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La borghesia agguerrita fa bollire la rana
di Umberto Franchi
Giustizia sociale di classe, economia in declino, leggi liberticide: in Italia il disastro sociale ed economico viene da lontano
Oggi in Italia siamo in presenza di una economia sempre più finanziarizzata e globalizzata, attraverso la mobilità delle merci, dei capitali e del lavoro, con un aumento esponenziale della finanziarizzazione dei capitali, nonché della mobilità delle informazioni, attraverso i flussi della tecnica informatica.
Non esiste più un ruolo di intervento programmatico dello Stato, le classi borghesi, riescono a imporre il proprio modello a ogni altro flusso sociale e di sviluppo alternativo, con un padronato sempre più agguerrito che cerca di fare profitti sia riducendo in continuazione il costo del lavoro, sia con la speculazione finanziaria, senza rischiare di investire i propri capitali in attività economiche di alto profilo.
E’ cambiata anche la realtà sia nella comunicazione pubblica, che nelle relazioni private… sia nello studio, nel tempo libero, nelle attività riproduttive, sui social, nelle attività commerciali, nella produzione.
E’ stato instaurato un meccanismo sempre più alienante ma capace di carpire anche il consenso di vasti strati di giovani e ceti subordinati.
La realtà sociale e politica è disastrosa a livello di massa, ma non viene ancora percepita come tale… anzi sembra che il popolo stia facendo la fine della “rana bollita” abituandosi gradualmente ad accettare tutto, iniziando a diventare lesso.
La realtà sociale di oggi che viene bene evidenziata dai dati elaborati da ILO e INPS. Ed è questa:
- I salari e le pensioni sono diminuiti del 15% negli ultimi 10 anni e addirittura del 3% rispetto al 1990, collocando i lavoratori italiani all’ultimo posto in Europa;
- In Italia non esiste un salario minimo e milioni di lavoratori sono obbligati a lavorare con “contratti pirata” e paghe inferiori a 5 euro l’ora lordi e 6,5 milioni di famiglie sono in povertà assoluta;
- In Italia il 37% di tutti i pensionati percepiscono pensioni inferiori a 1000 euro al mese;
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Italia: una società anziana, malata e sempre più diseguale
di Redazione
Due recenti rapporti ci offrono un affresco delle condizioni in cui versa la società italiana, disegnando uno scenario di forti diseguaglianze, frammentazione sociale e crisi demografica.
Lo stato dell’economia
Secondo il rapporto annuale dell’Istat “l’Italia ha mantenuto, per il secondo anno consecutivo, un ritmo di crescita dello 0,7 per cento, che riflette un debole contributo positivo della domanda estera netta e un rallentamento della spesa per consumi e, soprattutto, per investimenti. La crescita del Pil dell’Italia è risultata inferiore a Francia e Spagna, mentre la Germania ha sperimentato il secondo anno di contrazione”. Nello stesso periodo di tempo gli Stati Uniti sono cresciuti del 2,8%, la Cina del 5 e la media dei 27 paesi dell’Unione Europea è passata da una crescita del 0,4% del 2023 ad una dell’1% del 2024. Le cause di questa crescita moderata dell’economia italiana secondo l’Istat sono da rintracciare all’interno delle dinamiche internazionali incerte e in particolare rispetto alle esportazioni, ma anche nelle caratteristiche del sistema produttivo italiano “quali la dimensione delle imprese, la specializzazione in settori tradizionali e il limitato contenuto tecnologico/innovativo dei prodotti – a loro volta negativamente associate all’efficienza e all’incremento della produttività.”
Il rapporto sottolinea come la crescita sia piuttosto diversificata a seconda dei settori produttivi. Sull’onda lunga degli incentivi fiscali e del PNRR il settore dell’edilizia e delle costruzioni ha segnato un aumento del valore aggiunto in termini reali del 1,2% (anche se nel 2023 l’incremento era stato molto più consistente: +6,9%). In positivo anche l’agricoltura con un +2%, ma con performances ancora molto al di sotto dell’economia pre-pandemica (-5,2 per cento).
