Fai una donazione

Questo sito è autofinanziato. L'aumento dei costi ci costringe a chiedere un piccolo aiuto ai lettori. CHI NON HA O NON VUOLE USARE UNA CARTA DI CREDITO può comunque cliccare su "donate" e nella pagina successiva è presente (in alto) l'IBAN per un bonifico diretto________________________________

Amount
Print Friendly, PDF & Email

krisis.png

Lo Stato di Israele sta implodendo

di Giacomo Gabellini

Un conflitto permanente, senza via d’uscita: da Gaza alla Cisgiordania, il progetto sionista affronta la sua crisi più profonda

Jews pray in the Western Wall 1 resultTribalismo etnico-religioso, degenerazione coloniale, perdita della deterrenza, isolamento internazionale: Giacomo Gabellini analizza le dinamiche che stanno minando la tenuta di Israele. Dall’illusione di supremazia alla catastrofe annunciata, passando per l’uso strumentale del «caos controllato» in Medio Oriente, l’Operazione al-Aqsa Flood, lanciata da Hamas il 7 ottobre 2023, ha solo accelerato un processo di implosione già in atto. Nella conclusione del suo ultimo libro, «Scricchiolio – Le fragili fondamenta di Israele», l’analista sostiene che il destino dello Stato ebraico è segnato non dalla forza dei nemici, ma dalla cecità strategica della sua leadership.

* * * *

Nel 2012, Henry Kissinger confidò a una giornalista che, a suo avviso, «tra 10 anni, Israele non esisterà più» 1. Un vaticinio sbalorditivo, che scaturiva con ogni probabilità da alcune delle valutazioni contenute all’interno di un rapporto coevo dell’ente supremo che coordina le attività delle 16 agenzie di intelligence statunitensi.

Nel documento si sosteneva che «la leadership israeliana, con il suo crescente sostegno ai 700.000 coloni insediati in Cisgiordania, sta perdendo ogni contatto con le realtà politiche, militari ed economiche del Medio Oriente»2 . Il rapporto proseguiva spiegando che «la coalizione del Likud è profondamente complice in quanto influenzata dal potere politico e finanziario dei coloni, e sarà chiamata ad affrontare conflitti interni di intensità crescente».

Di conseguenza, «in un contesto contrassegnato dal “risveglio islamico”, dall’ascesa dell’Iran e dal declino egemonico degli Stati Uniti, l’impegno degli Usa nei confronti di Israele sta diventando impossibile da sostenere e conciliare con politiche coerenti con la tutela dei fondamentali interessi nazionali, che includono la normalizzazione delle relazioni con i 57 Paesi islamici».

In modo esplicito, il rapporto proseguiva dicendo che «Israele ingerisce pesantemente negli affari interni degli Stati Uniti». Risultato: «Il governo degli Stati Uniti non dispone più delle risorse materiali né del sostegno pubblico necessari a continuare a finanziare Israele. I miliardi di dollari in sussidi diretti e indiretti forniti a Israele a partire dal 1967 sono oggetto di crescente contestazione da parte dei contribuenti statunitensi che si oppongono al continuo coinvolgimento militare americano in Medio Oriente».

Anche perché «l’infrastruttura segregazionista dell’occupazione israeliana, evidenziata dalla discriminazione legalizzata e da sistemi giudiziari sempre più separati e ineguali, non deve più essere finanziata dai contribuenti statunitensi o ignorata dal governo statunitense». Conclusione finale: «Israele non può essere salvato più di quanto poteva esserlo il Sudafrica dell’apartheid». Significativamente, lo studio si intitolava Preparing for a post-Israel Middle East.

La svolta «post-israeliana» prevista dall’intelligence statunitense non scaturiva quindi da una crisi strutturale del progetto geopolitico sionista. Il primato del ceppo ebraico non è mai stato oggetto di contestazione a livello domestico. Nasceva dall’incremento vertiginoso dei costi politici ed economici che gli Stati Uniti sono chiamati a sostenere per salvaguardare la «relazione speciale» con Israele e dalle implicazioni del graduale stravolgimento degli equilibri demografici all’interno di una società altamente tribalizzata come quella israeliana.

L’avanzata delle componenti ultraortodossa e sionista-religiosa (prevalentemente sefardite) a scapito di quella laica (prevalentemente ashkenazita) ha condizionato pesantemente le modalità di declinazione del principio della supremazia ebraica. Basti pensare che, a differenza dei sionisti-religiosi, fedeli allo Stato in omaggio alle teorizzazioni di Abraham Yitzhak Kook, i «timorati di Dio» che si occupano in via esclusiva dello studio della Torah non riconoscono la legittimità di Israele e sono esentati dal servizio militare.

Il quadro politico israeliano ne è uscito profondamente stravolto, con la nascita di nuovi partiti rappresentativi delle istanze dei coloni, il declino delle forze di ispirazione socialista e la radicalizzazione delle compagini tradizionali – Likud in testa – in materia di gestione dei territori occupati, trattamento da riservare alla popolazione palestinese ivi residente e configurazione degli assetti istituzionali.

La teoria del «muro di ferro» coniata da Vladimir Jabotinsky è assurta a stella polare del Likud, di movimenti come il Gush Emunim e più in generale di quella élite liberista dal punto di vista economico, occidentalista sotto il profilo della collocazione geopolitica e «orientalista» in materia culturale che ha assunto le redini di Israele.

