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Globalizzazione: come la sicurezza informatica cambia la geografia della supply chain digitale
La catena delle forniture digitali nell’era post-globale.
di Giuseppe Sperti
L’intreccio tra tecnologia e geopolitica sta trasformando radicalmente la catena delle forniture digitali. Dalla rimozione dei componenti Huawei in Germania al ripristino della produzione di chip negli Stati Uniti, i governi stanno riscrivendo le regole della globalizzazione alla luce dei rischi cibernetici. Compromissioni, spionaggio e guerre ibride hanno fatto della fiducia tecnologica una nuova questione geopolitica. Perché in un mondo dove ogni microchip può diventare un’arma, la sicurezza impone filiere affidabili, trasparenti e strategicamente allineate
Entro il 2026, gli operatori di telecomunicazioni tedeschi dovranno rimuovere dalle loro reti i componenti 5G forniti da aziende cinesi, come Huawei e Zte. Questo piano, disposto nel luglio 2024, deriva dalla crescente consapevolezza che la tecnologia non può più essere considerata neutrale.
In tempi di crescente tensione geopolitica, i governi si stanno rendendo conto che i chip non sono solo dispositivi elettronici e progettazione avanzata: possono anche essere strumenti di controllo e spionaggio, talora perfino di guerra. Ogni passaggio della catena di fornitura può essere intercettato e compromesso.
Il caso tedesco simboleggia una profonda trasformazione della supply chain digitale. Le forniture di tecnologia, un tempo considerate solo sotto la prospettiva economica, si stanno riconfigurando in linea con le esigenze strategiche dei governi. E vengono valutate anche sotto un profilo geopolitico.
Per anni la globalizzazione ha prosperato sull’assunto che l’efficienza economica e l’interdipendenza avrebbero garantito stabilità e crescita. Ma, nel nuovo scenario geopolitico, questo modello si sta sgretolando. Sotto il peso di una minaccia, silenziosa ma sempre più centrale: la compromissione della supply chain tecnologica.
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Picconate sulla globalizzazione
di Roberto Iannuzzi
Colpendo economicamente Russia e Cina, gli USA sembrano determinati a smantellare l’attuale ordine globalizzato pur di preservare la propria residua egemonia
La persuasione che la competizione fra grandi potenze sia un gioco a somma zero ispira le scelte dell’élite politica americana e della componente atlantista di quella europea.
In base a questa visione, gli Stati Uniti e i loro alleati nel vecchio continente (in posizione molto subordinata, a dir la verità) devono compiere ogni sforzo per preservare l’egemonia americana e occidentale su un mondo sempre più insofferente ai diktat di Washington.
Questa sfida, vista come esistenziale, giustifica agli occhi della classe politica occidentale il ricorso a ogni mezzo, dall’ambito militare a quello economico.
Se nel campo militare abbiamo visto che USA e alleati europei sono disposti a rischiare una pericolosa escalation con Mosca pur di “dissanguare” la Russia in Ucraina, la guerra senza quartiere contro gli “avversari designati” dell’Occidente (Russia e Cina, in primo luogo) non può non coinvolgere anche la sfera economica.
La globalizzazione è un sistema ingiusto, fondato sullo sfruttamento della manodopera e delle materie prime dei paesi più poveri, che però ha anche minimizzato i costi di produzione, e dato lavoro a milioni di persone sollevandole dalla povertà assoluta.
Semplificando, essa è stata storicamente fondata su due poli: la Cina, la cosiddetta “fabbrica del mondo”, e gli Stati Uniti, il centro del sistema finanziario globale e il mercato di consumo di ultima istanza.
Ritrovandosi incapaci di competere in questo sistema da essi stessi creato, gli USA hanno deciso di smantellarlo, invece di correggerne gli squilibri. Unico obiettivo dell’élite americana è preservare l’egemonia di Washington. A qualunque costo.
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Origine e sviluppi della globalizzazione neoliberista
di Francesca Simi*
Dalla fine di Bretton Woods all’attuale rivalità Usa-Cina: evoluzione geoeconomica e disuguaglianze globali. Attività effettuata nell’ambito del progetto Contemporanea… mente.
