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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Diciannovesima parte. “Ammettere i propri difetti è privilegio dei forti”: l’intervento di Tomskij al XIV Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) PARTE IX
l. I sindacati nelle campagne
La questione più importante fra quelle che il futuro riserverà al lavoro sindacale sarà quella dell’attività dei sindacati nelle campagne. Dopo l’ultimo Congresso del partito abbiamo assistito a un lavoro abbastanza vivace ed energico delle diverse organizzazioni sindacali nelle campagne. In virtù di ciò, oggi abbiamo abbastanza elementi per valutare, verificare, se il percorso da noi fatto sia stato quello giusto, ovvero portando i metodi e il lavoro sindacali nelle campagne nella stessa misura in cui li avevamo fino ad allora praticati. Possiam già subito dire che questi metodi e queste forme, come lo slogan gridato a gran voce “tutti i sindacati nelle campagne!” («все профсоюзы в деревню») si sono rivelati sbagliati.1
Con questo incipit si apre un’altra pagina dell’intervento di Tomskij. Consideriamo che, nel 1925, solo un abitante su quattro era cittadino. Gli altri tre vivevano nelle campagne, non appartenevano alla “avanguardia operaia”, molti non erano neppure iscritti al partito. Ecco allora che la questione delle campagne assumeva un’importanza veramente strategica, tale da dover influenzare, nelle intenzioni del segretario, la linea sindacale in maniera veramente rilevante. Per questo, per motivi sostanziali, e non per il gusto di fare pulci, anche in questo caso Tomskij si sente in dovere di muovere obiezioni e sottolineare come, l’approccio adottato dall’ultimo Congresso, fosse sostanzialmente errato. Perché “questi metodi e queste forme” si erano rivelati errati?
Si sono rivelati errati, perché quello che noi ci aspettavamo dal lavoro sindacale nelle campagne, ovvero lo stabilirsi di un legame (смычок) fra il proletariato urbano (городский пролетариат) e i contadini poveri (бедняк) e gli strati intermedi (середняк) nelle campagne, ebbene questo obbiettivo non è stato raggiunto. Ci sono andati “tutti i sindacati nelle campagne”. Si, ma come ci sono andati? Tenendo in una mano il Codice delle leggi del lavoro (Кодекс законов о труде) e, in un’altra, i contratti collettivi, tutte le sue ordinanze, le sue istruzioni, eccetera. Persino nelle condizioni di un’economia contadina, nelle condizioni di una situazione contadina, essi han finito coll’impiegare i metodi, le pratiche, le forme di organizzazione del lavoro tipiche del sindacato urbano.
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Alcune osservazioni in margine ai saggi di Thanasis Spanidis sulla politica antifascista e sulla pianificazione socialista
di Eros Barone
… un nuovo, più profondo e più ampio senso di comunanza umana, che determina… ciò che può oramai dirsi l’etica del socialismo: cioè il postulato della solidarietà contrapposto all’assioma della concorrenza.
Antonio Labriola, Da un secolo all’altro, in Scritti varii di filosofia e politica, Laterza, Bari 1906, p. 458.
L’autore del contributo che qui viene proposto ritiene che la genesi della svolta opportunista del movimento comunista mondiale sia da ricercare: a) nel VII Congresso dell'Internazionale Comunista (1935); b) segnatamente, nella concezione bifronte del "partito operaio comune" e della democrazia antimonopolista (DAM), laddove l'uno è strettamente connesso all'altra ed entrambi sono correlativi a una strategia antimonopolista (SAM); c) nel conseguente abbandono della teoria marxista dello Stato come dittatura di classe. 1 Certamente, il VI Congresso dell’Internazionale Comunista (1928) merita, per il suo contenuto teorico, strategico e programmatico, di essere rivalutato rispetto al contenuto tattico-politico del VII Congresso dell’Internazionale Comunista, distorto successivamente sia dal punto di vista strategico che teorico a causa della prassi opportunista. 2 È quindi del tutto conseguente il drastico giudizio formulato da Thanasis Spanidis il quale, pur senza trascurare taluni aspetti positivi in esso presenti, ravvisa essenzialmente nel VII Congresso l’atto di nascita del revisionismo che via via si affermerà nel movimento comunista mondiale e, in particolare, nel movimento comunista europeo. Tale giudizio sottolinea gli aspetti semi-opportunisti presenti nel discorso di Dimitrov e il tacito consenso di Stalin a un'impostazione che, ribaltando la direttrice rivoluzionaria del VI Congresso, rischiava di essere ambigua, come i fatti dimostreranno nel prosieguo delle vicende.
