La Palestina può svegliare l’Occidente?
di Stefano Stella
La questione palestinese può divenire la fiamma che risveglia le coscienze collettive occidentali?
Questa è una domanda fondamentale da porsi in una fase storica in cui la politica occidentale sembra essersi confinata in un convergere di sentimentalismi. Come riportato infatti da Zygmunt Bauman:
“Per l’individuo, lo spazio pubblico non è molto più che un maxischermo su cui le preoccupazioni private vengono proiettate e ingrandite senza per questo cessare di essere private o acquisire nuove qualità collettive; lo spazio pubblico è il luogo in cui si rende pubblica confessione di segreti e intimità privati.”
Il privatismo di matrice post-modernista tende a frammentare qualsiasi appartenenza comune, ogni forma di comunità reale e di senso di valore intersoggettivamente condiviso. Si crea quindi un “nichilismo che avanza”, un moralismo senza morale che, attraverso una retorica vittimistica ed emergenzialista, tende a sopprimere ogni forma di reale dissenso emergente. Questo abisso profondo, non bisogna farsi illusioni, è ancora estremamente egemone negli ambienti delle sinistre post-marxiste; tuttavia la questione palestinese qualche speranza la accende.
In effetti, movimentazioni di questa portata non si vedevano da decenni in Occidente e il valore umano e politico che esse rappresentano non è qualcosa che possa essere sminuito. Le manifestazioni e gli scioperi pro-Pal non sono rivoluzioni; leggerle in questo senso non può che rafforzare il potere costituito.
Sono piuttosto la prova che, nonostante l’egemonia liberale si sia ampiamente sedimentata da diversi decenni attraverso una cultura narcisistica e mercatista, essa non riuscirà mai a scalfire quei — seppur residui — elementi di moralità che ci rendono umani. Esse sono, in altri termini, la prova dell’esistenza di un limite all’apatia politica neoliberale, che si esprime attraverso una chiara voce di indignata resistenza popolare.
Naturalmente, non mancano le solite ricostruzioni mediatiche che vedono in qualche vetrina distrutta e in qualche muro imbrattato l’occasione di delegittimare intere manifestazioni. Un chiaro segnale che, forse dopo molto tempo, negli ambienti di potere si inizia a percepire una minaccia reale, capace di svelare numerose contraddizioni.
Il fatto che le iniziative a favore della Palestina abbiano un carattere critico non implica tuttavia che sia in atto un “risveglio delle coscienze”.
Perché questo avvenga è necessario non solo un lavoro critico ben più strutturato, che riconduca la politica di Israele e il lobbismo sionista al blocco di potere neoliberale incarnato tanto dagli Stati Uniti quanto dall’Unione Europea, ma anche un’operazione culturale profonda capace di ricostituire un telos comune ormai disgregato.
A tal fine risulta fondamentale svolgere un percorso di riconnessione con la propria storia. Questo gesto, è bene specificarlo, non va confuso con un generico elogio al passato o con un nostalgico ritorno a un’epoca dell’oro. Esso è piuttosto un superamento dialettico verso un uomo nuovo, che ritrova le proprie radici di senso in una storia comune.
Tale necessità sembra essere stata notata anche da Karl Marx in una lettera rivolta ad Arnold Ruge quando scriveva:
“Così si vedrà che da tempo il mondo ha il sogno di una cosa, di cui deve solo aver la coscienza per averla realmente. Si vedrà che non si tratta di tracciare una linea fra passato e futuro, ma di realizzare le idee del passato. Si vedrà infine come l’umanità non inizi un lavoro nuovo, bensì attui consapevolmente il suo antico lavoro.”
Nondimeno, l’egemonia liberal-progressista, che tutt’oggi anima le sinistre più o meno radicali, tende sistematicamente a ricondurre all’eredità del passato i germi della disuguaglianza e dell’oppressione. Il sociologo Frank Furedi ha parlato a questo proposito di “paradosso del passato” per indicare la coesistenza di una cultura dominante di estraneità e distacco con una ricerca di radici e di identità a livello individuale.
La decostruzione del passato e dei suoi schemi normativi produce un affievolirsi dell’ethos condiviso e dei processi di riconoscimento sociale a esso legato, lasciando uno svuotamento di senso che costituisce la base di una società dai legami sociali liquefatti e istituzioni aziendalizzate. Il nichilismo capitalistico assume un atteggiamento ostile nei confronti del passato e tende a presentare come emancipatorie narrazioni che demonizzano le tradizioni culturali e le norme sociali che costituiscono la normatività comune. Questo viene svolto nel nome della liberazione del desiderio, della libertà individuale e di un individualismo estremo che non accetta alcuna forma di dialettica democratica.