Combinandosi alla segmentazione della società in compartimenti stagni, questa deriva radicale ha condotto a un profondo perturbamento del clima interno, trasformando il confronto tra le tre anime di cui si compone la “famiglia ebraica” in un gioco a somma zero senza esclusione di colpi incentrato sulla “proprietà dello Stato”. Una contesa dalla quale la nutrita e sempre più alienata comunità araba è rimasta rigorosamente tagliata fuori.

La convalida della Legge fondamentale che definisce Israele «Stato degli ebrei» ne ha formalizzato la subalternità (approvata dalla Knesset il 19 luglio 2018, ndr) e riproposto con forza l’antica e mai risolta contraddizione cruciale tra aspirazioni liberal-democratiche e carattere etnocentrico (ed etnocratico) dello Stato, dotato di istituzioni concepite e costruite su misura del ceppo dominante. L’inconciliabilità dei due aspetti emerge limpidamente tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, dove i palestinesi non beneficiano dei diritti di cittadinanza e subiscono la violenza crescente perpetrata dai coloni con la collaborazione attiva degli apparati militari israeliani e del governo.

Per Alon Pinkas, nel territorio corrispondente a Eretz Yisrael esistono attualmente «due Stati ebraici, dotati di visioni contrastanti in merito all’essenza stessa della nazione […] Israele si sta gradualmente ma inesorabilmente dividendo (in uno Stato high-tech, laico e liberale, nda) […] e in una teocrazia ultranazionalista e suprematista ebraica, con tendenze messianiche e antidemocratiche che incoraggiano l’isolamento […]. Il sionismo […] si è trasformato attraverso il movimento dei coloni e dei fanatici in una cultura politica simile quella, basata sul concetto di redenzione dell’antico regno nella terra ancestrale, propugnata nell’antichità dalla setta dei Sicarii»3.

Il verdetto pronunciato dall’ex diplomatico israeliano è schiacciante: «in Israele infuria una guerra civile. Non ha ancora raggiunto i livelli di Gettysburg, ma la profondità e l’ampiezza dello scisma stanno diventando evidenti. I due sistemi valoriali sono semplicemente inconciliabili. Il principio secondo cui stiamo combattendo gli arabi (o l’Iran) per la nostra sopravvivenza rimane l’unico filo conduttore, ma si sta indebolendo.

Si tratta di una declinazione in negativo dell’identità nazionale: designa un nemico comune, perché non è in grado di individuare ciò che ci unisce per quanto riguarda il tipo di società e di Paese che vogliamo essere […]. Il divario è reale, si allarga e diventa incolmabile. Le spaccature politiche, culturali ed economiche stanno crescendo, accompagnati dalla propaganda tossica mascherata da discorso politico. Anche la più fondamentale delle colonne portanti, la Dichiarazione d’indipendenza, viene ora messa in discussione e alcuni dei suoi principi fondamentali sono divenuti oggetto di contesa politica».

L’Operazione al-Aqsa Flood si è inserita in questo scenario contrassegnato da elevati livelli di conflittualità intra- e inter-etnica. Lo studioso ebreo-statunitense Norman Finkelstein l’ha inquadrata come una rivolta degli schiavi4, che al pari di tutti i fenomeni analoghi verificatisi nel corso della storia – da quella di Spartaco contro i romani a quella di Nat Turner in Virginia nel 1831 – era inesorabilmente destinato a lasciare dietro di sé una lunga scia di sangue e devastazione. Con la sostanziale differenza che l’iniziativa militare shock and awe sferrata il 7 ottobre perseguiva finalità strategiche ben precise.

Scatenandola, Hamas ha giocato il tutto per tutto. I suoi dirigenti erano perfettamente consapevoli che la normalizzazione dei rapporti tra Israele e alcuni importanti Paesi sunniti avviata attraverso gli Accordi di Abramo, combinata al «collaborazionismo» sempre più smaccato dell’Autorità nazionale palestinese e alla crescente repressione militare nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est e alla svolta autoritaria messa in cantiere dal governo di Tel Aviv, rischiavano seriamente di condannare la causa palestinese all’irrilevanza.

Hanno quindi ritenuto inevitabile passare all’azione, nel tentativo di restituire alla questione palestinese la centralità internazionale perduta. Nonché di compattare l’intera umma musulmana in difesa di Gerusalemme, insidiata dal processo di giudaizzazione della Spianata delle moschee, e di destabilizzare psicologicamente società e classe dirigente israeliane. Le immagini dei carri armati in fiamme, delle decine di mezzi caduti sotto il controllo delle brigate al-Qassam, delle migliaia di coloni in fuga o catturati e brutalizzati e/o assassinati hanno sfatato molte illusioni che gran parte della popolazione dello Stato ebraico percepiva come certezze granitiche e incrinato pericolosamente il mito della invincibilità israeliana.

A loro volta, l’insicurezza e la confusione instillate tramite l’Operazione al-Aqsa Flood hanno calato Israele in una «terra incognita» disseminata di trappole. Rispondere al colossale smacco subito attraverso un «semplice», consueto «taglio dell’erba» avrebbe significato palesare agli occhi dell’opinione pubblica e dei nemici la debolezza strutturale dello Stato israeliano, con contestuale rafforzamento di Hamas sotto il doppio profilo politico e militare.