L’origine della globalizzazione
La genesi del processo di globalizzazione viene ricondotta da autorevoli economisti, come il prof. Bruno Amoroso, al 15 agosto 1971 quando il presidente statunitense Nixon, a causa delle corpose spese della guerra in Vietnam, dichiarò la fine della convertibilità del dollaro in oro e dei cambi fissi fra le valute, stabiliti negli accordi di Bretton Woods del 1944. Questi ultimi avevano come terzo pilastro fondante la centralità del dollaro come moneta di riferimento degli scambi internazionali. Questi accordi avevano stabilito le regole della nuova fase economica e finanziaria che si sarebbe aperta dopo la Seconda guerra mondiale.
La possibilità per la Federal Reserve di poter stampare moneta per coprire le spese di bilancio senza vincoli rispetto alle riserve auree possedute, creò le condizioni affinché il sistema finanziario mondiale venisse inondato da una grandissima quantità di dollari, soprattutto dopo la crisi petrolifera del 1973. Infatti, l’impennata di 3 volte e mezzo del costo del greggio, essendo quest’ultimo quotato in dollari, aumentò copiosamente la richiesta e l’emissione di biglietti verdi legati al petrolio che, per questo, vennero definiti petrodollari.
Così, i soggetti istituzionali, come governi, banche e fondi d’investimento, che possedevano o avevano in deposito ingenti quantità di dollari, iniziarono a fare pressione affinché venissero tolte le barriere alla libera circolazione dei capitali, come in effetti avvenuto negli anni successivi. Questo possiamo definirlo come il fenomeno che ha innescato la globalizzazione nel settore finanziario.
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Globalizzazione delle disuguaglianze e delle ingiustizie
di Michele Blanco*
Negli anni Ottanta del secolo scorso si descriveva il futuro prossimo della globalizzazione come di una età di crescita del benessere diffuso per tutta l’umanità, in tutti i paesi del mondo, ma «Oggi, invece, la crescente disuguaglianza non ha prodotto alcun conflitto di classe che minacci il sistema capitalistico, e ciò sebbene nelle economie avanzate questa si sia accompagnata con la deindustrializzazione e la schiavitù del debito.
È in questo contesto politico che una nuova generazione di miliardari ha abbracciato la filantropia. … non si può più fare affidamento sullo Stato per affrontare le ingiustizie sociali e le povertà. Al contrario la società si rivolge alle briciole filantropiche che cadono dalla tavola del padrone; bruscolini che cadono solamente lì dove i super ricchi decidono di farli cadere … ma guardando bene, esso appare un disegno complesso, volto a garantire che il sistema che ha generato le diseguaglianze, per le quali la filantropia è un unguento, permanga del tutto invariato», in Carl Rhodes, Capitalismo woke. Come la moralità aziendale minaccia la democrazia, Roma, Fazi, 2023, pp. 251 e 254.
La globalizzazione oggi è certamente e identificata come causa di ingiustizie e tensioni sociali. Nel mondo contemporaneo possiamo parlare di tanti tipi di disuguaglianze, ma certamente, da un punto di vista economico, si può parlare della disuguaglianza tra tenori di vita, distinguendo fondamentalmente tra due tipi di tali disuguaglianze, quella mondiale (tra le nazioni) e quella all’interno delle singole nazioni. Quando si dice ad esempio che il 10% più povero ha un tenore di vita pari a un decimo del 10% dei più ricchi ovviamente non ha lo stesso significato in India e in Svizzera. Conviene allora aggiungere una regola generale quando si valuta la disuguaglianza: stabilire una soglia assoluta di povertà e il valore più utilizzato oggi è quello di circa un euro al giorno pro capite.
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L'accordo per conferire all'OMS l’autorità di dettare le politiche pandemiche globali
di Kevin Stocklin
Sul sito The Epoch Times un articolo che spiega i gravi pericoli insiti nell'accordo, in via di attuazione accelerata entro il 2024, attraverso il quale i governi degli stati aderenti dovrebbero attribuire ad un organismo internazionale come l'OMS il potere di determinare le politiche sanitarie globali, ossia quelle politiche fortemente restrittive delle libertà che i governi non riescono più ad imporre in casa propria. L'aspetto forse più grottesco sta nel progetto di controllo globale sulla 'disinformazione' che rischia di mettere in discussione le verità ufficiali di volta in volta consacrate. Un vero e proprio Ministero della Verità a livello globale.