Nel settore industriale poi si nota con più chiarezza l’andamento estremamente frammentato a seconda dei diversi settori produttivi. Complessivamente si riscontra una riduzione del -0,1%, mentre nel 2023 la contrazione era stata dell’1,8%. A sollevare i destini del settore sono stati “la forte crescita nei comparti della fornitura di energia (+7,3 per cento, dopo -3,1 dell’anno precedente) e dell’industria estrattiva (+6,2 per cento, recuperando il -5,2 del 2023), mentre nell’industria manifatturiera si è avuta una diminuzione dello 0,7 per cento, che segue un calo dell’1,2 per cento nel 2023.”
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Deserto astensionista e ritorno della “sinistra” liberista: il caso Genova
di Eros Barone
Quando non hai più un nemico è lui che ha vinto.
André Frénaud, Il silenzio di Genova.
Al primo turno delle elezioni comunali di Genova hanno votato 249.000 genovesi. Tra Comune e municipi, i candidati erano più di 3000. Un rapporto tra candidati e votanti straordinario per la minima distanza tra elettorato attivo ed elettorato passivo: più o meno uno su ottanta. In una democrazia avanzata o di tipo sovietico sarebbe stato il suggello di una entusiasmante partecipazione di massa al dibattito pubblico e alla scelta dei rappresentanti del popolo, che ne consegue. Ma quel rapporto, nel sistema istituzionale italiano, è soltanto lo specchio dello svuotamento cui è giunta la democrazia borghese in assenza di ogni reale alternativa politica. Infatti, avevano diritto al voto 480.000 cittadini genovesi e quasi la metà si sono astenuti. Sorge allora spontaneo un paragone: quando si affermava, nei “gloriosi trent’anni” che vanno dal 1945 al 1975, la spinta democratica e rinnovatrice generata dalle lotte operaie, giovanili e popolari, sostenuta dalla partecipazione di larghe masse alla battaglia politica, furono conseguite importanti conquiste: la scala mobile, la scuola media unica, lo Statuto dei lavoratori, la riforma sanitaria. Lo stesso paragone ci dice, circa il grado della partecipazione elettorale, che alle elezioni politiche del 1958 andarono a votare 84 italiani su 100, mentre nel 2022 furono soltanto 64 su 100 gli italiani che si recarono alle urne.
Il ritorno della “sinistra” liberista alla guida del governo locale avviene, dunque, nel bel mezzo di un deserto di astensioni dal voto, che si estende a poco meno della metà del corpo elettorale, confermando il silenzioso esodo di massa, in corso ormai da decenni, dalla partecipazione popolare a uno degli istituti più importanti della democrazia rappresentativa borghese, quello più strettamente connesso al territorio.
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Compianto sul Sessantotto
Su “Il Sessantotto e noi” di Romano Luperini e Beppe Corlito
di Ennio Abate
Ho letto prima la Prefazione (qui) e ora il libro, Il Sessantotto e noi. Testimonianze a due voci (Castelvecchi 2024) di Romano Luperini e Beppe Corlito.
Il volume – circa 160 pagine – è suddiviso in: una Premessa. Un paradosso ironico; due parti (una prima di tre capitoli, una seconda di undici); le Conclusioni; e una Appendice con un’intervista all’avvocato Ezio Menzione, difensore di Ovidio Bompressi nel processo per l’omicidio di Calabresi. Nella Parte prima tre capitoli trattano le questioni: dell’unità o pluralità del Sessantotto come fenomeno globale, planetario; delle sue cause e dei suoi inizi; del Sessantotto italiano “lungo” (rispetto a quello francese). Nella Parte seconda, dal capitolo 4° all’11°, vengono esaminati i temi: dell’assemblea, dell’organizzazione e della democrazia diretta; della militanza; della corporeità, sessualità e questione femminile; della cultura del Sessantotto; della violenza, del terrorismo e dell’omicidio Calabresi; del rapporto tra Sessantotto e tradizione comunista; della democrazia e della rivoluzione; del fascismo e dell’antifascismo. Nelle Conclusioni si toccano gli aspetti del Sessantotto ritenuti attuali.