La ricostruzione di un telos comune richiede una quantità ingente di risorse intellettuali, politiche ed economiche che, quantomeno per il momento, sono pressoché assenti in Occidente. Un’opposizione, anche ferma e feroce, a un genocidio può sicuramente mostrare delle contraddizioni interne al potere, ma non è da sola sufficiente a creare le basi per un’alternativa.
L’operazione di revisione critica sopra esposta richiede infatti che vi sia la disponibilità e un’apertura al dialogo con il diverso, capace di guardare oltre la vecchia dicotomia destra/sinistra, la quale da tempo finisce inesorabilmente per cristallizzare il dibattito in posizioni dogmatiche e autoreferenziali funzionali al potere.
Il rischio è quindi che, in assenza di una rielaborazione critica profonda dell’egemonia liberale, la movimentazione pro-Pal si riduca esclusivamente a una reazione emotiva di rifiuto morale nei confronti di un genocidio che si sta verificando sotto gli occhi di tutti, ma senza riuscire effettivamente a costituirsi come quella miccia in grado di accendere una speranza politica alternativa.
Note
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Bauman, Z., Modernità liquida. Traduzione di Sergio Minucci (2002), Roma-Bari, Laterza.
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Marx, K., Lettera a Ruge, settembre 1843.
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Furedi, F. (2024). The war against the past: Why the West must fight for its history. Polity Press.
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Zhok, A. (2024). Il senso dei valori. Fenomenologia, etica, politica, Milano-Udine, Mimesis.







































Comments
Lei crede che sia una reazione di rifiuto morale?
Io credo e spero che sia istinto di sopravvivenza. A Gaza con consapevolezza o meno ciascuno ha visto il volto del Potere, la sua ferocia. Dentro animi addormentati non e' venuta fuori una morale, ha lavorato di fino un'antica parte del cervello. E se al loro posto ci fossimo noi? Il trattamento sarebbe uguale e noi, la maggioranza di noi, e' piu simile per condizione di vita ai palestinesi che ai sionisti o a qualsiasi sadico goda a sputarti in faccia l'esercizio della sua psicopatia.
Non sono cosi sicuro che ci sarebbe stata sollevazione se si limitavano ai primi mesi, troppo idiota il senso di colpa dell'olocausto, come se potessimo tollerare un genocidio da qualsiasi gruppo umano lo ha subito. Quando mai permetteremo ai rom di fare quello che all'abile narrativa sionista e' stato permesso. In pochi siamo usciti di casa all'inizio in presidi e manifestazioni, giusto il tempo che i mesi e i morti palestinesi allarmassero le aree piu profonde dell'animo umano. Poi, per fortuna, in tanti se anche non hanno capito con ideologia o elaborazioni hanno capito che tollerando il destino dei palestinesi, ne sdoganavano di potenzialmente analoghi per se stessi.
Dobbiamo condannare la cosa? Metterci a piangere perche' non siamo nell'ambito di consapevolezze che possano permetterci di cambiare tutto? Pararci il culo sottolineando che forse il movimento per Gaza non e ' l'anticamera della rivoluzione?
Sono felice per noi, per i palestinesi, per gli opressi nel mondo che la gente sia venuta fuori e abbia manifestato. Per qualsiasi motivo lo abbia fatto, persino marinare la scuola. E' un esercizio dell'istinto di sopravvivenza e se ci pensate bene tutte le ideologie di sinistra partono da un istinto di sopravvivenza di classi e di umani che altrimenti sarebbero divorati. Riconoscere d'istinto che da soli siamo prede, ma come collettivita' possiamo contrastare i pochi che vogliono asservirci.
Allora? Allora bisogna ripartire da li, far capire che non di un momento si tratta, ma di sopravvivere, collettivamente, a tempi che ci stanno stringendo un cappio al collo. Siamo gia oltre non solo a Gaza, ma qui, nelle colonie, ormai ufficiali, di un nuovo impero con il ciuffo giallo, ma con dietro un 1% di squali a cui i nostri governi europei si inchinano e non solo, danno anche leccatine qui e la.
Non ci si deve chiedere dove ci portera' la rivolta per Gaza, ognuno si deve chiedere come puo', nel suo intorno, fare in modo che questa rivolta per Gaza non muoia, ma ci renda consapevoli che Gaza siamo noi, siamo tutti quelli il cui unico potere sta nella collettivita' e nell'agire collettivo.