* * * *
L'amministrazione Biden si sta preparando a firmare un accordo "giuridicamente vincolante" con l'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) che, secondo gli esperti, darebbe all'agenzia sanitaria delle Nazioni Unite con sede a Ginevra l'autorità di dettare la politica sanitaria americana durante una pandemia.
Nonostante le diffuse critiche alla risposta da parte dell'OMS alla pandemia COVID, a settembre 2022 il segretario alla salute e ai servizi umani degli Stati Uniti Xavier Becerra ha partecipato a un incontro col direttore generale dell'OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus per annunciare "il Dialogo Strategico USA-OMS". Insieme, hanno sviluppato una "piattaforma per massimizzare la partnership di lunga data USA-OMS e per proteggere e promuovere la salute di tutte le persone in tutto il mondo, compreso il popolo americano".
Queste discussioni e altre hanno dato vita a una "bozza zero" (pdf) di un trattato sulle pandemie, pubblicata il 1° febbraio, che avrà poi bisogno della ratifica da parte di tutti i 194 stati membri dell'OMS.
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La Coscienza di Davos
di Fulvio Bellini
Per un’analisi del World Economic Forum 2023 tenutosi a Davos, Svizzera, dal 17 al 21 gennaio scorsi
Premessa necessaria
Si è recentemente concluso il World Economic Forum 2023 a Davos, in Svizzera e più precisamente nel triangolo dei ricchi del mondo che si trova nel cantone dei Grigioni ed è formato da Saint Moritz, Chur (Coira in Italiano) e Davos appunto che si è tenuto dal 17 al 21 gennaio scorsi. Mai come quest’anno è opportuno sondare con attenzione quanto accaduto nella riunione del Gotha del capitalismo globalizzato perché mai come quest’anno non si è trattato della riunione del capitalismo globalizzato. Come al solito, il punto di vista di osservatori ed opinionisti italiani è stato quanto mai sciatto e provinciale. Si passa dal considerare il World Economic Forum (WEF) come una versione montana dell’annuale forum Ambrosetti di Villa d’Este a Cernobbio, fino ad arrivare alla denuncia del forum svizzero come il congresso dei ricchi e dei privilegiati del mondo che passano il tempo a pensare come diventare sempre più ricchi (si veda ad esempio la crociata di Byoblu: “World Economic Forum è slegato dalla realtà” oppure il perentorio “Davos non esiste”). A mio avviso non è il modo corretto di approcciarsi al Forum di Davos, il quale non ha nulla a che fare con la riunione di Cernobbio perché sulle rive del lago di Como gli “imprenditori italiani solitamente pigolano di fronte alla politica per ottenere l’ennesima razione di denaro oppure di sgravi fiscali in nome della crescita, per poi decrescere puntualmente; non è a Davos che i ricchi pensano come arricchirsi, perché già lo fanno altrove per i restanti giorni dell’anno.
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Trattato sulle pandemie: quella bozza zero scritta con la penna di Schwab
di Gavino Piga
Tutto è pronto per trasformare l’OMS in un pezzo del nuovo governo mondiale. Nella bozza zero del nuovo Trattato Internazionale sulle Pandemie, combinata alle proposte di revisione del Regolamento Sanitario Internazionale del 2005, c’è tutto: il nuovo ruolo dell’organizzazione più controversa e fallimentare del momento, nuove misure contro la “disinformazione”, una rete logistica permanente per la distribuzione di vaccini, la condivisione con il privato della sfera decisionale pubblica. E c’è l’idea che la fase in cui viviamo è solo un momento inter-pandemico: il definitivo affermarsi del criterio tecnosanitario per misurare la storia. Così, alla scuola di Davos, l’OMS si avvia a diventare un presidio del futuro regime globale.