La conversazione tra Luperini e Corlito è di agevole lettura, mai enfatica o apologetica; e ripercorre in modi sintetici e chiari i fatti e le principali interpretazioni del Sessantotto. Un lettore, che abbia partecipato a quella rivolta studentesca o che ne abbia sentito parlare, può ripassare utilmente fatti, emozioni e ragionamenti scaturiti da quell’anno straordinario, in cui, come dicono gli autori, sembrò che «tutto il mondo fosse giovane».1
Anche se questa «testimonianza a due voci» di due protagonisti del ‘68, che vuole essere «una sorta di testamento rivolto al futuro», viene resa nel deserto politico odierno e l’«impronta indelebile» del Sessantotto non solo su loro due ma su tanti – una minoranza combattiva e preziosa ma messa presto fuori gioco – a me pare un’illusione, non mi sento di sottovalutarla.
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I referendum dell’8-9 giugno: strumenti di riscossa o boomerang?
di TIR
Da lunghi decenni, ormai, la classe operaia e i salariati in generale stanno arretrando fino a vedere messi in discussione anche i diritti più elementari. Sicché la necessità di invertire la tendenza, e cominciare a riconquistare posizioni anziché perderne ancora altre, è oggettiva. Tanto più perché incombe in modo sempre più minaccioso una corsa alla guerra e all’economia di guerra che comporterà un salto di quantità e di qualità nei sacrifici imposti a quanti/e vivono del proprio lavoro, e nella repressione statale. Ne sono stati due assaggi la decisione di portare subito al 2% del bilancio statale le spese per la guerra e il colpo di mano con cui è stato approvato il decreto-sicurezza (ex-DDL 1660).
In questo contesto che cosa rappresenta la prossima tornata referendaria dell’8-9 giugno: uno strumento utile per cominciare a risalire la china o un’iniziativa che agirà come un boomerang?
I suoi promotori – la CGIL e un ventaglio di forze politiche e sociali gravitanti nell’orbita del centrosinistra – chiamano alle urne il “popolo elettore” su 5 quesiti, che riguardano nell’ordine:
1) l’abolizione del dispositivo del Jobs Act di Renzi col quale è stata spazzata via la possibilità del reintegro in Tribunale per i lavoratori licenziati senza giusta causa nelle aziende con più di 15 dipendenti;
2) l’eliminazione dei limiti massimi del risarcimento economico per licenziamento illegittimo nelle aziende sotto i 16 dipendenti;
3) l’abolizione dei contratti a termine privi di causale;
4) il ripristino della responsabilità del committente nel caso di infortunio di un lavoratore dipendente di ditte in appalto;
5) il dimezzamento da 10 a 5 anni di residenza legale quale requisito per acquisire la cittadinanza italiana.
Sulla carta, visto il contenuto di tali quesiti, per chi come noi è da sempre schierato incondizionatamente al fianco dei lavoratori e delle loro lotte, non dovrebbe esserci alcun dubbio nel prendere posizione a sostegno del “sì” a questi referendum.
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Quale liberazione? Il popolo tradito
di Flaviana Cerquozzi
«Ci hanno insegnato tutto gli americani,
se non c’erano gli americani a quest’ora…
eravamo europei[..]».
(G. Gaber, “Ci hanno insegnato tutto gli americani”)
Una Costituzione nata da quel lontano 25 Aprile 1945
Il 25 aprile festeggiamo la Festa della Liberazione, facendolo coincidere con la data in cui le principali città italiane vennero liberate dai partigiani e cadde la Repubblica di Salò. In questa data, infatti, il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) proclamò l’insurrezione generale nei territori occupati ancora dai nazi-fascisti.
Festeggiare il 25 Aprile significa riaffermare la centralità dei valori democratici che il regime fascista aveva negato e che il “popolo”, con forza, ha riaffermato, nella piena libertà di autodeterminazione che ha espresso nella scelta della forma di stato repubblicana.
La Resistenza italiana non è stata soltanto un movimento contro l’occupazione nazista e il regime fascista, è stata “Il potere costituente”. A guerra terminata, infatti, furono gli stessi partiti che avevano guidato l’Italia verso la liberazione a prendere parte al momento costituente: la Costituzione generata da queste forze sociali non poteva non essere antifascista ed eretta sui valori di democrazia e di libertà.
Per tale ragione la Costituzione è dotata di quegli anticorpi necessari a respingere il ritorno a un regime totalitario, che incarna i valori della Resistenza, eppure la stessa Costituzione presenta delle falle attraverso le quali poteri esterni si sono introdotti e l’hanno “sterilizzata”.
