Diritto penale, carcere e marxismo. Ventuno tesi provvisorie
di Carlo Di Mascio
La prigione è «naturale», come è «naturale» nella nostra società l’uso del tempo per misurare gli scambi.
M. Foucault, Sorvegliare e punire
Tesi 1. Il diritto, diceva Evgeni Pasukanis, è il risultato specifico dello sviluppo capitalistico, vale a dire di un determinato modo di produzione sociale che non avrebbe mai raggiunto una precisa costituzione universale in mancanza di idonei assetti coercitivi-organizzativi che solo la società borghese è stata in grado di promuovere e stabilizzare, sicché, di riflesso, la teoria marxista del diritto non dovrebbe cercare di costruire un nuovo tipo di diritto (proletario), peraltro in contrasto con il postulato classico marxiano di estinzione del diritto e dello Stato, bensì mostrarne la sua natura deperibile, attesa la contraddizione insanabile fra diritto come forma del valore di scambio e il comando esercitato dalla classe al potere ogni volta dominante (sia esso Stato borghese che Stato proletario).
Tesi 2. Se l’aspetto essenziale della società borghese è dato dalla separazione degli interessi generali da quelli privati, a tal punto che i primi tendono a contrapporsi ai secondi, ma assumendo «però involontariamente in questa contrapposizione la forma di interessi privati, cioè la forma del diritto»1, se ne ricava che l’organizzazione giuridica del capitale non si pone mai come diretta espressione di rapporti tra soggetti portatori di un interesse privato autonomo, bensì come il permanente tentativo di istituzionalizzare i medesimi attraverso adeguati dispositivi disciplinari e di controllo in grado di far passare l'interesse di una classe al potere come difesa e garanzia, considerate d’interesse generale, degli interessi privati di tutti.
In questo piano di analisi critica l’individuo solo formalmente si presenta libero nei rapporti sociali organizzati dal valore di scambio, e dunque governati dalla forma giuridica quale universalità che tuttavia subordina e determina una falsa integrazione sociale, posto che, come rileva Marx, «gli individui sono sussunti sotto la produzione sociale, la quale esiste come una fatalità esterna a essi; ma la produzione sociale non è sussunta sotto gli individui e da essi trattata come loro patrimonio comune […] nel sistema di scambio sviluppato […] gli individui sembrano indipendenti (questa indipendenza che è pura illusione e più correttamente andrebbe chiamata indifferenza), sembrano liberamente entrare in contatto reciproco e scambiare in questa libertà»2.
Tesi 3. Nella misura in cui il diritto, nella prospettiva capitalistico-borghese, deve porsi come momento di ordinazione neutrale ed universale della società fondata sul sistema degli scambi, a fronte delle contraddizioni che il processo di sussunzione dell’individuo al capitale sviluppa in termini di antagonismo e disuguaglianza - esso finisce invece per risolversi in un tramite estraneo che rappresenta e comanda la totalità degli scambi stessi, vale a dire in un potere generale impersonale (lo Stato), volto a legittimare il funzionamento sociale della legge del valore di scambio (rectius, legge dello sfruttamento), nonché capillarmente a subordinare socialmente. Tale paradigma, che cerca fittiziamente di far passare per diritto ciò che diritto non è, mostrandosi oltremodo attrezzato alla pianificazione e alla gestione (rectius, distruzione) di ogni antagonismo che in forma sempre crescente vuole mettere in discussione i meccanismi di regolazione della produzione e riproduzione sociale, al punto da impedire che ogni conflittualità possa mai avere il sopravvento sulla naturalezza e la conservazione dell’ordinamento capitalistico borghese, appare ben delineato proprio dal diritto penale: «fra tutti i tipi di diritto è proprio il diritto penale che possiede la capacità di aggredire nel modo più immediato e brutale la personalità individuale. Appunto perciò esso ha sempre suscitato il più vivo e pratico interessamento. La legge e la pena per la sua violazione vengono in generale strettamente associate fra loro e perciò il diritto penale assume, per così dire, il ruolo di rappresentante del diritto in genere: è una parte che sostituisce l’intero»3.
