L’Unione contro tutti, l’Unione contro sé stessa
di Vincenzo Comito
Le “armi” europee (auto, chimica, meccanica) per combattere i colossi mondiali appaiono spuntate, mentre nel “settore” dell’IA la nostra presenza è residuale. I dazi affievoliscono la capacità esportatrice dell’Ue. L'alternativa al bellicismo? Negoziare con Pechino un trattato su commercio e investimenti
Oggi l’Unione Europea e i paesi che ne fanno parte si trovano nella scomoda posizione di combattere contemporaneamente su tre fronti e tutti rilevanti: contro gli Stati Uniti e il suo Presidente, che d’altro canto non fa mistero del suo disprezzo per il nostro continente; ovviamente contro la Russia nostro nemico giurato (è da poco che Bruxelles ha ribadito che le sanzioni alla Russia non saranno tolte se non dopo che il paese avrà ritirato e senza condizioni tutte le sue truppe dal suolo ucraino) e infine contro la Cina, non mancando occasione da parte dei dirigenti dell’UE di cercare di mettere i bastoni tra le ruote a tutte le attività del paese asiatico nel nostro continente.
L’UE contro tutti
Ma le armi europee per combattere contro i tre colossi della politica mondiale appaiono piuttosto spuntate. In campo industriale la maggior parte delle attività tradizionali del nostro continente, anche se per fortuna non tutte, sono in grave difficoltà e senza grandi speranze di ripresa (l’auto, sotto i colpi del cambiamento tecnologico, del rallentamento del mercato della UE, della concorrenza cinese, dei dazi di Trump; la chimica, sotto quelli degli alti costi dell’energia, in Europa almeno di quattro volte superiori a quelli di Cina e Usa, del mercato che ormai si trova di nuovo per la gran parte in Cina e Usa; la meccanica, ancora sotto i colpi della concorrenza cinese), mentre nei settori avanzati, che costituiscono ormai il cuore dell’economia, la nostra presenza è praticamente residuale, tranne che in alcuni ridotti sottosettori.
Ora i dazi di Trump minacciano di affievolire fortemente anche quello che è ancora un grande punto di forza dell’economia dei paesi dell’UE, la sua capacità esportatrice. E non va certo molto meglio in campo militare: si racconta, per esempio, che in Francia ci siano soltanto 200 carri armati operativi e in Italia addirittura 50. Non sappiamo se tali cifre sono corrette, ma perlomeno esse fotografano sostanzialmente dei sentimenti diffusi al riguardo
L’Europa e il keynesismo militare
Ma ora, mentre la von der Leyen e i suoi amici cercano di varare un improbabile piano per il riarmo, si progettano anche invii di truppe in Ucraina e mentre sempre da Bruxelles si suggerisce ai cittadini europei di fare scorte di cibo e di altri beni essenziali in vista di un’invasione russa, le istituzioni europee si mostrano totalmente ostili ai colloqui di pace sponsorizzati da Trump e sperano ardentemente che essi falliscano. Peraltro, in Gran Bretagna il premier Starmer, leader di quello che era stato il partito laburista che nel primo dopoguerra aveva inventato lo stato sociale, taglia ora i sussidi a tre milioni di poveri per poter aumentare le spese militari. Quale rovesciamento di fronte! Ma tale decisione suggerisce che inevitabilmente per finanziare una guerra molto improbabile si taglieranno anche in molti altri paesi le spese sociali e quelle per l’ambiente.
Intanto il presidente Macron, autoelettosi capo militare della UE insieme al suo amico Starmer, vorrebbe raddoppiare le spese del suo paese per la difesa, ma già ora, prima di questa decisione, il suo Governo non sa come far quadrare i conti pubblici dissestati quasi come quelli italiani. Ma già, come a suo tempo con Luigi XIV, con Macron l’intendance suivra? Intanto comunque egli ha fatto passare un messaggio: i cannoni invece delle pensioni.
Non abbiamo dubbi che anche il buon filosofo Pangloss, seguendo la von der Leyen, sarebbe d’accordo sul fatto che, come dicevano i romani, per preparare la pace bisogna riarmarsi il più possibile. Ma la von der Leyen e i suoi amici omettono di ricordare in cosa consistesse la pace romana. Come riferisce Tacito riportando le parole di un capo barbaro, “(i romani) fecero un deserto e lo chiamarono pace”.