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Le parole e le cose: la resistenza
di Algamica*
A 80 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale si torna a parlare di un fenomeno politico sociale ormai scolorito, e il tentativo di rinvigorirlo appare in tutta la sua nudità: un falso storico, ovvero una patacca, venduto al popolo come una medaglia d’oro. Parliamo di quella definizione che va sotto il nome di resistenza partigiana italiana e che si commemora il 25 aprile di ogni anno.
Non si scandalizzino, lor signori, se usiamo il termine «patacca», perché una mistificazione venduta per 80 anni non diviene platino inciso, proprio perché la verità è come la tosse, non la si può trattenere troppo a lungo e alla fine esplode in tutta la sua forza.
Cosa fu realmente quel movimento “nazionale” che va sotto il nome di resistenza? Come nacque, chi vi aderì, e cosa si proponeva? Sono queste le domande a cui dovremmo cercare di rispondere per capire la natura vera – non quella contrabbandata – di un movimento sociale composito che si incominciò a sviluppare sul finire della Seconda guerra mondiale contro il nazismo germanico e – di riflesso – contro il fascismo e la Repubblica sociale che si era insediata a Salò come estremo tentativo di difendere l’alleanza colonialista con la Germania contro un colonialismo maggiore in ascesa, ovvero quello angloamericano.
Succede – come sempre nella storia – che se vai avanti vieni seguito, come dire vinciamo noi, viceversa, se vieni sconfitto, beh, paghi tu per la sconfitta. Il fascismo italiano pagò per essere stato sconfitto da potenze maggiori e in ascesa. In sostanza il 25 aprile ricorre la celebrazione della “liberazione” piuttosto che della “resistenza”. Ma liberazione da cosa? Una liberazione il cui scopo ultimo era quello di sottrarre l’Italia dal ruolo di paese sconfitto nel tentativo di un blocco imperialista minore di competere contro quello maggiore e straripante, per ben continuare a rivendicare un posto alla tavola dei banditi delle maggiori potenze democratiche contro i popoli colonizzati. Siamo all’abc della storia.
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Caro Preterossi, ecco come siamo sprofondati da Pasolini a Serra
di Alessio Mannino
Apro l’ombrello per ripararmi dalle accuse di cinismo che non mancheranno di piovermi addosso
Alberto Savinio
Come siamo finiti da Gramsci a Serra, si chiedeva il direttore di questa rivista, Geminello Preterossi, nel raduno “Tutti a casa” di Roma il 29 marzo scorso. Diceva Alberto Savinio che esistono le persone intelligenti, e poi ci sono gli intellettuali. Gli intelligenti hanno la peculiare caratteristica di non essere prevedibili, mentre gli intellettuali, in parte incolpevolmente facendone un mestiere, devono per statuto compiacere il pubblico. Esattamente come i politici o gli uomini d’affari. L’intelligenza, se lasciata al suo naturale corso, si sente sempre a disagio rispetto alla realtà data, e non può far a meno di guardare al rovescio della medaglia. E questo in ogni circostanza, perché ogni cosa proietta un’ombra, tutto ha un risvolto problematico. L’anima critica punta dritta al crinale dove, fatalmente, troverà una contraddizione, un lato oscuro, un non detto più o meno inconfessabile. È per questo che chi agisce sul piano culturale fa sì politica, fa sì parte del mercato, ma in via indiretta: perché obbedisce, o dovrebbe obbedire, innanzitutto alla propria coscienza, e solo poi alla convenienza. Oggi invece l’intellettuale medio è l’animale più stupido: non comprende il mondo reale, perché troppo occupato a servire la ragion economica o politica. È un venduto in quanto vende, e nel vendere si svende. È un pusillanime, un addetto al marketing, e la sua funzione è giustamente caduta in discredito. Parafrasando il Longanesi perculatore di Benedetto Croce: non capisce niente, e neanche più con grande autorità. È un miserabile.
La miseria degli intellettuali nasce con l’apparizione stessa della figura del moderno intellettuale critico. Se vogliamo individuarne la simbolica data di nascita, potremmo assumere a spartiacque il famoso “J’accuse” di Émile Zola, l’appello sul caso Dreyfus pubblicato sul quotidiano L’Aurore nel 1898.