Tesi 4. La prerogativa essenziale del diritto penale è quella di rendere ed amministrare perfettamente i rapporti di disuguaglianza quali scaturenti dal modo di produzione capitalistico, svolgendo una decisiva funzione di addomesticamento della disuguaglianza stessa. Come dire, esso si pone a presidio delle leggi sociali determinate dal valore di scambio, ma al di là dell’astratta formale uguaglianza del valore, il suo compito è quello di difendere e garantire l’uguaglianza della disuguaglianza4. Appare dunque evidente che in una società capitalistica il diritto penale non può porsi a salvaguardia di un immaginario «interesse generale»: esso diviene necessariamente l'espressione di un potere di classe che con il diritto non ha nulla a che fare. Ma per poter esercitare una così incisiva azione di consolidamento sociale, la strategia privilegiata deve innanzitutto consistere nel sottrarre le norme del diritto penale dalla sfera della storicità e della convenienza economico-politica, per elevarle a comandi naturalistici. Per il mercato i possessori di beni che partecipano agli scambi rappresentano gli attori fondamentali, mentre l'autorità si configura come un elemento accessorio, secondario, che interviene dall’esterno rispetto alla dinamica immediata che si sviluppa tra i possessori. La filosofia del diritto naturale, pertanto, tende a considerare l’autorità non come un fenomeno nato storicamente e strettamente legato alle forze che operano all’interno di una determinata società, ma come un fenomeno da analizzare solo in maniera astratta e razionalistica. In una comunità di possessori di beni, il bisogno di un intervento coercitivo da parte dell’autorità si manifesta principalmente quando la pace viene compromessa o quando un contratto non viene rispettato spontaneamente. Di conseguenza, «la dottrina giusnaturalistica riduce le funzioni dell’autorità alla garanzia della pace dichiarando eccezionale la destinazione dello Stato ad essere uno strumento del diritto»5.
Tesi 5. In forma simmetrica persiste, dunque, anche nel diritto penale il processo formale della circolazione capitalistica che si struttura fondamentalmente su rapporti tra possessori di merci che autonomamente si accingono allo scambio, i quali presuppongono quella parificazione giuridico-politica, universale ed astratta, la cui forma giuridica è data dal contratto. In questa ottica, se il contratto viene liberamente stipulato dai membri della collettività, la pena detentiva diviene nient’altro che «la forma giuridica generale di un sistema di diritti (di/per principio) egualitari»6. Ne deriva che nessun arbitrio o manifestazione di potere può obiettarsi, ma soltanto il risultato di un tacito patto sulla importanza dei valori da garantire e, quindi, una imparziale conversione in una punizione equivalente. In entrambi i casi si celebra il trionfo della giustizia, della libertà e dell’autodeterminazione, dal momento che «le pene, non derivando più dalla volontà del legislatore, ma dalla natura delle cose, non mostrano più l’uomo fare violenza sull’uomo», sicché «nella punizione analogica, il potere che punisce si nasconde»7. In tal senso si pensi anche a Nietzsche, allorquando, riferendosi alla tradizione moderna, mirava a rincorrere il tentativo di fornire una lettura della giustizia in chiave contrattualista, per cui il contratto, come relazione tra un creditore e un debitore, coincide con la promessa di rispettarlo, dato che «qui dunque viene promesso, qui dunque si tratta di fabbricare una memoria al promittente, e qui dunque si può sospettare che durezza, crudeltà e castigo abbiano la loro ricca sorgente». Il contratto si mostra allora per quello che veramente è, cioè una forma falsa, una finzione mediante la quale il creditore sfoga la sua rabbia, facendo così partecipare il debitore «al diritto dei padroni [...] in un’attribuzione e in un diritto concessi alla crudeltà», tanto che «far soffrire [...] era una vera festa», che nessuna clausola pattuita può circoscrivere o limitare8.