Il keynesismo militare sarà il salvagente di un vecchio continente in via di declassamento economico o invece dilapideremo i nostri soldi per parcheggiare dei carri armati in degli hangar, come suggerisce Thomas Piketty? (Chavagneux, 2025). In effetti, la decisione di spendere miliardi in nuovi armamenti non beneficia nessuno se non i militari che ne saranno certamente entusiasti e gli industriali del settore, due potenti gruppi di interesse (Hautcoeur, 2025), oltre che ovviamente dei dirigenti europei che, trovandosi con il cervello vuoto di idee, hanno trovato un modo per riempirlo almeno parzialmente.
Ma alla fine l’esito della guerra dell’Ue contro tutti non potrà che avere un esito: l’organizzazione di Bruxelles sarà messa in un angolo buio e pregata di non disturbare oltre.
Due possibili alternative al bellicismo
Una proposta alternativa che ci permettiamo di suggerire ai bellicosi funzionari di Bruxelles, peraltro senza grandi speranze che essa sia accolta, sarebbe quella che essi si imbarcassero al più presto per Pechino per negoziare un trattato sul commercio e sugli investimenti reciproci che porterebbe qualche vantaggio. La cosa acquista tanto più senso dopo la bordata dei dazi di Trump. Penso che essi sarebbero accolti a braccia aperte. Ma fare la cosa giusta non può certo venire in mente ai dirigenti della UE e a politici come Macron, Starmer, Meloni, Merz e via di seguito. Ma si tratterà probabilmente di una scelta obbligata.
Per altro verso l’Europa avrebbe certo bisogno di un grande piano di investimenti che languono in effetti da parecchio tempo. Esso dovrebbe servire per rinnovare l’economia e indirizzarla verso le attività avanzate, nonché per il rilancio del welfare state e la lotta all’inquinamento. Ma anche in questo caso non vale neanche la pena di parlarne, Bruxelles appare sorda al riguardo.
La sfida “esistenziale” dell’IA generale
Si tratta di un quadro inedito e molto preoccupante. L’umanità si trova oggi davanti ad almeno tre sfide esistenziali, quella nucleare, quella ambientale e quella rappresentata dagli sviluppi dell’intelligenza artificiale. In questo momento è quest’ultima che sembra la più minacciosa. E su questa concentreremo l’attenzione.
Thomas L. Friedman è uno dei più noti giornalisti Usa; importante collaboratore del New York Times, ha vinto in passato tre premi Pulitzer per il giornalismo. Il 25 marzo ha pubblicato un articolo sul suo giornale di riferimento (Friedman, 2025), articolo frutto di alcune riflessioni derivate da un viaggio, compiuto nello spazio di una settimana, prima a Washington e poi a Pechino.
Premettiamo che il raggiungimento della intelligenza artificiale generale, cioè di sistemi in grado di raggiungere le capacità della mente umana ed anzi di superarle, è oggi l’obbiettivo dichiarato dei centri di ricerca e delle grandi imprese che operano nel settore; c’era chi, anche degli scienziati molto autorevoli, come il nostro Federico Faggin, pensava che tale livello non sarebbe mai stato raggiunto essendo impossibile da ottenere, chi invece fissava il suo raggiungimento prima verso il 2040, poi verso il 2030.
Ora l’articolo di Friedman parte dalla constatazione che nel settore dell’IA non esistono che gli Stati Uniti e la Cina, mentre il resto del mondo, a partire dall’Europa, non conta niente. Possiamo aggiungere all’idea di Friedman che in realtà il nostro continente porta certamente il suo contributo, ma solamente fornendo agli Stati Uniti scienziati europei esperti del settore e che trovano in Usa condizioni di lavoro più favorevoli (peraltro bisogna ora aggiungere Trump permettendo), nonché molti capitali che ogni anno si dirigono verso gli Stati Uniti: si parla di circa 300 miliardi all’anno. Peraltro, le recenti conquiste della cinese DeepSeek nel campo dell’IA, ottenute con mezzi finanziari modesti, indicano che non sono i soldi che mancano all’UE per essere una protagonista del settore, ma le idee, l’organizzazione, la capacità di guardare avanti e la voglia di accettare le sfide del nostro tempo.