Come ha osservato un acuto esperto di questioni strategico-militari, «i peculiari parametri della logica strategica israeliana impongono la distruzione di Gaza con la forza militare, altrimenti Tel Aviv dovrà affrontare l’irreparabile discredito in materia di deterrenza e, di conseguenza, il collasso del progetto dei coloni. O la capacità dei palestinesi di portare minacce a bassa intensità verrà distrutta, oppure la popolazione ebraica sarà costretta a fuggire […]. In qualità di Stato-guarnigione escatologico ed espressione del colonialismo di insediamento, Israele non è in grado di relazionarsi normalmente con i palestinesi, e l’unica via d’uscita dall’impasse consiste in una sconfitta strategica israeliana o nella devastazione totale di Gaza. Questo non è un puzzle che prevede una soluzione pulita» .5

Il ripristino della deterrenza, tuttavia, passava necessariamente per lo scatenamento di una reazione sproporzionatamente violenta, da accompagnare a un’invasione terrestre della Striscia di Gaza destinata inesorabilmente a trasformarsi in un conflitto casa per casa su uno spazio angusto, sovrappopolato e controllato dal nemico. Si sarebbe così aperta una guerra lunga, sanguinosa e pericolosamente passibile di allargamento, ma che se condotta con successo, pianificavano i decisori di Tel Aviv, avrebbe condotto a un riassetto degli equilibri geopolitici areali nettamente favorevole a Israele, coerentemente con gli indirizzi strategici tratteggiati da Oded Yinon nel 1982 – frammentare il Medio Oriente su basi etniche o confessionali .6

Un traguardo il cui raggiungimento richiedeva la preliminare demolizione dell’architettura di sicurezza costruita da Ariel Sharon, che lo scenario definito dall’Operazione al-Aqsa Flood rendeva attuabile. Prima del 7 ottobre, la «soluzione» basata sul taglio periodico dell’erba a Gaza, mantenuta simultaneamente in precaria sopravvivenza dai fondi qatarioti, era ritenuta sostenibile. Anche perché consentiva alle autorità di Tel Aviv di concentrare gli sforzi sull’espansione degli insediamenti nei territori occupati, nell’ambito di un lento ma costante e inesorabile processo di inglobamento della Cisgiordania e del Golan. L’avanzata dei coloni spostava i «confini mobili» di Israele sempre più a Est, senza suscitare clamore e indignazione a livello internazionale.

L’onda d’urto scatenata dalle azioni perpetrate da Hamas il 7 ottobre 2023, aggravate dai colossali rovesci in materia militare e di intelligence che l’ex direttore dell’Mi6 riconduce alla «compiacenza istituzionale» 7 di Tel Aviv, ha alimentato un clima favorevole a un radicale cambio di paradigma. Ha cioè costruito consenso interno attorno all’opzione relativa alla «vittoria decisiva», implicante l’annichilimento del popolo palestinese.

Da un sondaggio realizzato dalla Tel Aviv University nel gennaio 2024,8 quando il numero di vittime mietute da Israele nella Striscia di Gaza veleggiava verso quota 30.000, è emerso che il 94% degli ebrei israeliani e l’82% della popolazione totale ritenevano che Tsahal avesse impiegato «una forza adeguata o insufficiente». Circa l’88% di tutti gli ebrei israeliani era convinto che il numero di palestinesi uccisi o feriti a Gaza fosse giustificato dalla guerra. Allo stesso tempo, appena il 27% degli ebrei israeliani si dichiarava a favore di una soluzione a due Stati e il 38% sosteneva l’annessione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza associata alla concessione di diritti limitati ai palestinesi.

La popolazione israeliana appoggiava quindi la campagna militare di intensità senza precedenti sferrata in seguito ai fatti del 7 ottobre, concepita quantomeno per ridimensionare la presenza palestinese della Striscia di Gaza. In vista della sua ricolonizzazione, da portare avanti simultaneamente all’analogo processo in corso ormai da decenni nei territori della Cisgiordania. La creazione di Eretz Yisrael, a cui aspirano dichiaratamente il Gush Emunim ed esponenti politici come Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, rappresenterebbe il premio finale per il sacrificio di vite ebraiche consumato nei mesi successivi al 7 ottobre.

Una soluzione del genere porterebbe alla nascita di uno Stato etnicamente omogeneo, ponendo la classe dirigente nelle condizioni di sottrarsi definitivamente al lacerante trilemma spazio-ebraicità-democrazia che dal 1967 grava come un macigno su Israele. Nel qual caso, l’eco della vittoria risuonerebbe in lungo e in largo, rincuorando le famiglie dei caduti, ricompattando le tribù interne e confinando al dimenticatoio i problemi giudiziari di Netanyahu.

Si avverte, in questo genere di progetti, la tensione sempre più acuta e difficilmente sostenibile tra la forma di sionismo ispirata ai principi dei «padri fondatori», condivisa dalle componenti laiche della società, e la teologia «volontarista» propugnata dai seguaci del rabbino Kook. Se la prima innesta simbologie religiose su un approccio di carattere nazionale in un’ottica di rafforzamento dell’autorità statale, la seconda attribuisce allo Stato una valenza esclusivamente religiosa.