Tesi 6. La specificità borghese si connota per il fatto di estremizzare questo momento, atteso che la figura del contratto tra possessori di merci, come genesi dell’ordinamento giuridico, viene annientata dalla forza sociale del capitale che si emancipa dal capitalista persona trasformandolo in una sua funzione, così come la figura ancora sociologica del proletario si astrae in quella di funzione della produzione di plusvalore, derivandone che norme e contratti divengono solo prodotti del sistema capitalistico. Insomma, laddove le teorie giusnaturalistiche eternizzavano ideologicamente la forma della concorrenza economica tra soggetti liberi ed uguali, il capitale non contempla più concorrenti o avversari, ma solo nemici da cui difendersi. In questo quadro, come osserva Marx, se è vero da un lato che ogni soggetto coinvolto nello scambio mantiene una posizione di reciprocità, stabilendo con l’altro la stessa relazione sociale che intrattiene con lui, la loro interazione, in quanto soggetti dello scambio, si basa su un principio di uguaglianza. Le merci scambiate, considerate come valori di scambio, si configurano come equivalenti. Questi equivalenti rappresentano l’oggettivazione di un soggetto nei confronti dell’altro, assumendo un valore identico e confermandosi nell’atto stesso dello scambio come di egual valore, pur mantenendo ciascuno una natura indifferente - dall’altro «si dimentica che il presupposto del valore di scambio quale fondamento oggettivo della totalità del sistema produttivo implica già in sé fin dall’inizio la costrizione per l’individuo […] che l’individuo ha ormai un’esistenza soltanto in quanto è produttore di valore di scambio, nel che è già implicita l’intera negazione della sua esistenza naturale»9 - sicché è lo Stato, quale fenomeno reale di costrizione forzosa che tale processo implica, ad arrogarsi la decisione di stabilire chi è il nemico, e soprattutto quando e come punirlo.
Tesi 7. Il diritto penale, dunque, come puro strumento di egemonia di classe, ripercorre interamente questo svolgimento, nel senso che la pena nella dimensione borghese non può che assumere le caratteristiche di un vero e proprio contratto commerciale, in cui il reo paga il suo debito con la società e il reato viene considerato un contratto concluso involontariamente. Il suo fondamento appare proprio quello che vede il diritto, astratto ed eguale, legato endemicamente alla forma di equivalente, ovvero all’equivalenza dei rapporti di scambio, con ciò stabilendo allo stesso modo l’equivalenza tra il delitto e la punizione, derivandone che la condizione del reo punito deve essere equivalente (ma non necessariamente eguale) a quella di ogni altro membro della società. Alla base di questo andamento vi è d’altronde quella sintomatica progressione tra il diritto aristocratico, cioè arcaico e primitivo, in cui vi sono soggetti che hanno solo diritti e nessun dovere, per cui tutti i soggetti di diritto hanno esattamente gli stessi diritti, e il diritto borghese per il quale ogni soggetto ha diritti che sono rigorosamente equivalenti ai propri doveri e viceversa. In effetti la giustizia borghese tende a sostituire l’eguaglianza con l’equivalenza, finendo per divenire sostanzialmente soggettiva e relativa: «la giustizia borghese manifesta sempre la tendenza a ritenere «giusto» quello che gli interessati stessi considerano tale»10.
Tesi 8. Il diritto penale si occupa di classificare le violazioni e stabilire le pene. Il carcere, invece, crea uno spazio di osservazione, definendo un contesto in cui il crimine e il criminale vengono esibiti. È un luogo in cui il detenuto può essere osservato senza avere la possibilità di osservare, mentre il sorvegliante mantiene un controllo visivo senza essere osservato a sua volta. Queste due dimensioni, ciò che si dice e ciò che si vede, appaiono a prima vista distinte, ciascuna con i propri contenuti specifici. Eppure, sono in costante interazione e si influenzano reciprocamente, generando nuove configurazioni. Da un lato, il diritto penale alimenta il carcere fornendogli il suo contenuto principale: il carcerato. Dall’altro, il carcere, lungi dall’essere un semplice luogo di detenzione, diventa a sua volta un produttore di devianza, offrendo al diritto penale nuovi soggetti su cui esercitare le proprie funzioni e competenze. Inoltre, i principi che regolano il funzionamento del carcere, quale spazio di visibilità del crimine e del criminale, non trovano origine direttamente nel diritto penale, bensì attraverso una narrazione appartenente a un ambito disciplinare e non strettamente giuridico, tra cui rientrano l’antropologia criminale, la medicina, la statistica, la sociologia e la psicologia. Il diritto penale, nel suo ruolo, non definisce la delinquenza esclusivamente attraverso il carcere, ma lo genera a partire da una rete complessa di interazioni quotidiane. Questa rete include luoghi e istituzioni apparentemente distanti dal concetto di punizione, come la scuola, l’ospedale, la polizia, l’assistente sociale, l’educatore, i gruppi di recupero, ecc. Sotto l’etichetta di crimini o delitti, ciò che viene valutato non si limita solo a violazioni giuridiche codificate dalle leggi, dato che si penetra in un campo di indagine quale quello delle passioni, degli istinti, delle anomalie, delle condizioni di salute, dei problemi di adattamento sociale, delle ereditarietà genetiche e persino degli influssi ambientali. Il diritto penale diventa così parvenza, mero esecutore materiale, di fatto impotente e clinicizzato, poiché sotto un’apparente neutralità giuridica, interviene in maniera accessoria e derivata nel processo di qualificazione di chi è, chi è stato e cosa diventerà un individuo. Giudici, pubblici ministeri ed avvocati, si trovano così costretti a chiedere a una pletora di specialisti della mente se questo individuo è pericoloso e se può ancora essere corretto. Per questa ragione «dopo la nascita del biopotere, viviamo in una società che in senso stretto sta smettendo pure di essere una società giuridica»11.