Del resto, anche per l'opportunismo e il revisionismo vi è sempre un inizio: come il virus infetta il corpo, così la ruggine logora il ferro. Sicuramente, il nodo non sciolto dal movimento comunista era, allora come oggi, quello del rapporto multilaterale, fatto di sovrapposizioni e di intrecci, fra guerra interimperialista e guerra di liberazione nazionale, così come tra democrazia borghese e fascistizzazione.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Diciottesima parte. “Ammettere i propri difetti è privilegio dei forti”: l’intervento di Tomskij al XIV Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) PARTE VIII
I. I club
Indubbiamente il fulcro, il punto nodale, più importante e diffuso del lavoro di risveglio ed educazione culturale dei sindacati è dato dai club. Ho già sottolineato quanto continui a impetuosamente crescere il numero dei club. Si tratta del lavoro più nuovo, e quindi sconosciuto, di quelli affrontati, per cui siamo tenuti a cercare, a escogitare dalla A alla Z forme di attuazione altrettanto nuove, correggendo i nostri errori sul campo, in base all’esperienza maturata.1
Continuiamo l’analisi dell’intervento fiume del compagno Tomskij partendo da dove ci eravamo lasciati. Il capo dei profsojuz poneva l’accento sul LAVORO CULTURALE che il sindacato era chiamato a compiere. Qui comincia a mettere i puntini sulle i.
E siccome nessuno dei nostri ha mai pensato di popolarizzare la questione, lasciandola ad ambiti puramente accademici (dove, sinceramente, ammesso e non concesso che si sia mai andati a fondo nella questione, il bacino di utenza, la ricaduta di tali risultati su una platea di milioni di compagni è stata, storicamente, del tutto irrilevante) è il caso anche qui di conoscere un po’ più da vicino questi club o, così come erano definiti ufficialmente, gli “enti clubistici” (клубные учреждения).
Nascono verso la fine del XIX secolo2, come Case del popolo () dove convivevano biblioteca con sala lettura, aula per i corsi serali, piuttosto che sala conferenze e piccoli teatri. Ovviamente l’autofinanziamento e la scarsità di mezzi non erano un buon viatico per la loro diffusione e, nel 1914 il totale di tali strutture era di 237.
Numero che sarebbe aumentato, nel giro di pochi anni, in maniera esponenziale. Diamo subito un quadro della loro evoluzione da allora, così da toglierci ogni suspense… e cominciare ad avere una prima idea delle dimensioni del fenomeno3:
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La Sinistra Negata 03
Sinistra rivoluzionarla e composizione di classe in Italia (1960-1980)
a cura di Nico Maccentelli
Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale
Parte seconda. Gli Anni Settanta.
1. I “GRUPPI”
Il superamento della crisi del 1963-66 è reso possibile soprattutto da un mutamento nella composizione della domanda estera e da una posizione conseguentemente diversa assegnata all’Italia nell’ambito della divisione internazionale del lavoro. L’entrata in scena di paesi produttori di beni di consumo a basso costo costringe l’Italia a modificare le proprie esportazioni, spostando l’accento sui beni finali d’investimento dell’industria pesante e della meccanica leggera1. Acquistano dunque un inedito peso le imprese chimiche, petrolchimiche, siderurgiche, nelle quali le dimensioni degli impianti e gli enormi bisogni finanziari, rendono necessaria la partecipazione statale. È da notare che le industrie di questo tipo, malgrado le proporzioni colossali degli stabilimenti, assorbono quote ridottissime di forza-lavoro2. Il primo effetto della ristrutturazione, seguita alla crisi è dunque quello di contenere l’occupazione in alcuni dei rami industriali trainanti, producendo, con l’esclusione delle figure “deboli” (anziani, giovani, donne), un’ulteriore selezione a favore degli operai delle fasce centrali di età, più di tutti inclini a intraprendere azioni rivendicative.
È dunque un proletariato di fabbrica ridotto ma estremamente compatto, al cui interno continua a detenere l’egemonia (politica anche se non numerica) l’operaio-massa, a dar vita al lungo “autunno caldo” del 1969-1971. È in queste lotte che si sperimentano, con i Comitati Unitari di Base, le prime forme di organizzazione autonoma della classe operaia; ed è in queste lotte che i gruppi sparsi della sinistra rivoluzionaria trovano il cemento necessario alla loro unificazione, dando vita, dopo i convegni delle avanguardie di fabbrica del 1968 e del 1969 a due vaste organizzazioni: del Potere Operaio e Lotta Continua.