Incidentalmente, una situazione analoga si riscontra anche nel campo dei robot umanoidi, un settore che peraltro dialoga strettamente con i programmi di IA e che presenta prospettive enormi. Anche in questo campo dominano Stati Uniti e Cina (forse anche il Giappone); una delle imprese precorritrici del settore è stata la francese Aldebaran, che per un certo tempo figurava come una delle star dei saloni del tech nel mondo, ma che ora è in amministrazione controllata (Fagot, 2025). Eppure, una volta i paesi della UE erano all’avanguardia nella robotica. Una sorte ancora peggiore era già toccata qualche settimana fa alla scandinava Northvolt, che era la più importante pedina europea per fare concorrenza ai cinesi nei pannelli solari e che è ormai fallita.
Segnaliamo incidentalmente che qualche anno fa a Bruxelles era stato varato un modesto piano di intervento per l’IA, ma di esso sembra si siano perse le tracce.
Nell’articolo Friedman, sulla base dei colloqui avuti e dei seminari a cui ha assistito nelle due capitali, pensa che l’IAG arriverà entro il 2026 o al massimo entro l’anno successivo, con una qualche probabilità che arrivi persino entro quest’anno. A questo punto Friedman suggerisce che i presidenti di Stati Uniti e Cina si incontrino al più presto e invece di parlare di Taiwan, di dazi e cose del genere si intendano su come introdurre dei sistemi di controllo dei programmi di IA che li mettano in condizioni di non nuocere. L’alternativa sarebbe potenzialmente la scomparsa dell’umanità.
In prima lettura non si può apparentemente che concordare con tale disperato appello del giornalista statunitense. Poi, a una seconda riflessione, ci rendiamo invece conto che per quanto riguarda la Cina (ma ovviamente ci potremmo sbagliare) le derive dell’IA sono già sotto controllo nel paese e che tutte le minacce vengono potenzialmente invece dagli Stati Uniti di Trump; e il problema allora è come convincere l’uomo a trovare delle soluzioni ragionevoli al problema, anche magari incontrandosi con Xi Jinping. Impresa veramente difficile.
La regolamentazione europea e le lobby americane
Sempre con riguardo al controllo dell’IA appare utile ricordare a che punto siamo al livello dell’UE. L’Unione Europea, apparentemente conscia del pericolo rappresentato da uno sviluppo incontrollato di tale tecnologia, ha varato la prima parte di un AI Act nel febbraio del 2025 e la Commissione dovrebbe pubblicare nel maggio di questo anno un testo complementare che avrebbe l’obiettivo di rafforzare ulteriormente il quadro regolamentare. In linea di principio l’IA Act imporrebbe alle imprese del settore delle regole stringenti sull’impiego di certe funzionalità dell’IA, mentre i funzionari di Bruxelles qualificano le normative varate come le più rigide al mondo.
Naturalmente è in corso una feroce attività di lobbying da parte delle società Usa del settore contro tali norme e non sono mancate certo delle pressioni molto sostanziali da parte dell’amministrazione Trump.
Tra l’altro un dirigente di Meta ha qualificato la legislazione europea come contenente delle esigenze impossibili da soddisfare e tecnicamente irrealizzabili (Boone, 2025).
Ora, secondo un testo pubblicato l’11 marzo dalla UE in preparazione dei documenti di applicazione delle norme, la valutazione della riduzione dei rischi dei modelli di IA sarebbero lasciate su di una base solo volontaria e non più obbligatoria alle imprese, come si prevedeva invece in febbraio (Boone, 2025; Heikkila, Moens, 2025). Siamo alla farsa. Così il tentativo di annacquare le regole sembra andare avanti con successo; certo qualcuno avrà deciso che non bisogna disturbare troppo gli americani. Naturalmente si sono levate molte voci critiche su questi “ritocchi” e non sappiamo come andrà a finire. Ma non siamo molto fiduciosi.
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