Ne discende una specifica scala valoriale che antepone l’ebraicità dello Stato al suo carattere democratico, e rende non negoziabili una serie di istanze cruciali, come la ricostruzione di Eretz Yisrael. Le categorie del politico cedono così il passo a una teologia apocalittica che punta ad accelerare la Redenzione.

Occorre, per usare il linguaggio kabbalistico tipico dei circoli di Merkaz HaRav, liberare le scintille di luce mescolate alle tenebre e ricongiungersi a Dio in anticipo sulla scadenza prefissata. E quindi, declinando il concetto in termini “profani”, abbracciare un agire politico inteso a “far precipitare gli eventi”: «nell’atto estremo di Yigal Amir, nel “sacrificio” di Baruch Goldstein, nell’occupazione e poi nella resistenza dei coloni del Gush Emunim sullaTerra, in qualsiasi “situazione di fatto” creata in nome di Eretz Yisrael, l’idea di “accelerare la fine” si conferma il cuore del pathos della rivoluzione nazional-religiosa».9

L’idea di “far precipitare gli eventi” potrebbe tuttavia rivelarsi meno vantaggiosa del previsto. Alle frontiere, Egitto e Giordania hanno messo in chiaro che le azioni di Israele minacciano la tenuta degli accordi di pace raggiunti decenni addietro. Sul piano mediorientale, l’Asse della Resistenza affila le armi, la Turchia furoreggia, l’Arabia Saudita ha congelato il processo di normalizzazione e gli Accordi di Abramo vacillano vistosamente. D’altro canto, il danno arrecato alla reputazione internazionale di Israele dall’Operazione Iron Swords è colossale: una reazione calibrata, osserva Amos Harel, avrebbe garantito a Israele l’opportunità di «vestire i panni che predilige: quelli della vittima, del perseguitato, del sofferente».10

La campagna militare posta concretamente in essere ha condotto a un risultato diametralmente opposto: «mentre il numero di vittime e di abitazioni distrutte aumenta di giorno in giorno, il marchio di Caino su Israele diventa sempre più grande […]. Israele si è consegnato al club dei Paesi emarginati, marchiati e isolati, oggetto di riprovazione globale».

Il capitale morale e politico assicurato al popolo ebraico dalla Shoah, così decisivo per la nascita dello Stato di Israele, è andato dissolto, investito completamente per alimentare il dispositivo militare e ottenere tolleranza verso pratiche altrimenti indifendibili. Il risultato è coinciso con un radicale cambio di percezione internazionale di Israele, riconosciuto al giorno d’oggi come una forza temibile e spietata, da ammirare o detestare a seconda delle visioni, ma ormai sprovvisto dei requisiti per vestire il ruolo di vittima che i rappresentanti politici di Tel Aviv pretendono di assegnargli.

Il fenomeno è tutt’altro che nuovo, ed era stato puntualmente segnalato con accuratezza nel 2006 dallo storico Tony Judt, secondo cui «le contraddizioni insite nel modo in cui Israele si presenta – “siamo molto forti/siamo molto vulnerabili”; “decidiamo del nostro destino/noi siamo le vittime”; “siamo uno Stato normale/ pretendiamo un trattamento speciale” – fanno parte dell’identità distintiva del Paese quasi dall’inizio. E l’insistente enfasi sull’isolamento e sulla unicità che lo caratterizzano, oltre alla pretesa di essere allo stesso tempo eroe e vittima, un tempo formavano parte del vecchio fascino alla Davide contro Golia. Oggi, però, il mondo considera la narrativa nazionale israeliana di vittimismo e prepotenza semplicemente grottesca, sintomo di una specie di disfunzione cognitiva collettiva che ha colpito la cultura politica di Israele. E la mania di persecuzione – “tutto il mondo è contro di noi” – coltivata per lungo tempo, non suscita più simpatie. Al contrario, dà vita a paragoni molto poco piacevoli».11

Perfettamente riscontrabile già all’epoca in cui fu formulata, la denuncia di Judt appare vieppiù calzante se applicata allo scenario contemporaneo. In Cisgiordania, la crescente violenza dei coloni, spesso sostenuta dalle unità militari israeliane, è sempre suscettibile di innescare una nuova Intifada a cui movimenti come Gush Emunim potrebbero reagire imprimendo una brusca accelerata ai progetti di pulizia etnica di Giudea e Samaria.

L’escalation nei Territori occupati aumenta automaticamente lo stato di fibrillazione degli arabi d’Israele, la cui eventuale sollevazione nelle città miste riprodurrebbe lo scenario materializzatosi nella primavera del 2021, quando ampie componenti della comunità arabo-israeliana insorsero nella delicatissima fase in cui parte assai rilevante di Tsahal era impegnata in un periodico «taglio dell’erba» nella Striscia di Gaza.

Il pericolo di una saldatura del fronte interno con quello esterno resta sempre dietro l’angolo. Specialmente alla luce del trattamento repressivo riservato in seguito ai fatti del 7 ottobre agli arabo-israeliani, incriminati in numero rilevante per aver postato sui social network messaggi di solidarietà nei confronti dei palestinesi della Striscia di Gaza e resi destinatari del divieto di organizzare manifestazioni pubbliche a sostegno di un cessate il fuoco.