La prima metà degli anni ‘70 reca l’impronta di questi due raggruppamenti, che si dividono le spoglie dell’operaismo del decennio precedente e che, unitamente a gruppi di diversa matrice (Avanguardia Operaia, Il Manifesto, i vari “Partiti” di ispirazione maoista, ecc.), danno vita al complesso arcipelago della cosiddetta “sinistra extraparlamentare”.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Diciassettesima parte. “Ammettere i propri difetti è privilegio dei forti”: l’intervento di Tomskij al XIV Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) PARTE VII
g. Sindacato, aziende concessionarie e scioperi
Successivamente, Tomskij esamina il ruolo del sindacato nel settore delle aziende concessionarie, ovvero gli stranieri che hanno ottenuto dallo Stato il permesso di esercitare la propria attività di impresa nel Paese dei Soviet. Pregherei di prestare la massima attenzione a questo brano, perché in esso sono contenute tutte quelle oggettive contraddizioni del sindacato in una NEP che oggi è tanto rivalutata, per non dire osannata da un certo revisionismo neanche troppo strisciante.
Fare onestamente, efficacemente, sindacato in una situazione socioeconomica sempre più disgregata dalle spinte centrifughe di dinamiche capitalistiche di diversa natura, oltre che da frequenti e concomitanti sovrapposizioni e interazioni (o interferenze) degli organismi di partito che contribuivano a confondere ulteriormente le acque, in una prospettiva oggettivamente schizofrenica, dal momento che tali concessioni erano favorite perché rappresentavano economicamente una boccata di ossigeno, ma non dovevano in alcun modo rappresentare una concessione o, peggio ancora, CEDIMENTI, anche sul terreno della lotta di classe, man mano che si aprivano le gabbie diventava un’impresa sempre più ardua. Diamo ora la parola al Segretario:
Permettetemi ora qualche parola del lavoro sindacale nelle aziende concessionarie. Due sono le deviazioni che possiamo notare da parte dei sindacati. La prima consiste nel riprodurre anche in tali aziende, meccanicamente e in toto, il metodo adottato nelle statali: nelle statali ci sono le assemblee di produzione? Facciamole anche nelle concessioni! Nelle statali c’è la commissione di produzione? Portiamola anche di là! La campagna per la la produttività del lavoro? Lo stesso anche lì! E così via. E che questa sia una deviazione in molti, ancora, non lo capiscono! E c’è anche l’estremo opposto.
Di titubanze e atteggiamenti ambigui verso le concessioni purtroppo ne abbiamo, e questo ci porta a mantenere una linea ferma, definita centralmente, nei confronti della tattica da tenere con le aziende concessionarie.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Sedicesima parte. “Ammettere i propri difetti è privilegio dei forti”: l’intervento di Tomskij al XIV Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) PARTE VI
f. Ancora una volta sui compiti delle conferenze di produzione
Ritorniamo all’intervento di Tomskij e al punto successivo, in cui esamina circa compiti e mansioni delle Conferenze di produzione. Dopo tutto quanto esaminato abbiamo ben chiaro come Tomskij non agisca per pedanteria o eccessiva preoccupazione. Ribadire punti non ancora scontati, anzi, per niente scontati in gran parte dei casi, era necessità concreta. Lasciarne, infatti, l’interpretazione alla libera e totale discrezione di ciascun collettivo, altro non avrebbe che amplificato arbitrarietà, disordine e, in ultima analisi, non solo inefficacia ma anche dannosità di tali conferenze.
Così, pertanto, prosegue, passando alle Conferenze di produzione:
La conferenza di produzione non decide alcunché: non è per questo che è stata concepita; ribadiamolo, in primo luogo, e a chiare lettere. Le risoluzioni delle conferenze di produzione non sono cogenti, obbligatorie per gli organismi economici, e questo è il secondo punto. Si tratta di una premessa doverosa, perché poi sull’onda di un’enfasi esagerata, di gente che invoca a ogni piè sospinto: “Conferenza di produzione, conferenza di produzione!”, poi c’è chi ci rimane male perché le proposte da essa votate non vengono adottate.