* * * *
In settimana cominceranno i negoziati sulla “bozza zero” del Trattato sulle Pandemie: lo ha annunciato Tedros Ghebreyesus in data 22 febbraio, ma i media per ora non spingono troppo sul pedale: l’importante è che tutto vada secondo i piani, almeno per quanto concerne la lunga marcia digital-sanitaria verso il “new normal”, che in questa fase procede più spedita se in modalità silenziosa.
Del resto, che la cupola finanziaria (quella che ogni anno bivacca a Davos) non avesse intenzione di deflettere dalla propria agenda era cosa nota. Lo spettacolino svizzero dello scorso gennaio – fra finti scoop, first ladies, palchi scintillanti, manipoli di gretini in fervorosa protesta e resilienze varie – qualche messaggio lo aveva fatto filtrare.
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Globalizzazione addio. Ormai è un coro…
di Francesco Piccioni, Guido Salerno Aletta*, Andrea Indini**
Sul fatto che il periodo della cosiddetta globalizzazione sia finito sembra ormai che ci sia un consenso generale. Ma quando si passa dalla constatazione in termini generali, o teorici, agli aspetti concretamente materiali i problemi escono fuori a decine. E tutti di dimensioni “sistemiche”. Ossia, enormi…
In questo articolo vi presentiamo due contributi molto diversi, per contenuto e impostazione, che però convergono nel delineare una situazione economica – per l’Occidente neoliberista – che si va facendo insostenibile. Ma che è stata costruita e preparata proprio dalle scelte compiute dai capitali vincenti, negli ultimi 30 anni.
Ossia dalle multinazionali e dal capitale finanziario “occidentale” (o “euro-atlantico”, come preferiva dire uno dei suoi principali esponenti, mr. Mario Draghi).
Il sempre attento Guido Salerno Aletta, su TeleBorsa, rimette con i piedi per terra l’analisi da fare sulla “rottura” della globalizzazione. Niente geopolitica, che pure ha il suo ruolo, ma ridefinizione delle “catene del valore” a livello mondiale, a cavallo della pandemia da Covid – che le ha pesantemente interrotte e perturbate – e della improcrastinabile “transizione tecnologica” verso una produzione meno devastante in termini ambientali.
“Eravamo abituati così nella manifattura: i bassi costi delle materie prime e delle forniture intermedie consentivano di concentrare la maggior parte del valore aggiunto e quindi dei profitti nell’ultima fase di integrazione dei prodotti, quella che si interfaccia con il consumatore.
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La distopia globalista di Davos
di Thomas Fazi
Sul sito Unherd una interessante analisi di Thomas Fazi sulla filosofia di base di questa organizzazione, che può essere considerata un emblema quasi caricaturale delle istituzioni globaliste: l'obiettivo è scindere la politica dal processo democratico e il mezzo per garantirne il successo è l'infiltrazione nelle istituzioni statali e internazionali. Aldilà di ogni complottismo, perché tutto è dichiarato in maniera aperta
Migliaia di membri dell’élite mondiale si sono riunite in questi giorni a Davos per il loro più importante raduno annuale: l’incontro del World Economic Forum (WEF). Accanto ai capi di Stato di tutto il mondo, sono discesi nella capitale svizzera, tra gli altri, gli amministratori delegati di Amazon, BlackRock, JPMorgan Chase, Pfizer e Moderna, come anche la presidente della Commissione europea, la direttrice operative del FMI, il segretario generale della Nato, i vertici dell’FBI e del MI6, l’editore del New York Times e, naturalmente, il famigerato “Cicerone” dell’evento, il fondatore e presidente del WEF, Klaus Schwab. Fino a 5.000 soldati sono stati mobilitati a protezione dell’evento.
Data la natura elitaria quasi caricaturale di questo “festival”, è naturale che l’organizzazione sia diventata oggetto di ogni sorta di teoria del complotto riguardo al suo presunto intento malevolo e alla sua “agenda segreta” legata al cosiddetto “Grande Reset”. In verità, non c’è nulla di cospiratorio nel WEF, nella misura in cui le cospirazioni implicano segretezza. Al contrario, il WEF – a differenza, ad esempio, del Bilderberg Group – è molto aperto sulla sua agenda: si possono persino seguire le sessioni in streaming online.