Di per sé, Hamas non pone alcuna minaccia esistenziale a Israele, ma l’illusione coltivata nel corso dei decenni dalle classi dirigenti di Tel Aviv di poter risolvere problemi politici per via militare sta facendo scivolare lo Stato ebraico su un pericoloso piano inclinato che conduce al conflitto regionale. Uno scontro dagli esiti imprevedibili, ma indubbiamente gravido di enormi conseguenze sia per la sicurezza che per la stabilità interna di Israele.

In base a un erroneo calcolo strategico risalente all’epoca Obama, gli Stati Uniti avevano edificato la propria postura mediorientale su due pilastri fondamentali: sostegno a Israele in quanto strumento di penetrazione statunitense nella regione e riabilitazione dell’Iran, fondamentale «perno geopolitico» da reclutare nel proprio schieramento in un’ottica di accerchiamento della Russia, marginalizzazione della Cina e bilanciamento dell’espansionismo panturanico della Turchia. Occorreva, in altri termini, modulare un equilibrio delle forze avverso ai due colossi eurasiatici, che pregiudicasse per di più l’affermazione di una potenza egemone in Medio Oriente attraverso la perpetuazione di un “caos controllato” gestibile da remoto.

Il disegno si è arenato sulle insormontabili difficoltà di adattamento al contesto regionale manifestate da Israele, imprigionato dall’orizzonte squisitamente tattico – «temporaneità protratta», per usare un’espressione coniata dagli strateghi israeliani negli anni Settanta – che orienta le decisioni della classe dirigente di Tel Aviv. La cui progettualità (geo)politica è stata gradualmente erosa e depotenziata dal trattamento privilegiato accordato dagli Stati Uniti, tradottosi in hybris smisurata soprattutto nei territori occupati.

«L’occupazione ci ha corrotto, forse in misura maggiore rispetto al sostegno americano»,12 dichiarava amaramente l’ex generale israeliano Mattityahu («Matti») Peled nel 1992. Così, lungi dal servirsi dell’avamposto israeliano per irradiare la propria influenza in Medio Oriente, gli Stati Uniti sono stati risucchiati in quel Medio Oriente da cui intendevano disimpegnarsi dal disordine alimentato in primis proprio da Tel Aviv. E trasformati de facto in un poderoso “randello” di cui la classe dirigente dello Stato ebraico intende avvalersi per regolare definitivamente i conti con l’Asse della Resistenza e il suo cardine iraniano.

Irrigata dal denaro e dall’influenza politica della Israel Lobby, la «relazione speciale» – fatta eccezione per qualche «turbolenza» – ha retto, come certificato dal regolare appoggio politico, economico e militare assicurato da Washington. Eppure, ha sottolineato il generale Israel Ziv, la tenuta del sodalizio è costantemente insidiata da punti critici inaggirabili: «sia per ragioni elettorali che in forza della crescente pressione internazionale, gli Stati Uniti non possono continuare a sostenere Israele […]. Credo pertanto che la finestra del credito americano e internazionale si stia chiudendo».13

In primo luogo perché Israele, Stati Uniti e anche i Paesi europei «sono diventati profondamente interconnessi a livello di strutture di potere, al punto che è difficile valutare se al loro interno detenga maggiore influenza Tel Aviv o Washington. Ciò significa interdipendenza in termini di posizione internazionale di ciascuno e, per estensione, vulnerabilità a qualsiasi cedimento. L’Occidente evita il colonialismo classico, ma persegue fin dalla Seconda Guerra Mondiale una forma di colonialismo finanziario alla costante ricerca di rendite […]. La conseguenza è che, mentre il colonialismo di Israele si manifesta in modo chiaro, la maggioranza globale identifica sia Israele che l’Occidente come soggetti esplicitamente coloniali. Non viene operata alcuna distinzione: il cosiddetto “ordine basato su regole” è considerato soltanto come un’altra iterazione dell’ecosistema coloniale vigente. Pertanto, gli eventi di Gaza, tra le altre cose, hanno scatenato una nuova ondata di sentimento anticoloniale in tutto il mondo».14

Prova ne sono i pronunciamenti della Corte di Giustizia Internazionale e della Corte Penale Internazionale, che su iniziativa di Paesi dotati di peso specifico relativo come il Sudafrica si sono spinti a trascinare sul banco degli imputati uno Stato potente e storicamente protetto dagli Stati Uniti come Israele. Qualora l’impunità di cui lo Stato ebraico ha goduto sin dalla sua nascita dovesse venir meno, la legittimità del cosiddetto «ordine basato su regole» fondato sull’egemonia statunitense crollerebbe di conseguenza. Disintegrandone così la consolidata configurazione a «geometria variabile», che vincola il giudizio sulla condotta dei singoli Paesi a seconda della loro vicinanza strategica all’Occidente.