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La storia, gli storici ed Ernesto Galli della Loggia
di Algamica*
Non conosciamo gli storici o scrittori contro cui il famoso professore e storico Ernesto Galli della Loggia scaglia i suoi dardi a proposito di una definizione – sua e di suoi colleghi – sul modo di concepire la storia e, ovviamente, di raccontarla, in modo particolare quando si scrive per libri di insegnamento nelle scuole superiori.
La querelle riguarderebbe la definizione «Solo l’Occidente conosce la storia», usata dal Galli della Loggia e altri professori e storici, messi sotto accusa da altrettanti – a noi sconosciuti – critici che avrebbero criticato il gruppo di esperti, capeggiato dal noto editorialista del Corriere della Sera scrivendo «Ma come si può mai pensare, oibò, che esistano popoli o civiltà senza storia»?! « E allora la Cina ad esempio, anche la Cina non avrebbe avuto una storia »? dicono i critici mandando su tutte le furie il professore e il gruppo col quale starebbero stilando nuovi libri di testo di storia.
Ora l’arguto professor Ernesto Galli della Loggia, parte lancia in resta, definendo in malo modo quelli che criticano senza conoscere la differenza tra – attenzione bene! – l’espressione « Solo l’Occidente conosce la storia » e quella dei suoi critici che darebbero per supposta una frase diversa, ovvero « Solo l’Occidente ha » o « avrebbe avuto una storia ». Povero professore, con chi è costretto a confrontarsi. Ma, si sa che fra le umane genti albergano anche molti “ignorantelli” che non hanno lo stesso livello di conoscenza dello storico ed editorialista in questione. Passi se in buona fede, se poi in malafede, beh, peggio che andar di notte. E sia.
Noi non prendiamo – nel caso specifico – le difese dei suoi critici, lo faranno se ritengono di doverlo fare loro, mentre ci interessa molto più da vicino non trasfigurare il pensiero del Galli della Loggia, no, ma cercare di interpretarlo letteralmente, come lui cerca di chiarire nello scritto pubblicato martedì 25 marzo dove, riportiamo l’intero periodo, senza sintetizzarlo, e dunque letteralmente ci è dato leggere: « Il fatto è che, almeno per chi ha una qualche confidenza con la lingua italiana, l’espressione “solo l’Occidente conosce la storia” , “conosce” » arguisce il professore « non “ha” » tiene a precisare l’importanza del verbo « lungi dal significare “solo l’Occidente ha avuto una storia e tutti gli altri no”, significa » udite! udite! poveri ignorantelli da quattro soldi! « ciò che nelle frasi immediatamente successive del documento viene a lungo spiegato ».
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“Tutti a casa”? Sì, ma prima un bel TSO (Test di Sana Opposizione)
di Alessio Mannino
Solo una sana e consapevole autocritica salva il rivoluzionario dallo stress e dalla coazione catodica. Fra i lettori appassionati di storia del Pci, qualcuno si ricorderà che l’educazione nelle scuole del partito, Frattocchie su tutte, prevedeva il rito sadico dell’autocritica davanti ai “compagni”. In pratica, scontando il gusto cattolico per la confessione, l’allievo era tenuto a dichiarare quanto e perché non si era dimostrato all’altezza dei criteri, allora molto esigenti, in fatto di coerenza e serietà, anche sul piano privato. Non si valutava, infatti, solo il profitto nello studio, ma anche la diligenza, la disciplina, la reputazione. Era un’eredità staliniana che oggi considereremmo ai limiti della violenza psicologica, oltre che di un bacchettonismo un po’ ridicolo. Tuttavia, un indubbio valore formativo lo aveva: abituava il futuro funzionario votato a rappresentare la Causa ad anteporla a sé, ammettendo i propri limiti e difetti e dando agli altri spunti di riflessione a sua volta autocritica. Era un esercizio di autocoscienza di gruppo.