Fondato nel 1971 dallo stesso Schwab, il WEF è “impegnato a migliorare lo stato del mondo attraverso la cooperazione pubblico-privata”, nota anche come “governance multistakeholder”. L’idea è che il processo decisionale globale non dovrebbe essere lasciato ai governi e agli Stati-nazione — come nel quadro multilateralista del dopoguerra sancito dalle Nazioni Unite — ma dovrebbe coinvolgere un’intera gamma di “stakeholder”, o parti interessate, non governative: organismi della società civile, esperti accademici, personaggi dei media e, soprattutto, multinazionali.
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Dove va la globalizzazione?
di Raffaele Sciortino
Machina ha già pubblicato (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/introduzione-a-stati-uniti-e-cina-allo-scontro-globale) l’Introduzione del nuovo volume di Raffaele Sciortino, «Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenze» (Asterios, 2022), che segue di qualche anno il precedente «I dieci anni che sconvolsero il mondo» (Asterios, 2019), testo che inquadrava il «momento populista» del decennio seguito alla crisi del 2008 nella dinamica intrecciata del mercato mondiale, degli assetti geopolitici e dei rapporti di classe. La medesima prospettiva sistemica, che caratterizza i lavori di Sciortino, è qui «applicata» alle trasformazioni del capitalismo globale che ha il suo asse fondante nel rapporto asimmetrico tra Usa e Cina, non visto limitatamente come relazione o scontro tra potenze, ma come perno degli assetti capitalistici dispiegati su scala planetaria degli ultimi decenni.
Transuenze pubblica oggi un secondo estratto di questa pubblicazione, un paragrafo contenuto nella prima parte del volume, intitolato «Dove va la globalizzazione?», a fini espositivi qui proposto (con il consenso dell’autore) in versione lievemente ridotta e con alcune soluzioni editoriali non presenti nell’originale. Fermo restando l’intento prioritario di invito alla lettura integrale del volume, la pubblicazione di questo paragrafo, che nello schema del libro fornisce una descrizione analitica dello scenario, di «servizio» agli argomenti centrali, discende dai temi affrontati, questioni ricorrenti anche di questa sezione della rivista. Sciortino colloca in una prospettiva di medio periodo, attraverso una sintetica ma rigorosa selezione di dati ricavati da fonti pro sistema, lo stato della globalizzazione, da egli intesa anzitutto «come stadio del processo di affermazione del mercato mondiale come unità di produzione e circolazione internazionalizzate» da cui è dunque difficile tornare indietro, nonostante gli smottamenti in corso. Il mutamento della scena, rispetto alla fase ascendente della globalizzazione (e dei rapporti tra Usa e Cina), è spinto in questa visione dalla crisi dell’accumulazione di capitale, ufficialmente apertasi a ridosso del 2008.
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La regionalizzazione della globalizzazione
di Alfonso Gianni
Non è infrequente che la sinistra, che conveniamo chiamare d’alternativa, cada spesso vittima delle proprie analisi, anche di quelle giuste, e delle conseguenti definizioni. Il che è un sintomo di una certa staticità di capacità analitica, di una fissità intellettuale che inibiscono la possibilità di cogliere, ancor più di prevedere, i cambiamenti in atto. Con la conseguenza di trovarsi sempre un poco in ritardo, fuori tempo e spiazzati rispetto alle modificazioni in atto a livello internazionale e interno, come sul terreno politico ed economico, istituzionale e sociale. Ed è chiaro che si tratta di una constatazione in primo luogo autocritica.
Un caso classico è rappresentato dal termine globalizzazione e ciò che esso sottende e intende. Già prima della grande crisi economico-finanziaria che prese le mosse dallo scoppio della bolla dei subprime nell’estate del 2007 negli USA, si potevano cogliere elementi concreti che indicavano come l’espansione di quell’insieme di processi economici e produttivi che afferivano alla globalizzazione, incontrava degli ostacoli, battute d’arresto e inversioni di marcia. Il sopraggiungere della crisi pandemica e poi della guerra in Europa ha ulteriormente accentuato quelle tendenze, tanto che oggi parlare di deglobalizzazione – un termine, come vedremo, troppo riassuntivo rispetto alla complessità dei processi in corso e quindi generico – non stupisce quasi nessuno.
