politica di lungo periodo di riduzione dei tassi di interesse.

 

II. Bassi tassi di interesse e distribuzione del reddito

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sbilanciamoci

La trappola dell’efficienza

di Mauro Gallegati, Pier Giorgio Ardeni

La crescita del Pil di oggi è sempre più realizzata a scapito del benessere futuro, e la crisi ecologica è un segno di come il mercato non possa funzionare come regolatore del sistema economico. Un’anticipazione dal libro “La trappola dell’efficienza”

1485415336 sironi paesaggio urbano cam.jpgIl capitalismo ha cambiato il mondo di vivere di gran parte dell’umanità, migliorandone enormemente le condizioni materiali di vita.

Negli ultimi duecento anni, l’aumento del reddito globale e medio – oggi incomparabilmente maggiore di ogni altra epoca – è avvenuto in modo non uniforme per tutti i Paesi e le fasce sociali, beneficiando più alcuni di altri, sistematicamente, provocando una distribuzione delle ricchezze iniqua. L’aumento del reddito non è stato lineare e costante, ma soggetto a variazioni e a crisi che hanno contribuito a esacerbare le disparità. A ciò si aggiunga che lo sviluppo capitalistico industriale ha portato a un degrado ambientale sempre più insostenibile, all’origine della crisi ecologica attuale, di cui il riscaldamento globale è solo un aspetto.

Il nostro benessere, che era parso migliorare a ritmi vertiginosi negli ultimi decenni, ci appare compromesso se guardiamo a come sostenerlo. Vi sono tante storture nella distribuzione, nei meccanismi di funzionamento del sistema, nei presupposti per la sua riproducibilità, che è lo stesso capitalismo ad apparirci giunto a un punto critico. Oggi non siamo più sicuri che esso sarà in grado di produrre ulteriore benessere. Come se una parte del nostro benessere di oggi dovesse essere sacrificato se voglio garantircene uno domani. E ciononostante sembriamo procedere nella stessa direzione, pur consci dei problemi che si prospettano.

Questo libro si occupa di come siamo potuti arrivare a sacrificare il benessere futuro in cambio del Pil di oggi e di come uscirne. Il capitalismo è un sistema economico affermatosi negli ultimi due secoli e mezzo in questa parte del mondo. Un sistema che per consolidarsi ha plasmato la società e la politica, creando un ordine sociale.

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machina

Attraversando il PNRR. Parte II (III)

di Emiliano Gentili, Federico Giusti, Stefano Macera

Schermata del 2024 04 16 16 04 28.pngPubblichiamo la terza puntata della seconda parte dello studio sul PNRR condotto da Emiliano Gentili, Stefano Macera e Federico Giusti. Dopo aver analizzato, nella prima parte, il contesto economico italiano e la strategia perseguita dall’Unione Europea nella programmazione del Piano, nel nuovo articolo, gli autori analizzano l’idea di politica energetica dell’Ue e dell’Italia ed esaminano alcuni investimenti previsti dal PNRR particolarmente significativi per lo sviluppo dell’economia italiana, con particolare riferimento alla filiera dei semiconduttori, dell’idrogeno e della logistica, ai processi di digitalizzazione industriale.

Qui la prima puntata, qui la seconda.

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IV. La digitalizzazione industriale

La Missione 1, Componente 2 del Pnrr italiano vuol dare impulso a processi di digitalizzazione e innovazione industriali, nonché a «un’infrastruttura di reti fisse e mobili ad altissima capacità (Very High Capacity Network)»[1]. Investire per rendere le imprese più tecnologiche sarebbe un inutile sperpero di risorse nel caso in cui il territorio nazionale non offrisse una capacità di connettività sufficiente all’utilizzo ottimale delle nuove tecnologie.

Se da un lato, dunque, questa Componente elargisce soldi pubblici per gli investimenti in tecnologia e in ricerca e sviluppo, supportando poi in maniera più corposa alcuni settori strategici dal punto di vista comunitario[2], dall’altro «include importanti investimenti per garantire la copertura di tutto il territorio con reti a banda ultra-larga (fibra FTTH, FWA e 5G), condizione necessaria per consentire alle imprese di catturare i benefici della digitalizzazione e più in generale per realizzare pienamente l’obiettivo di gigabit society»[3].