Ai nostri giorni, imparagonabili a quei tempi di partiti-chiese e impegno politico missionario, si è sbracato finendo nell’eccesso diametralmente opposto. Oggi vale tutto e il suo contrario. La sfera politica, intesa latu sensu come spazio pubblico in cui chiunque può intervenire con un semplice post sui social, è diventata una cosa grottesca e tribale, stilisticamente incrociabile tra i raccontini Harmony, l’aruspicina delle proprie viscere e il filmetto splatter dove il sangue scorre rigorosamente virtuale. In un’abissale distanza rispetto a quel remoto addestramento monacale, l’attuale politica, vista sul piano organizzato di leader, associazioni e propaganda, aderisce completamente alle modalità del Marketing, vero e unico Intellettuale Collettivo che di tale degrado rappresenta il motore d’alimentazione. Non si preoccupa minimamente di formare gli elementi attivi, attivisti, quadri, staff, e men che meno gli stessi capi. E per forza: che importanza può avere la preparazione al campo di lotta, se la lotta è filtrata da una cornice che impone i canoni semplicistici di un infantilismo indotto?
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Duci a San Siro
di Nico Maccentelli
È il titolo più appropriato per la prossima kermesse europeista dem, se dopo Michele Serra a Roma, fosse Roberto Vecchioni a organizzare a Milano un raduno guerrafondaio di pacifinti, con tutte le corbellerie tutt’altro che “di sinistra” che ha detto dal palco di piazza del Popolo. Ed è dai tempi di piazza Venezia nel 1941 che non si vedeva un’adunata di questo tipo e per un antico scopo che torna in auge su scala continentale.
L’unica differenza è che gli adunanti di allora non erano dei beoti in totale confusione come oggi, e, come i loro capi di allora, Benito in testa, sapevano benissimo che era l’ora di spezzare le reni alla Grecia. Reni, che se ben ricordo, le spezzarono Draghi e gli euroburocrati nel 2015 con una guerra economica nel nome dell'”Europa” che non faceva prigionieri. Era già da allora che si potevano capire gli interessi dominanti e i veri obiettivi delle misure draconiane europeiste che avrebbero potuto colpire ogni paese dell’UE non in linea con i vincoli di bilancio e con le regole tutte improntate a favorire il mercato sopra ogni diritto sociale.
Interessi e obiettivi che sono anche di oggi, e che oggi come allora vengono perseguiti a prescindere da ogni altra questione, di emergenza in emergenza creata ad arte, travalicando anche i patti sociali su cui si sono rette le democrazie liberali novecentesche e avviando l’era dell’autoritarismo liberista euro-autocratico. Ma la massa per lo più vetusta a piazza del Popolo che si è lasciata trasportare dalla retorica marinettiana degli Scurati, dal suprematismo filosofico-letterario dei Vecchioni, dalla pletora di starlette tra Piff, Littizzetto e Jovanotti, con vecchi saggi alla Augias, locomotive gucciniane lanciate contro la giustizia e la pace, una massa da gnocco fritto alle feste de l’Unità trasportata da pullman dell’associazionismo piddino tra CGIL, ANPI, COOP, ecc., ovviamente come “Alice tutto questo non lo sa”. Chi è andato alla kermesse promossa dal produttore di armi che possiede La Repubblica c’è andato credendo di essere alla solita sfilata buonista e c’ha capito punto nulla, fidandosi dei soliti volti televisivi. E invece…
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Il Manifesto di Ventotene. Né socialista né sociale: un inno al federalismo neoliberale
di Alessandro Somma
Il Manifesto di Ventotene è senza dubbio un testo tra i più citati nel discorso pubblico, ma anche tra i meno letti da coloro i quali amano richiamarlo. Questo restituisce la recente lite scomposta tra i dirigenti del Piddì e la Presidente del consiglio: i primi impegnati ad accreditarlo come una celebrazione dell’Europa sociale e democratica, la seconda a stigmatizzarlo come socialista e dunque antidemocratico.