Parliamo ora di composizione dei partecipanti alle conferenze di produzione. Quelle che vi porto sono le cifre in nostre mani delle cifre di Leningrado e di Tula. E cosa ci dicono queste cifre? Che le conferenze di produzione constano per oltre il 50% di operai in forza alle linee di produzione, mentre la restante parte è composta da membri del comitato di fabbrica, dell’amministrazione, piuttosto che impiegati, tecnici, personale in distacco sindacale, eccetera.
Quando invece passiamo alla loro appartenenza politica, vediamo che i comunisti sono soltanto poco più della metà, mediamente dal 52% al 56%, più un 3-4% di iscritti al komsomol e il resto, circa il 42%, di non iscritti. Occorre aggiungere a questo anche il fatto che, persino nelle realtà più partecipate, come per esempio a Leningrado, a presenziare alle conferenze di produzione è il 19% dei lavoratori. Meno di un lavoratore su cinque non è un grande indicatore di adesione.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Quindicesima parte. “Ammettere i propri difetti è privilegio dei forti”: l’intervento di Tomskij al XIV Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) PARTE V
e. Le Commissioni su tariffe e conflitti (RKK): non solo arbitrato
Le Commissioni su tariffe e conflitti… già, perché esistevano anche quelle: le RKK non erano, nonostante la funzione arbitrale di entrambe si presti ad analogie, l’equivalente dei nostri Collegi di conciliazione e arbitrato.
Anche qui, potremmo fregarcene altamente e andare avanti, che di strada da qui alla fine del periodo considerato da questa ricerca, ovvero la fine stessa dell’URSS, ce n’è ancora da fare, ma sorge sempre la stessa domanda… che senso ha, in un lavoro sui sindacati di anni, aggiornato al 2025, fatto fuori dall’orario di lavoro e da tutti gli altri impegni quotidiani, prendersi in giro ancora una volta, far finta di niente per l’ennesima volta, sempre per l’ennesima volta farsi bastare formulette e stereotipi vecchi, nella migliore delle ipotesi, di oltre mezzo secolo? Tanto valeva non affrontarlo nemmeno, se è già “tutto scritto”. Davàj, quindi, come dicono da Kaliningrad a Vladivostok: esaminiamo anche le RKK.
L’unica analogia delle RKK con i nostri Collegi è la comune vocazione all’arbitrato, ovvero alla risoluzione di contenziosi senza il ricorso al giudizio di un tribunale: per il resto, tutto cambia.
Partiamo dal nome: Rascenočno-konfliktnaja komissija. Rascenit’ (laddove la “c” è una z aspirata) viene da cena (medesima accortezza, traslitterabile come “tsena”) e vuol dire “stabilire il prezzo”, che nel caso del giovane Paese dei Soviet era ancora legato alle tariffe salariali del cottimo, più che a un salario fisso; konflikt, invece si presenta da solo. Una komissija chiamata, pertanto, a svolgere compiti ben più ampi dei licenziamenti “non per giusta causa”. Komissija figlia della NEP, figlia di quel momento storico in cui i bolscevichi capirono che, per riprendersi dalle macerie della guerra d’invasione, della guerra civile e del comunismo di guerra, la loro breve esperienza di autogestione operaia e le loro ancora scarse conoscenze in materia non sarebbero bastate, così come il semplice mettere qualche “tecnico” a guinzaglio stretto a eseguire i loro ordini: non sarebbero bastate a garantire il ripristino di quella maledetta ruota che, fino a prima della Rivoluzione, aveva macinato terra, sangue e produzione e riproduzione merce dispensando, ogni tanto, qualche briciola alla “plebe sempre all’opra china” che la faceva girare.
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La Sinistra Negata 02
Sinistra rivoluzionarla e composizione di classe in Italia (1960-1980)
a cura di Nico Maccentelli
Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale
Parte prima. Gli Anni Sessanta. (Seconda parte, la prima parte la trovate qui)
(Avvertenza: le note non corrispondono nella numerazione a quelle del testo originale, ma partono in ordine progressivo relativamente a questa parte)
3. PRIMI PASSI.
L’esplorazione dell’universo di fabbrica e della nuova composizione di classe inizia con l’apparizione, nel 1961, del primo numero dei “Quaderni Rossi”. L’uscita della rivista è preceduta da un’inchiesta condotta alla FIAT da alcuni membri del futuro gruppo redazionale, al fine di scoprire le cause dell’apparente passività rivendicativa regnante negli stabilimenti torinesi. «Si trattava di capire – chiariranno poi i redattori dei “Quaderni Rossi” – se questa mancanza di lotta corrispondeva a una situazione di effettiva “integrazione” degli operai nel sistema aziendale, o se esisteva una spinta di lotta che non era in grado di realizzarsi concretamente, e per quali ragioni»1.