Emblematica, a questo proposito, è risultata la reazione della classe dirigente di Washington alla notizia relativa all’incriminazione di Netanyahu e Gallant a opera della Corte Penale Internazionale: i senatori repubblicani Tom Cotton, Ted Cruz e Marco Rubio hanno predisposto un disegno di legge inteso a dotare la Casa Bianca degli strumenti per sanzionare i funzionari della Corte coinvolti nelle indagini sugli Stati Uniti e sui loro alleati.15

Quando, nel marzo 2023, il presidente russo Vladimir Putin era stato preso di mira dalla Corte Penale Internazionale per deportazione illecita di bambini ucraini, il senatore Lindsey Graham aveva dichiarato che «la decisione di emettere un mandato di arresto nei confronti di Vladimir Putin è un passo gigantesco nella giusta direzione per la comunità internazionale. È più che giustificato dalle prove».16

Di fronte ai provvedimenti assunti a più di un anno di distanza dal medesimo organismo nei confronti di Netanyahu e Gallant, lo stesso Graham ha tuonato che «se i giudici della Corte fanno questo a Israele, i prossimi saremo noi. Spero che si impongano sanzioni contro la Corte Penale Internazionale per punire questo oltraggio, sostenere i nostri amici in Israele e proteggere noi stessi».17 Secondo quanto denunciato dal procuratore capo della Corte Penale Internazionale Karim Khan ai microfoni della Cnn, «il leader eletto di un importante Paese è venuto da me e mi ha detto molto brutalmente che “questo tribunale è stato creato per l’Africa e per delinquenti come Putin” 18».

La supremazia degli Stati Uniti, sempre più introvertiti, lacerati internamente e titubanti sotto il profilo strategico, è per di più insidiata come non mai dall’attivismo di Cina e Russia. La sovraestensione della superpotenza declinante, chiamata a reggere simultaneamente i fronti israeliano, ucraino e taiwanese, pone crescenti limiti di sostenibilità al coinvolgimento statunitense man mano che il conflitto si protrae palesando le grosse difficoltà riscontrate dall’esercito israeliano tra le macerie di Gaza.

Il numero dei morti, dei feriti, dei mezzi distrutti e danneggiati si è rivelato particolarmente elevato, così come il dispendio di risorse finanziarie e politiche. Per un Paese dalle dimensioni geografiche, demografiche ed economiche contenute, si tratta di problemi di indubbia rilevanza. Il miraggio di una vittoria rapida ha gradualmente lasciato spazio alla prospettiva di una lunga ed estenuante guerriglia urbana, che logora Israele sul triplice piano militare, politico e sociale.

L’insuccesso bellico o un semplice stallo a tempo indeterminato per un verso innescherebbe un gioco allo scaricabarile destinato a riaccendere la conflittualità inter-tribale, aprendo il varco a una crisi intestina altamente distruttiva. Per l’altro, infonderebbe nei nemici la convinzione che il “cane pazzo” israeliano non sia più la belva temibile dell’epoca di Moshe Dayan, ma un animale ferito, confuso e vulnerabile.

Nemmeno l’ombra lunga della bomba atomica potrebbe rivelarsi un deterrente sufficientemente valido a disincentivare un’aggressione esterna. Per Omer Bartov, l’unica via d’uscita da questa situazione pericolosissima «è che Israele dichiari apertamente di avere in mente un fine politico: una risoluzione pacifica del conflitto con una leadership palestinese adeguata e disponibile»,19 di cui promuovere attivamente la formazione. Iniziative simili, sostiene Bartov, «rivoluzionerebbero di colpo la situazione aprendo la strada a passi intermedi da intraprendere sul campo […]. Eppure una linea politica del genere da parte di Israele appare altamente improbabile, soprattutto sotto l’attuale leadership politica, tanto radicale quanto incompetente».

Resta il fatto che i palestinesi non scompariranno. L’eliminazione o una riduzione massiccia della presenza di oltre cinque milioni di persone dalle loro terre è un’opzione irrealistica. Israele ha dimostrato di poter funzionare senza dotarsi di una Costituzione, omettendo cioè di definire una propria identità condivisa. Ma non è più nelle condizioni di sopravvivere sprovvisto di una visione strategica. Ne discende che, qualora non abbandoni la tattica del rinvio permanente per intraprendere una complicatissima ma imprescindibile opera di revisione del proprio passato, implicante la correzione di tendenze che vanno consolidandosi da decenni, Israele rimarrà invischiato nella spirale costituita dall’alternanza tra stragi e tregue che scandisce la storia del Paese fin dalla sua nascita. In un crescendo di violenze sempre più efferato e distruttivo.

Al di là delle colossali e inaccettabili limitazioni in materia di sovranità che implicherebbe per i palestinesi, la soluzione a due Stati non è praticabile. Lo si evince chiaramente dalla distribuzione geografica degli insediamenti ebraici della Cisgiordania; sfrattare parte consistente degli oltre 700.000 coloni che la popolano significa accendere la miccia della guerra civile. Quantomeno in un’ottica di medio-lungo periodo, quella relativa alla creazione di uno Stato unico “dal fiume al mare” garante di pari dignità a tutti i residenti appare invece l’unica prospettiva sensata. Verso la quale, significativamente, sembra abbiano iniziato a orientarsi i settori degli apparati di sicurezza statunitensi maggiormente inclini ad analizzare costi e benefici derivanti dall’appoggio pressoché acritico assicurato a Israele.