Entrambi sbagliano: il Manifesto di Ventotene è un inno all’Europa neoliberale e il suo estensore più famoso, Altiero Spinelli, un pensatore confuso e opportunista. Tanto che molto probabilmente ci saremmo dimenticati di entrambi, se solo la sinistra storica in crisi di identità dopo l’implosione del blocco socialista non ne avesse abusato per rimpiazzare i punti di riferimenti ideali caduti in disgrazia. È del resto il testo scritto da antifascisti al confino, che qua e là parla di Europa sociale. Non importa dunque se lo fa a sproposito e soprattutto in assenza di riscontri con il complessivo impianto del Manifesto, così come con il percorso politico di Spinelli. È comunque buono a riorganizzare il fondamento ideale della sinistra orfana del socialismo attorno a retoriche vuote e buone per tutte le stagioni, come sono quelle che evocano un non meglio definito europeismo. E buono soprattutto a far dimenticare che esso fa rima con neoliberalismo[1].
Federalismo neoliberale
Il primo riscontro della vicinanza tra il Manifesto di Ventotene e il neoliberalismo lo ricaviamo dalle letture che più hanno ispirato i suoi autori: gli interventi di Luigi Einaudi ospitati sul Corriere della sera tra il 1917 e il 1919 con lo pseudonimo di Junius e gli scritti dei federalisti anglosassoni. Spicca tra questi ultimi Lionel Robbins: un autore di formazione liberale, esponente della Scuola austriaca, i cui testi giungono agli autori del Manifesto proprio da Einaudi.
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Augias, Scurati, Vecchioni: il suprematismo eurocentrico diventa cabaret
di OttolinaTV
Socrate, Spinoza, Cartesio e, ancora, Hegel; addirittura Marx: voi, miseri beduini, che vi lamentate tanto perché 16 mila anni fa vi si tagliava la testa nelle miniere del Congo Belga e si infilava su un palo per spaventare le cornacchie, ce li avete avuti? Su, citami lo Shakespeare della Guinea Bissau, il Pirandello dell’Indocina, il Leopardi della Ande: sapete una sega voi, popo’ di lanciatori di banane!
Fino a poco tempo fa, se una qualsiasi persona sprovvista di certificazione dell’ASL si fosse pronunciata in questo modo, sarebbe stata sommersa di insulti ed esposta alla gogna mediatica; sabato scorso, invece, è stata osannata da una moltitudine di ultra settantacinquenni prelevati dalle RSA dalla Coop in cambio di un maxi sconto sul prossimo acquisto di pannoloni monouso. Il palco della manifestazione dei Repubblichini è stata una vera e propria apoteosi di suprematismo eurocentrico, manco fossimo a metà dell’800, una sfilata di vecchi maschi bianchi appartenenti alle finte élite finto-democratiche e finto-progressiste che facevano esattamente quello che i vecchi rincoglioniti hanno sempre fatto: inventarsi un passato idilliaco messo a repentaglio da immaginarie invasioni barbariche. Non poteva che finire così; lo diciamo da anni: l’uomo bianco ha dominato il pianeta per 5 secoli, si è macchiato di ogni forma di crimine e, attraverso il crimine e la violenza, ha rapinato tutti gli altri. E, grazie a questa rapina sistematica, ha nutrito dinastie di Vecchioni, di Serra, di Augias e di Scurati, ai quali veniva concesso il lusso di non lavorare nemmeno mezza giornata in tutta la loro vita in cambio di un po’ di propaganda sulla superiorità del giardino ordinato; e ora che i barbari alla favoletta del giardino ordinato hanno deciso di non prestare più nessuna attenzione, con la complicità di mix di farmaci non sempre dosati alla perfezione (perché non ci sono più le badanti di una volta) non possono che sbroccare male e sparare minchiate orientaliste a casaccio.