È da notare che questa inchiesta «non si sviluppava direttamente su problemi direttamente politici, ma consisteva principalmente in un’analisi (che veniva fatta dagli intervistati attraverso le risposte al questionario) dell’organizzazione del lavoro e dei rapporti sociali (conflittuali o meno) che si sviluppavano in riferimento a essa»2. Già in queste premesse sono contenute molte delle linee di fondo della successiva esperienza del “Quaderni Rossi”. I filtri ideologici, specie di natura ottocentesca, che la sinistra adotta per organizzare in schemi politici il conflitto di classe, sono seccamente respinti. Lo strumento dell’inchiesta, condotta assieme agli stessi operai (la cosiddetta “con-ricerca”), diviene fondamentale al fine di solidificare un preciso “punto di vista operaio” dal quale l’azione politica deve necessariamente discendere.
Nel caso della FIAT questa impostazione conduce a risultati inattesi. Se “integrazione” c’è, essa riguarda gli operai di una certa età, già protagonisti delle roventi lotte degli anni ‘50 e fortemente sindacalizzati; mentre quel che connota gli operai più giovani è una crescente estraneità, potenzialmente conflittuale, all’azienda e al mito FIAT, in gran parte dovuta a procedure di lavoro spersonalizzanti.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Quattordicesima parte. “Ammettere i propri difetti è privilegio dei forti”: l’intervento di Tomskij al XIV Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) PARTE IV
Terminata (momentaneamente) la pars destruens, Tomskij passa alla construens e si occupa di un rapporto causa-effetto ormai dimenticato. La negligenza, la superficialità, l’opportunismo, di chi dovrebbe tutelarci, peggio ancora, rappresentarci, si combattono con la nostra partecipazione, operaia e di massa ai processi gestionali e decisionali! Per farlo, occorre coinvolgere grandi masse operaie, buona parte delle quali appena giunta in fabbrica e con in testa ancora più il paesello che la propria, nuova vita:
Per coinvolgere ampie masse operaie nel lavoro di gestione economica, oltre che nella discussione di questioni economiche, dobbiamo muoverci su due direttrici. La prima è portare la discussione dei contratti collettivi proprio dove sta chi di tali contratti è parte, ovvero nel cui nome tali contratti sono stipulati. A siglare il contratto collettivo siamo in due:
il dirigente, che si assume la responsabilità di dire, “prometto di pagare questo e questo, di non modificare le condizioni di lavoro, né tantomeno peggiorarle nel corso del tempo”
il sindacato che, nel firmare il contratto collettivo, si assume la responsabilità e promette che i suoi iscritti lavorino per tutta la validità del contratto in un certo modo, a certe condizioni, senza provare a cambiarle in tale lasso di tempo.1
Ripartiamo dall’ABC, invita i suoi Tomskij, dal chi siamo e cosa dobbiamo saper fare, e bene, senza strafare, senza snaturarci; ripartiamo anche da per cosa lottiamo, qual è il nostro scopo. Altro che “cinghia di trasmissione”, verrebbe da dire.
Dobbiamo “coinvolgere ampie masse operaie nel lavoro di gestione economica, oltre che nella discussione di questioni economiche”. “Lavoro di gestione economica” (хозяйственно-экономическая работа) è già un termine che, di per sé, illustra bene le due sfere dell’economia (l’aggettivo composto, infatti, comprende sia il termine slavo che quello greco, per cui un traduttore automatico va in tilt e traduce “economico-economico”...): la chozjajstvo, che non è solo “economia” o “azienda”, o “casa” (da cui il calco linguistico dal greco che segue) ma, nella forma verbale chozjastvovat’ padroneggiare, gestire. Che cosa? L’economia.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Tredicesima parte. “Ammettere i propri difetti è privilegio dei forti”: l’intervento di Tomskij al XIV Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) PARTE III

d. La critica al lavoro sindacale
Riprendiamo la relazione fiume di Tomskj da dove ci siamo lasciati. Già nei primi punti toccati, appare in modo estremamente chiaro come egli attacchi coerentemente, rispetto al proprio punto di vista, ogni approccio di tipo superficiale, approssimativo, stereotipato, alla questione del lavoro sindacale.