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La trappola del debito

di Eugenio Donnici

debito 1220x600.jpgLa questione del debito pubblico e privato, sebbene sia diventata un tabù, pesa come un macigno sulle decisioni di politica economica. Debiti e crediti sono dei pilastri sui quali si regge il modo di produzione capitalistico, ma tali relazioni sociali, anche se in forma rozza, hanno influenzato la vita associata degli individui appartenenti alle città-stato, i regni e gli imperi del mondo antico, quando i loro governanti hanno iniziato a coniare monete o meglio quando gli scambi commerciali, mediati dal denaro, s’imposero, in qualche misura, sul baratto.

Nei rapporti tra debitori e creditori, occorre precisare che affinché un debito possa essere estinto, è necessario, in primo luogo, che esso non sia astronomico, altrimenti si rientra nel circolo vizioso dell’usura, sul quale ritornerei nel procedere del discorso.

Nel mondo antico, stando alle fonti storiche, durante il regno di Hammurabi, re di Babilonia (1792-1750 A.C.) ci furono quattro annullamenti del debito, proprio perché partirono dal presupposto che i sudditi non potevano pagare quelle cifre. Annullamenti del debito avvenivano anche durante il Giubileo per i cristiani e il Torà per gli ebrei. La valenza di una preghiera come il Credo, con la quale i credenti si rivolgono a Dio, racchiude il concetto del “rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Ovviamente, prima che si affermasse il modo di produzione capitalistico, l’annullamento dei debiti era più semplice, in quanto la somma data in prestito non generava l’interesse o quantomeno non si applicava la legge dell’interesse composto. Con lo sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici, dapprima in Inghilterra, come ci ricorda Marx, il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria.

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machina

Attraversando il PNRR. Parte II (II)

Politiche energetiche e filiere produttive

di Emiliano Gentili, Federico Giusti, Stefano Macera

0a99dc 82f6e650afc84fceb84123596b75c34fmv2Pubblichiamo la seconda parte dello studio sul PNRR condotto da Emiliano Gentili, Stefano Macera e Federico Giusti. Dopo aver analizzato il contesto economico italiano e la strategia perseguita dall’Unione Europea nella programmazione del Piano, nel nuovo articolo, gli autori analizzano l’idea di politica energetica dell’Ue e dell’Italia ed esaminano alcuni investimenti previsti dal PNRR particolarmente significativi per lo sviluppo dell’economia italiana, con particolare riferimento alla filiera dei semiconduttori e dell’idrogeno.

Qui la prima parte.

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III. La filiera dell’idrogeno

La Missione 2, Componente 2, Sottocomponente 3 del nostro Pnrr punta a creare e rafforzare un comparto industriale italiano per la produzione, la distribuzione e l’utilizzo dell’idrogeno come risorsa energetica alternativa. Al suo interno, una buona quantità di fondi viene destinata allo sviluppo dell’idrogeno per applicazioni industriali (soprattutto chimica e raffinazione petrolifera). Al di là delle ragioni economiche di un simile orientamento tale scelta riflette il fatto che gli impianti produttivi che già utilizzano idrogeno sono più facilmente integrabili all’interno della filiera dell’idrogeno inteso come vettore energetico: l’utilizzo di questo gas per produrre ammoniaca, ad esempio, consente di trasportarlo all’interno del composto ammoniaco, rendendolo molto più «stabile» e facile da controllare, e abbassando i costi del trasporto logistico.

L’Investimento 5.2, infine, prevede «l'installazione in Italia di circa 5 GW di capacità di elettrolisi [uno dei procedimenti per produrre idrogeno] entro il 2030 (…) [e] lo sviluppo di ulteriori tecnologie necessarie per sostenere l’utilizzo finale dell'idrogeno (es. celle a combustibile per autocarri)»[1].

Cosa sono, però, l’idrogeno e la sua filiera? E che importanza possono avere in relazione allo sviluppo economico e alla riduzione dell’impatto ambientale del capitalismo?