Certamente la “globalizzazione non è finita” come ribadisce Moises Naim (la Repubblica, 10 ottobre 2022), ma sicuramente non è la stessa che abbiamo conosciuto negli ultimi lustri del secolo scorso.
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Il mondo rovesciato
di Alessandro Visalli
Fino a ieri, sicuri che il ‘dolce commercio’[1] avrebbe portato con sé attraverso la spinta interna del consumo l'allineamento del mondo agli standard dell'occidente e garantito quindi il relativo dominio di fatto, erano i paesi guida anglosassoni (e gli Usa in primis) a spingere sull’interconnessione. L’idea era anche di considerare la “modernizzazione”[2] compiuta storicamente, ed in innumerevoli conflitti, dalle società europee nel torno di anni tra il XV ed il XIX secolo come una “tappa”[3], storicamente necessaria, dei “progressi”[4] della “Ragione”[5] che porta con sé il necessario -biunivocamente connesso- sviluppo delle forze produttive. Nessuno sviluppo autentico è possibile, né civile e morale, né produttivo autosostenuto, senza che si aderisca a questo movimento ineluttabile e progressivo, irreversibile, scritto nella “Storia”[6], e del quale l’Occidente rappresenta il modello e l’alfiere. Questa costellazione di idee, nelle quali è incorporata la mente di ogni “buon” cittadino occidentale, democratico e progressista, sicuro della propria superiorità e del destino manifesto che aspetta il mondo intero quando lo riconosca, è sfidata dalla direzione che stanno prendendo i fatti.
Le ultime tre presidenze statunitensi hanno progressivamente invertito di fatto le prescrizioni di questa visione, accorgendosi crescentemente che non accadeva quanto previsto dagli scheletrici modelli ideologici settecenteschi (per certi versi cinque-seicenteschi) inconsapevolmente attardati nella mente collettiva delle élite. Ed allora hanno virato sul confronto diretto, ideologico (la lotta “democrazia/autocrazia”[7]) ed economico (sanzioni e reshoring delle produzioni critiche[8]), ora anche militare[9] (che nella tradizione occidentale è sempre stata la prima istanza).
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Cronache della nuova globalizzazione
di Vincenzo Comito
Biden sta cercando di stringere patti economici e commerciali che escludono la Cina, sia nell’area dell’indo-pacifico che in America Latina in una logica a blocchi contrapposti. L’Ue cerca di fare altrettanto nei Balcani. Ma le interrelazioni sono tali e tante che la separazione non sarà mai netta
Un quadro in movimento
Alcune vicende recenti sembrano per molti commentatori segnare la crisi, se non la fine, della globalizzazione: da una parte le sempre più pressanti e ormai quasi parossistiche iniziative statunitensi per cercare di frenare l’ascesa economica, finanziaria, tecnologica, militare, politica della Cina, dall’altra lo scoppio della guerra in Ucraina con il corredo di sanzioni da parte occidentale e i problemi che ne derivano a livello mondiale, infine la stessa rigida gestione del Covid da parte di Pechino. A questo ultimo proposito è stato anche coniato il termine di “deglobalizzazione” dopo quello di reshoring, che sta a significare il ritorno in patria o nei paesi più vicini o più amici degli insediamenti produttivi e delle catene di fornitura che erano stati prima portati soprattutto in Asia, fenomeno che ha caratterizzato il mondo per molti decenni. Ma il senso e lo sbocco delle vicende in atto sembrano piuttosto complicati ed aperti a diversi scenari.
Come è noto, Donald Trump aveva a suo tempo posto dei dazi su molte merci cinesi, bloccato l’esportazione di prodotti e tecnologie nel campo dei chip, aveva chiesto alle imprese americane di chiudere i loro impianti in Cina. Si era parlato più in generale di un decoupling (scollegamento) degli Stati Uniti – e possibilmente di altri importanti attori occidentali – dalla Cina.