Prosegue quindi sulla stessa falsariga, criticando la troppa condiscendenza rispetto agli sprechi e agli scarti, ancora troppo alti e del cui problema il sindacato deve farsi carico, per rendere gli operai sempre più coscienti della loro importanza nel processo produttivo e non solo: infatti, BEN PIÙ A MONTE, occorre renderli anzitutto consapevoli che, in un’azienda socializzata, i mezzi di produzione sono loro e quelli che stanno buttando via son soldi loro. Prosegue quindi specificando quale dovesse essere, compiutamente, il lavoro economico dei sindacati, che ricorda essere “la questione più importante”:
Mi permetto di soffermarmi sulla questione più importante dell’attività sindacale, ovvero il suo lavoro economico, questione su cui qualche sindacalista nutre ancora dei dubbi. Qualcuno ha provato, infatti, di fronte al nostro mettere davanti a tutti gli altri compiti dei sindacati proprio quello di essere l’organismo di difesa degli interessi economici dei lavoratori, anche nelle imprese statali, ed esigere dai sindacati che non si dimenticassero neppure un minuto di questo loro, più importante, compito, a rappresentarci quasi come promotori di una terza linea, tredunionistica… gli stessi che peraltro, allo stesso tempo, dicono ai sindacati: “della vostra partecipazione alla produzione noi ce ne freghiamo”. Il perché rappresentino il lavoro dei profsojuz in questa maniera ci è ignoto, eppure molti parlano così.
Penso che qualsiasi persona che si sia trovata a parlare davanti a operai, in fabbrica o stabilimento, e che conosca la vita di fabbrica e di stabilimento, non potrà negare che, da qualche parte (кое-где), esista la cosiddetta “triplice”, ovvero il blocco direzione-partito-sindacati, laddove i sindacati si muovono all’unisono con la direzione e declamano: “Qui va tutto alla grande, qui c’è il fronte unito”.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Dodicesima parte. “Ammettere i propri difetti è privilegio dei forti”: l’intervento di Tomskij al XIV Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) parte II
b. Sul giustificare problemi reali con motivazioni stereotipate
Abbiamo lasciato Tomskij carico come una molla, contro non tanto GLI ERRORI, ma L’ATTEGGIAMENTO, L’APPROCCIO AI PROBLEMI dei propri compagni: in particolar modo, di alcuni che per nascondere le proprie magagne cercavano il “nemico interno”.
Con chi ce l’aveva ora?Occorre entrare un attimo nel vivo delle polemiche sorte durante e attorno quel Congresso, con il ruolo della NEP nelle campagne a fare da piatto forte. Il kulak, il contadino arricchito, era divenuto nelle campagne l’equivalente del nepman cittadino. Sembra strano parlare oggi di questo, anzi, come dicono in gergo, “FA strano”, tirare in ballo ancora una volta la lotta di classe: specialmente, quando a livello mondiale il gruppo di Paesi se-dicenti socialisti è guidato dal turbocapitalismo con caratteristiche cinesi; e lì l’armonia confuciana he 和DEVE regnare, al pari e come nel vicino se-dicente capitalistico Giappone. Va bene tutto, finché non si pestano i piedi a chi non si devono pestare… QUI NO. Immaginiamoci noi fra il Sessantotto e il Settantotto, così forse ci capiamo. Del resto, abbiam già constatato come qui bastasse molto, ma molto meno per sollevare vespai NON INDIFFERENTI, e NON SOLO IDEOLOGICI.
A differenza, INFATTI, del nostro decennio Sessantotto – Settantotto, la situazione socioeconomica era completamente DIVERSA. Non si era in BOOM economico, ma SI LAVORAVA ANCORA FRA LE MACERIE FUMANTI.
E IN QUEL CLIMA SI PARLAVA DI “NEP”! IL KULAK TORNAVA IN GICO, IL PADRONE, IL NEPMAN, SCENDEVA IN CAMPO! CE N’ERA DI BEN DONDE, PER INCAZZARSI.
Tornando alle campagne, un bracciante non aveva combattuto fino a pochi anni prima, patito fame e freddo, visto i propri compagni morti ammazzati, per poi lasciare che un altro contadino particolarmente dritto, “scarpe grosse e cervello fino” prendesse il posto del pomeščik a sfruttare lui e i suoi ex-compagni, prendendo il posto di quel proprietario terriero, a cui – e al carissimo prezzo di cui sopra! – si era riusciti a confiscare le terre e a redistribuirle!