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Le due piazze di Repubblica nel radioso marzo d’Europa
di Marco Montelisciani
Michele Serra prova a convocare due piazze in una: la prima in favore dell’Europa realizzata, pronta a sacrificare il welfare in nome del militarismo; l’altra in favore dell’Europa idealizzata dalla retorica del centro-sinistra. Questa contraddizione potrebbe presto pervenire a un punto di rottura, aprendo la strada a una ulteriore e più decisa svolta reazionaria. Manifestare in favore dell’UE realizzata fingendo che somigli alla sua versione idealizzata rischia di legittimare la svolta a destra anche presso l’opinione pubblica democratica
La manifestazione del prossimo 15 marzo è divenuta, al di là delle intenzioni degli organizzatori e di chi in buona fede vi ha aderito, terreno di confronto tra due polarità difficilmente conciliabili che convivono nell’ambito del blocco di potere e consenso egemone in Europa, rappresentato plasticamente dalla Große Koalitiontra popolari, socialdemocratici e liberali che regge da decenni sia le istituzioni comunitarie sia i “sistemi dell’alternanza” all’interno dei Paesi membri e a cui, a vario titolo, fa riferimento il mainstream del dibattito pubblico. Tale blocco è oggi scosso dal cambio di strategia avvenuto alla Casa Bianca, che determina il venir meno di certezze che sembravano acquisite. La manifestazione nata dall’appello “Una piazza per l’Europa”, firmato da Michele Serra sulla principale testata del progressismo liberale italiano, figlia delle turbolenze di questa fase, non fa che riprodurne le contraddizioni. Lo stesso vale per il promotore della mobilitazione, che nei giorni scorsi ha sentito l’esigenza di correggere il tiro rispetto all’impostazione che aveva originariamente inteso dare alla sua iniziativa.
Salta immediatamente all’occhio, infatti, leggendo l’appello del 27 febbraio, che non vi ricorra mai la parola “pace”. Tale assenza sembra intimamente coerente con l’impostazione dell’appello e con quella di chi, da subito, vi ha aderito con più entusiasmo. L’intima coerenza non è legata tanto alla circostanza – tutto sommato contingente – che Serra e il suo giornale siano apertamente schierati perché l’Europa continui a fare la guerra contro la Russia fino alla vittoria finale sul campo di battaglia. Il punto è che tutto l’impianto dell’appello scaturisce dalla necessità di esorcizzare il timore di una possibile fine dell’Occidente come “concetto politico-strategico”, che sarebbe ovviamente una conseguenza della rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca e della sua spregiudicata politica interna ed estera. Ma cosa può significare, nell’economia del ragionamento di Serra, “concetto politico-strategico”?
Sembra di poter rispondere che il fatto che l’Occidente cessi di essere un concetto politico-strategico (dal greco strategòs: comandante militare) significhi che esso non è più spendibile come concetto oppositivo-polemico (dal greco pòlemos: guerra).
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Com'è bello far la guerra da Trieste in giù
di Konrad Nobile
La strada è segnata: avanti tutta con Imec e piani Nato. Nuove dichiarazioni sono un grave campanello d'allarme, mentre in città approda la nuova portaerei
Nell’ultimo anno si è fatto veramente un gran parlare di Trieste e di certe manovre che coinvolgono il capoluogo giuliano. Sembra ormai quasi che parlarne sia diventato di moda. E difatti, forse, se ne parla anche un po’ troppo.
A dire la loro su Trieste e a sbavarci sopra si sono avvicendati importanti think thank americani come «Atlantic Council» (1) e «The National Interest» (2), oltre a testate italiane come «formiche» (3) e la famosa rivista di geopolitica «Limes».
Quest’ultima ci ha dato veramente dentro e, dopo aver dedicato a Trieste l’editoriale del numero di ottobre 2024 (4), un altro articolo sempre nello stesso numero(5) ed un altro in quello di dicembre 2024 (6), ha anche messo Trieste al centro di uno dei confronti svoltisi alla XII edizione del Festival di Limes, che ha avuto luogo a Genova tra il 7 e il 9 febbraio.
Qui il filmato di uno degli interventi, incentrato proprio sulla città alabardata:
Anche su ComeDonChisciotte sono usciti molti articoli legati alle vicende triestine, e chiedo venia ai lettori se insisto nello scrivere su questa città, finendo magari per essere ridondante e ripetitivo. A dire il vero, eccetto le notizie sui processi relativi alla mobilitazione No Green Pass, che a Trieste continuano a susseguirsi, non intendevo spendere ulteriori articoli dedicati a questioni triestine. Tuttavia gli ultimi sviluppi e certe recenti e assai gravi dichiarazioni mi hanno spinto ad accantonare questo proposito.
Per chi fosse estraneo al dibattito generatosi negli ultimi mesi su Trieste e sugli interessi internazionali in ballo, rimando alla lettura di alcuni degli articoli pubblicati su ComeDonChisciotte (siccome se n’è già parlato abbondantemente cerco di evitare di ripetere cose già scritte):
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