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Salario minimo? Timeo Danaos et dona ferentes

di Carlo Formenti

Marchiodoc Giuseppe Di Vittorio.jpgL’Italia è l’unico Paese europeo che abbia registrato una contrazione dei salari reali nel trentennio 1990-2020; è anche il Paese che vanta il poco invidiabile record di una percentuale a due cifre di working poor (nel 2019 i lavoratori in condizioni di povertà erano l'11,8% del totale); è infine il Paese in cui i lavoratori che percepiscono una retribuzione oraria inferiore agli otto euro e mezzo l'ora sono più di un milione (1,3). Non sono forse tre buone ragioni per fissare un salario minimo legale, provvedimento che ci viene fra l’altro sollecitato dall'Europa? Savino Balzano, sindacalista pugliese (di Cerignola, città natale di Di Vittorio, precisa orgogliosamente) già autore di libri (1) sulle problematiche del lavoro e collaboratore de La Fionda, non è convinto che questa sarebbe la soluzione giusta per migliorare le condizioni di una delle classi lavoratrici più tartassate del mondo occidentale, e spiega le ragioni di tale opinione in un pamphlet dal titolo Il salario minimo non vi salverà, appena uscito da Fazi Editore.

Il salario minimo, sostiene, potrebbe essere l'ultima di una lunga serie di trappole che, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, hanno collaborato a ridurre progressivamente il potere contrattuale dei lavoratori italiani, fino a ridurlo praticamente a zero. Descrivendo le tappe di questa via crucis, l'autore prende le mosse da Luciano Lama, la vestale del moderatismo sindacale che, con parole degne di Menenio Agrippa, spiegò agli operai che l'impasse del lungo ciclo di lotte del decennio 60/70 era l'inevitabile esito di una stagione di rivendicazioni "estremiste", alimentate dall'illusione di fare del salario una variabile indipendente. Purtroppo, ammoniva Lama, appellandosi alle "leggi" dell'economia canonizzate dagli esperti al servizio della Confindustria, il capitalismo conosce una sola variabile indipendente, vale a dire quel profitto che, ove costretto a scendere al di sotto di un "ragionevole" minimo, provoca crisi, disinvestimenti, chiusure di imprese, licenziamenti.

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machina

Attraversando il PNRR. Parte II: politiche energetiche e filiere produttive (I)

di Emiliano Gentili, Federico Giusti e Stefano Macera

Schermata del 2024 03 25 18 01 20.pngPubblichiamo la seconda parte dello studio sul PNRR condotto da Emiliano Gentili, Stefano Macera e Federico Giusti. Dopo aver analizzato il contesto economico italiano e la strategia perseguita dall’Unione Europea nella programmazione del Piano, nel nuovo articolo, gli autori analizzano l’idea di politica energetica dell’Ue e dell’Italia ed esaminano alcuni investimenti previsti dal PNRR particolarmente significativi per lo sviluppo dell’economia italiana, con particolare riferimento alla filiera dei semiconduttori e dell’idrogeno.

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I. Articolazione del Piano e REPowerEU

Missioni, componenti e investimenti

Il Pnrr si articola attorno ad alcuni percorsi di sviluppo settoriali denominati «Missioni». In un certo senso potremmo farli corrispondere ai Programs europei (v. Parte I, Par. II, La strategia della Commissione Europea), solo che le Missioni sono declinate su scala nazionale. Ogni Missione è a sua volta suddivisa in Componenti, per cui ad esempio la Missione 1, Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo, è composta da: Digitalizzazione, innovazione e sicurezza nella PA; Digitalizzazione, innovazione e competitività nel sistema produttivo; Turismo e cultura 4.0. A voler essere precisi, poi, le Componenti sono a loro volta ripartite in «sotto-componenti». I fondi vengono assegnati «a pacchetti», denominati «Investimenti»[1], che costituiscono una sorta di suddivisione ulteriore di queste sotto-componenti. Ad esempio, la citata Componente 1 della Missione 1 riporta tre sotto-componenti (Digitalizzazione PA; Innovazione PA; Innovazione organizzativa del sistema giudiziario), all’interno delle quali trovano posto ben sette Investimenti differenti (quali «Digitalizzazione delle grandi amministrazioni centrali» o «Processo di acquisto ICT»).