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La Sinistra Negata 01
Sinistra rivoluzionarla e composizione di classe in Italia (1960-1980)
A cura di Nico Maccentelli
Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale
Introduzione all'opera
Il senso di questa pubblicazione, per la rubrica Altroquando, non è altro che quello che ha animato Carmilla sin dai suoi esordi: ravvivare la memoria storica attraverso la letteratura di genere, ma anche con l’analisi e il ripercorrere i passaggi storici e politici di un’epoca che sembra ormai sepolta: quella dell’antagonismo sociale e della lotta politica rivoluzionaria di fine secolo. Ovviamente potete trovare questo contributo che ora mi accingo a introdurvi, insieme a tutti i numeri della rivista Progetto Memoria, di cui La Sinistra Negata rappresenta un po’ il canto del cigno. E per scaricare l’intera raccolta in pdf dovete andare qui1. Il fatto però di pubblicare La Sinistra Negata, significa riportare al pubblico, alla sua attenzione, un contributo d’analisi ancora molto attuale, ma anche molto utile per la comprensione delle fasi politiche a cui fa riferimento: un lasso di tempo che va da Piazza Statuto, anni ’60 fino almomento in cui usciva l’ultimo numero di Progetto Memoria. Infatti dal 1960 al 1980 è un refuso poiché non comprende anche tutta la fase successiva, che invece nel saggio viene analizzata. Ma andiamo con ordine.
Un po’ di storiografia
Nel dicembre del 1998 usciva l’ultimo numero di una rivista bolognese, Progetto Memoria, che è stata di fatto la madre politica e culturale di Carmilla e che ha accompagnato la nostra rivista di letteratura antagonista e cultura d’opposizione per alcuni anni.
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Quei ‘sovversivi’ degli anni Settanta
di Lelio Demichelis
Cosa significa sovversivo e cosa e chi è davvero sovversivo? Certo è un concetto scivoloso, contraddittorio, soprattutto pericoloso. Ma anche chiarissimo.
Libertà, diritti dell’uomo (in tutte le declinazioni possibili), autonomia, autogoverno, anticapitalismo, uguaglianza, emancipazione e liberazione, pensiero critico, responsabilità verso la Terra e gli altri, solidarietà, immaginazione, utopia, resistenza anche passiva (e quindi non solo quella che celebriamo ogni 25 aprile), empatia, solidarietà, sciopero, lotta di classe, persino democrazia sono concetti e principi considerati spesso e sempre più sovversivi – per tacere di rivoluzione. Sovversivi ovviamente per chi associa a sovversione la distruzione dell’ordine dato, o una minaccia ai propri interessi e privilegi, al proprio potere – come Trump che manda i marines a combattere quelli che considera i sovversivi criminali di Los Angeles che protestano contro le disumane deportazioni in massa dei migranti e quindi contro le sue politiche autocratiche e fasciste. Ma sovversive anche per quei molti che preferiscono fuggire dalla libertà (e rimandiamo a Erich Fromm) e dalla fatica di pensare con la propria testa (e rimandiamo a Kant) e cercano/invocano qualcuno (oggi un populista/sovranista, un neo-fascista/tecno-fascista o un tecnocrate o una app o l’intelligenza artificiale o un coach o un influencer) che pensi e decida e agisca per loro, tanto basta pagare, perché la minorità (come la rassegnazione) è comoda e non crea problemi.
Ma sovversivo ha – etimologicamente – anche un senso positivo di alterare/rimuovere qualcosa di sbagliato, ovvero: sovvertire illibertà, ingiustizia, eteronomia, sfruttamento, ecocidio dovrebbe essere un principio e un imperativo umano e politico di indubitabile e universale potenza etica e morale. E quindi – in questo senso appunto positivo e trasformativo – sovversivo è stato certamente Socrate; sovversivi sono stati Gandhi e Martin Luther King e prima di loro Marx, e poi la Scuola di Francoforte – arrivando (elenco molto parziale) a Greta Thunberg e agli scienziati del clima che ci allarmano sulla devastazione ambientale che il sistema tecno-capitalista e tutti noi con esso stiamo producendo e che ci chiedono quindi di cambiare radicalmente il modello economico.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Undicesima parte. “Ammettere i propri difetti è privilegio dei forti”: l’intervento di Tomskij al XIV Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) parte I
La NEP è anche un periodo in cui emergono, in modo particolarmente rilevante, questioni e problemi a ogni livello, dal più superficiale e risolvibile con cambi di mansione o correzione di singoli comportamenti, a quello più profondo e strutturale, irrisolvibile senza modifiche sostanziali, ovvero altrettanto strutturali, al modo di produzione stesso.