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Ucraina, 2022: la fine dell’Europa e della globalizzazione
di Pier Giorgio Ardeni
Voci sparse emergono dall’assordante barrage bellicista a reclamare la pace, il “cessate il fuoco”. Nell’imperiosa richiesta di prendere parte pare di dover fare ammenda, ricordarci che, sì, siamo figli di partigiani che “non avrebbero mai accettato di arrendersi, nemmeno al prezzo della loro vita”. Perché “ora la guerra è qui, nel cuore dell’Europa”, non in qualche remoto angolo di mondo dove si ammazzano con cannoni made in Italy, perché è una guerra “a difesa della democrazia” e, quindi, “dobbiamo fare qualcosa, non possiamo stare con le mani in mano e assistere al massacro”.
Ma il mondo occidentale, ce lo ricorda Slavoj Žižek, “stands for nothing”, si batte per il niente che nemmeno la sua ipocrisia sa nascondere. Fingendo di non sapere che la “lumpen-borghesia” che è emersa nelle ex-repubbliche sovietiche – in Russia come in Ucraina – controlla i capitali grazie alle privatizzazioni dei beni statali, ottenuti perlopiù da ex-gerarchi del partito dopo il crollo e grazie alla terapia-shock del passaggio all’economia di mercato. Da noi voluta e sulla quale anche noi abbiamo lucrato (ma il mercato non è “morale”, no?).
In tutti questi anni abbiamo fatto lauti affari con quelli, da una parte e dall’altra del lungo confine russo-ucraino sulle pianure sarmatiche. Ci abbiamo comprato non solo gas e petrolio, ma grani e fertilizzanti. L’Ucraina è un paese che dopo lo smembramento dell’Urss ha perso un quarto della popolazione, con un reddito medio che è un quarto di quello UE, popolato secondo linee di demarcazione storiche: nelle province (oblast) orientali, a maggioranza russa e russofona, in quelle occidentali con grosse minoranze polacche o rumene.
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Disconnessioni e fìne del sistema-mondo occidentale
Circa il rapporto della Banca di Russia alla Duma
di Alessandro Visalli
Mentre il lockdown di Shangai crea un ciclopico ingorgo di navi mercantili davanti alla città e interrompe ulteriormente le catene di approvvigionamento globali, con colli di bottiglia che per il Frankfurter Allgemeine[1] inducono riduzioni di oltre il 40% e si faranno sentire fino in Germania, la Bundesbank[2] stima che l’embargo totale dell’energia la farebbe precipitare in recessione già quest’anno. Si stima una riduzione del Pil del 2% ed effetti trascinati per i due anni successivi. Inoltre, un incremento di lungo periodo del tasso di inflazione. In una intervista il Cancelliere tedesco ha inoltre spiegato per quale motivo non consegnerà armi pesanti e ritiene che l’embargo al gas russo non sia utile a fermare la guerra, e comunque non vada fatto.
Spostiamoci, la Banca di Russia ha presentato alla Duma il suo Rapporto 2021 e il suo Presidente, Elvira Nabiullina, che è stata confermata alla guida dell’ente, ha spiegato che il Pil è cresciuto nell’anno del Covid del 4,7% con un livello di disoccupazione ai minimi storici. Inoltre, nel 2021 i prestiti alle imprese sono cresciuti del 21%, i mutui del 30% e i prestiti al dettaglio del 20%. La Izvestia racconta[3] che la Nabiullina si è soffermata in particolare sulle misure assunte nel 2022 per contrastare le sanzioni occidentali. A febbraio/marzo la Banca centrale ha infatti alzato il tasso al 20% allo scopo di preservare la liquidità delle banche e ha sviluppato un corrispondente allentamento normativo. La Presidente ha spiegato che presenza di riserve in dollari ed euro, presso istituti europei, per 300 miliardi era necessaria per avere un termine di stabilizzazione in caso di crisi nazionale, ciò le ha rese attaccabili; tuttavia già dal 2014 la diversificazione delle riserve in moneta estera era andata avanti. La quota del dollaro Usa era scesa ad un quarto, mentre la quota di oro era salita di due volte e mezzo e quella di yuan al 17%.
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