Come si legge su Foreign Affairs, «un compromesso sullo Stato unico non è una possibilità futura. Esiste già, indipendentemente da ciò che si possa pensare. Tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano c’è un solo Stato a controllare entrata e uscita di persone e beni, a gestire la sicurezza e a imporre le proprie decisioni, leggi e politiche su milioni di persone senza il loro consenso […]. Israele ha costruito un sistema di supremazia ebraica, che costringe i non ebrei […] a vivere in uno stato di stretta segregazione, separazione e dominazione […]. Israele somiglia a uno Stato di apartheid».

Gli Stati Uniti dovrebbero quindi «cessare di esentare Israele dagli standard e dalle strutture dell’ordine liberale internazionale che Washington anela a dirigere».20 La semplice, eventuale incrinatura della “relazione speciale”, foriera di prestigio e autorevolezza per gli Stati Uniti, obbligherebbe Israele a riconsiderare radicalmente la propria postura, in nome di un adattamento al quadro regionale reso necessario dalle contingenze.

Ancor prima che Hamas sferrasse l’Operazione al-Aqsa Flood, Tamir Pardo si era dichiarato certo che «col passare del tempo, gli arabi tra Mediterraneo e Giordano e anche negli Stati circostanti capiranno che, alla fine, ci sarà un unico Stato, e, per loro, è una prospettiva positiva perché sarà la fine dello Stato ebraico. E chi causerà la fine dello Stato ebraico saremo noi, loro non sanno come vincerci, ci sconfiggeremo da soli perché nel XXI Secolo, nello stesso Stato, non si possono avere cittadini con diritti e cittadini senza. E sfortunatamente i governi di Israele hanno paura di prendere una decisione».21


 

Testo tratto dal volume di Giacomo Gabellini Scricchiolio –Le fragili fondamenta di Israele, edizioni Il Cerchio, 2025.

Licenza Creative Commons CC BY-NC-ND Ver. 4.0 Internazionale.

Note
  1. Cfr. Adams, Cindy, No more Israel, «The New York Post», 17 settembre 2012. ↩︎
  2. Cfr. Lamb, Franklin, United States preparing for a post-Israel Middle East?, «Foreign Policy Journal», 28 agosto 2012. ↩︎
  3. Pinkas, Alon, This Independence Day, Israel has split into two incompatible Jewish states, «Haaretz», 13 maggio 2024. ↩︎
  4. Cfr. Finkelstein, Norman, The slave revolt in Gaza, «Norman Finkelstein Substack», 12 ottobre 2023. ↩︎
  5. Cfr. “Big Serge”, The age of zugzwang, «Big Serge Substack», 14 febbraio 2024. ↩︎
  6. Cfr. Shahak, Israel, (curatore), The Zionist plan for the Middle East, Association of Arab- American University Graduates, Belmont 1982, p. 16. ↩︎
  7. Cfr. Egypt warned Israel days before Hamas struck, Us committee chairman says, Bbc, 12 ottobre 2023. ↩︎
  8. Cfr. The war in Gaza: aims and war management, The Peace Index, gennaio 2024. ↩︎
  9. Cfr, Guolo, Renzo, Terra e redenzione. Il fondamentalismo nazional-religioso in Israele, Guerini e Associati, Milano 2001, p. 254. ↩︎
  10. Harel, Amos, Netanyahu prefers hollow slogans about “total victory” in Gaza over the lives of Israeli hostages, 11 febbraio 2024. ↩︎
  11. Judt, Tony, L’età dell’oblio. Sulle rimozioni del ‘900, Laterza, Bari 2009, pp. 279, 280. ↩︎
  12. Cfr. Too many people are scared to condemn Israel’s crimes against humanity, «The National», 23 gennaio 2024. ↩︎
  13. Cfr. «Israel-Hamas war ended two months ago», Israeli Defense Force general says, «The Jerusalem Post», 6 marzo 2024. ↩︎
  14. Cfr. Crooke, Alastair, Why are Israel and the West unravelling in tandem?, «Strategic Culture Foundation», 20 maggio 2024. ↩︎
  15. Cfr. Solender, Andrew, Congress threatens International Criminal Court over Israeli arrest warrants, «Axios», 29 aprile 2024. ↩︎
  16. Cfr. Goldston, James A., Europe, Israel and the International Criminal Court, «Politico», 20 maggio 2024. ↩︎
  17. Cfr. Turan, Iclal, «If they do this to Israel, we’re next»: Us Senator raises concern over International Criminal Court arrest warrant request, «Anadolu Ajansı», 22 maggio 2024. ↩︎
  18. Cfr. International Criminal Court just for Africans and Putin, “senior leader” told court prosecutor, «Middle East Eye», 21 maggio 2024. ↩︎
  19. Bartov, Omer, The Hamas attack and Israel’s war in Gaza, Council for Global Cooperation, 24 novembre 2023. ↩︎
  20. Cfr. Barnett, Michael; Brown, Nathan; Lynch, Marc; Telhami, Shibley, Israel’s one-State reality, «Foreign Affairs», maggio/giugno 2023. ↩︎
  21. Cfr. Frenquellucci, Pietro, Israeliani contro. La battaglia per i diritti umani dei palestinesi, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2023, p. 184. ↩︎
Autore

Analista geopolitico ed economico, è autore di numerosi saggi, tra cui Krisis. Genesi, formazione e sgretolamento dell’ordine economico statunitense (2021), Ucraina. Il mondo al bivio (2022), Dottrina Monroe. L’egemonia statunitense sull’emisfero occidentale (2022), Taiwan. L’isola nello scacchiere asiatico e mondiale (2022), Dedollarizzazione. Il declino della supremazia monetaria americana (2023). Ha all’attivo numerose collaborazioni con testate sia italiane che straniere.