Un modo di produzione ibrido non è destinato a durare a lungo: su questo concorda l’attuale storiografia incentrata sull’esperienza sovietica, prevalentemente autoctona (anche perché fuori dal perimetro russo han preso l’argomento, preparato la colata di cemento e chiuso tutto nella prima cassaforma a disposizione), ivi compresa la sua maggior parte revisionistica:
Parliamo, nella fattispecie, di quella storiografia russa démodé, figlia della restaurazione capitalistica di fine secolo, che declina alla sua maniera l’accademismo liberale-liberista-libertario di inizio anni Novanta e che tutt’ora campa nelle sue università e “fondazioni” eterofinanziate (e con marcato accento anglofono).
Parliamo però anche di una storiografia più recente, più à la page che, pur non disdegnando quanto fatto dalla “gestione precedente”, a partire dal Nobel con la voglia sulla pelata fino all’ubriacone che finì il lavoro sporco, è tuttavia nostalgica dei bei tempi andati, più che altro in termini di prestigio e potenza internazionali.
Entrambe queste storiografie, sulla falsariga della “libertà” o dell’esperienza cinese, periodicamente convergono su come sarebbe potuta essere la propria NEP se avesse vinto Bucharin, magari passando direttamente da Bucharin a Soros, nel primo caso, o da Bucharin a Putin, nel secondo, senza passare dal via del socialismo realizzato1. Di fatto, auspicando una transizione al capitalismo, e poco conta se oligarchico e transnazionale o capitalistico di Stato, che sarebbe dovuto essere la morte naturale della NEP, anziché e al posto dell’instaurazione della proprietà interamente sociale dei mezzi di produzione e della conduzione pianificata degli stessi. Come diceva un sensei nippo-statunitense in un film d’altri tempi, non si può camminare a lungo in mezzo alla strada. O di qua, o di là.
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7 luglio 1960-7 LUGLIO 2025, Morti di Reggio Emilia. La Repubblica delle nostalgie
di Fulvio Grimaldi
…Di nuovo a Reggio Emilia
Di nuovo là in Sicilia
Sono morti dei compagni per mano dei fascisti
Di nuovo come un tempo
Sopra l’Italia intera
Fischia il vento e infuria la bufera…
Sono morti sui vent’anni
Per il nostro domani
Son morti come vecchi partigiani
Lunedì sera, 7 luglio, a Reggio Emilia, riuniti dalla Costituente contro la Guerra e il Riarmo, da tutte le realtà antifasciste e resistenziali, abbiamo ricordato quanto lo Stato, già allora di Polizia, aveva commesso in termini di violenza sulla vita e sulla coscienza civile democratica.
1960, 7 luglio, Reggio Emilia, 5 lavoratori, che manifestavano pacificamente, sono trucidati da forze dell’ordine, nei secoli fedeli al potere e, in questo caso al governo Tambroni, il primo dalla liberazione e dalla Costituzione antifascista che si regge grazie ai fascisti in maggioranza. Nessun potere atlantico lo disturba. Solo operai e contadini. Il Potere Atlantico interverrà solo per rimuovere Aldo Moro, uomo dell’unità nazionale. Per il resto, tutto a posto. Grazie a Gladio, Anello, P2, Servizi, mafie, governanti obbedienti e, ora, di nuovo fascisti.
1960, 5 luglio, Licata, le forze dell'ordine reprimono nel sangue una manifestazione unitaria di braccianti e operai, sparando contro il corteo guidato dal sindaco Dc Castelli. Ci sarà un morto, Vincenzo Napoli, la prima vittima del "luglio della memoria".
1968, 2 dicembre, Avola, Sicilia, due braccianti, Angelo Sigona e Giuseppe Scibilia, vengono uccisi durante uno sciopero di braccianti, e altri 48 rimangono feriti, in seguito all’uso delle armi da fuoco da parte delle forze dell'ordine
28 dicembre, Reggio Emilia, i fratelli Cervi, 7, partigiani, fucilati dai repubblichini.
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