Pin It

Comments

Search Reset
0
cruzaros
Sunday, 13 July 2025 11:14
preferirei che esplodesse...
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
1
Alfred
Sunday, 22 June 2025 13:37
Permette?
Vorrei rovescire il titolo
L'occidente collettivo (israele e' punta di diamante di questo accrocchio) sta implodendo e per non schiattare (taglio risorse da russia, economie e popolazioni al limite ecc) e' ripartito alla Conquista se non del mondo almeno delle sue aree piu ricche di petrolio.
Il lavoro sporco che fa israele per la Germania e tutto l'occidente collettivo e' questo.
Perche' a quelle parole sfuggite a un ex manager di fondi bisognerebbe dare il risalto che meritano e le conseguenze che necessitano.
Non si dice che uno stato che pratica genocidio e terrorismo in una vasta regione lo fa per noi, cosi, a cuor leggero.
Si puo' anche essere cretini, ma capire l'opportunita' di dire o meno certe cose. Se si e' stati o si crede ancora di essere, manager di questi tempi raramente si sfugge a un narcisismo autoesaltato. Il povero grullo non solo e' questo, ma e' anche in sintonia con quello che sta partorendo l'occidente collettivo. Un genocidio in diretta e schifoso? Neanche piu la briga di dire all'autore di lavori sporchi di farlo con discrezione. C'e' quasi compiacimento nel farlo e promuoverlo e dire ai tre quarti del mondo embe' noi lo facciamo, noi possiamo, pure facendoci i selfie di fronte alle rovine e ai cadaveri. Stessa cosa in libano con i cellulari che esplodono, orgasmi a ripetizione, non solo sionisti. E mille altre cose. Israele e' la punta di diamante di un capitalismo e politici occidentali che hanno seppellito anche il barlume della piccola ipocrisia che coltivavano.
Adesso siamo senza veli e se la Groenlandia e' troppo fredda per essere sfruttata, il canada non vuole diventare suddito diretto dell'imperatore (e' gia suddito di una sua maesta) e la russia non ne vuole sapere di spaccarsi ... sai che c'e' perche' non prendersi quello che una volta era nostro e pieno di petrolio?
Dalla Siria (dove le basi illegali Usa non proteggono certo la popolazione, ma pozzi di petrolio) a tutti gli altri annientando l'Iran che e' l'unico che potrebbe dare qualche grattacapo. Gli altri? Negli altri ci sono basi Usa a tutela e in ... amicizia e poca gente condita a molti cammelli. Se riusciranno a mettere le mani ( dominio diretto, con fantocci, come vi pare) come vedete lo stato delle riserve di idrocarburi in mano all'occidente collettivo?. Potranno chiedere collaborazione di terre rare ai cinesi in cambio di barili di petrolio? Potranno dare contentini all'india perche' si tiene sulle sue? Badare al Pakistan che non rompa i coglioni? Tenere sotto tiro il caucaso non solo russo? Avrebbero avuto questi vantaggio con groenlandia o canada? Dubito. Per questo non credo che una cosa preparata a tavolino da mesi con la farsa delle trattative sia una cosa casuale.
Altrimenti, quali pensate possano essere i lavori sporchi che israele esegue per noi, per i nostri governanti e classi dirigenti? Sapete in quanti brinderanno quando il petrolio e il gas affluiranno copiosi?
Peccato che ci siano da fare guerre e che ci siano popoli che non si faranno rapinare facilmente ... ci penseranno gli eserciti che l'europa sta costruendo in fretta e furia con arsenali annessi.
Tutto bene madama la marchesa?
temo che non andra' liscio, non so voi, ma se i predoni si uniscono per il bottino c'e' il caso che litighino e si combattano tra loro in fase di realizzazione e, soprattutto, in fase di spartizione.
Like Like like 1 Reply | Reply with quote | Quote
0
marku
Saturday, 21 June 2025 17:32
come gli stati canaglia uniti hanno necessità del warfare per sopravvivere ed in questo progetto hanno coinvolto
l'inutile idiota €uropa
l'entità nazisionista
ha percepito che il sempre più vicino disastro gepolitico
del decadente impero del malaffare
finirà presumibilmente in una guerra civile
ponendo così fine al fiume di danaro
che ne permette l'esistenza
pertanto le elites
nazisioniste
hanno lucidamente
necessità di una guerra
non lampo
che trascini
il grande satana
prima che questi si concentri
in via definitiva
sul nemico ideolgico/militare
con conflitto di civiltà
in quella che possiamo ben definire
una patologica
sindrome cinese
per il nazismo sionista
come ben si comprende
è una fida esistenziale
dove le morti dei nemici
e quelle dei propri cittadini
quand'anche fossero milioni e milioni
sono solo
inevitabili effetti collaterali

in alternativa
che muoia sansone con tutti i filistei

PROLETARI DI TUTTO IL MONDO. UNIONE!
Like Like like 1 Reply | Reply with quote | Quote

Add comment

Submit