Tesi 9. Nella storia del diritto penale si scopre che appena ebbe a svilupparsi la pratica commerciale dello scambio, cominciò a perfezionarsi una teoria della retribuzione equivalente che gradualmente giunse a sostituire la pratica originaria della vendetta: «la vendetta incomincia ad essere regolata dal costume e a tramutarsi in una retribuzione secondo la regola del taglione «occhio per occhio, dente per dente» soltanto quando accanto ad essa incomincia a consolidarsi un sistema di composizione o di ricatto in denaro. L’idea di un equivalente, questa prima idea puramente giuridica, ha sempre come sua fonte la forma di merce»12. Nel sistema pre-capitalistico, come nella realtà feudale, il carcere inteso come pena, nella forma della privazione della libertà, non è pressoché esistito. Nell’antichità e nel medioevo occorrerebbe parlare di un carcere per debiti o «preventivo», in quanto istituto che nega la libertà individuale, così autonoma e ordinaria, ed in cui gli uomini venivano generalmente detenuti fino alla morte o fino al pagamento di un riscatto. Si può dire quindi che in queste epoche la pena carceraria è assente, sicché «il delitto può considerarsi come una varietà specifica dello scambio nella quale il rapporto di scambio, cioè il rapporto conflittuale, si instaura post factum, vale a dire dopo un’azione arbitraria di una delle parti. La proporzione fra delitto e retribuzione non è che una proporzione di scambio»13. Solo progressivamente comincerà ad insinuarsi nella circolazione penale degli equivalenti una istanza che rappresenta l’autorità (pubblica). Questo momento però non comporterà immediatamente una modificazione del significato delle pratiche penali, e ciò fino a quando sarà vigente una dimensione puramente finanziaria sulle parti in causa, a titolo di compensazione per la mediazione svolta, ma di certo qualcosa di nuovo tende a prodursi: «a fianco della pena pubblica come fonte di entrate, compare abbastanza presto anche la pena come mezzo per mantenere la disciplina e come misura per tutelare l’autorità del potere sacerdotale e militare […] L’influenza esercitata dalla organizzazione sacerdotale, cioè dalla chiesa, sul diritto penale è resa evidente dal fatto che, se la pena conserva la sua natura di equivalente o di retribuzione, questa retribuzione non è direttamente connessa con il danno subito dalla vittima e non si fonda sulla sua pretesa, ma assume invece un superiore, astratto significato di castigo divino»14.
Tesi 10. Ma è «con lo svilupparsi e il consolidarsi delle divisioni di classe e di stato» che la situazione comincia a mutare radicalmente, prefigurandosi l’emergenza di una pena pubblica ben differenziata dalla riparazione solamente civile: «il formarsi di una gerarchia spirituale e laica sospinge in primo piano la tutela dei suoi privilegi e la lotta contro le classi inferiori oppresse della popolazione. La disgregazione dell’economia naturale e l’intensificato sfruttamento dei contadini che ne deriva, lo sviluppo del commercio e della organizzazione di uno Stato basato sulla divisione in ceti propongono nuovi compiti all’amministrazione della giustizia penale. La giustizia penale non è più tanto - per l’autorità - un mezzo di integrazione delle entrate, quanto un mezzo di spietata e feroce punizione dei «malvagi», cioè, in primo luogo, dei contadini che sfuggono all’intollerabile sfruttamento dei proprietari terrieri e del loro Stato, nonché della popolazione povera, dei girovaghi ecc. Una funzione preminente comincia ad essere svolta dall’apparato poliziesco e inquisitorio. Le pene divengono mezzi di distruzione fisica ovvero di terrorismo: è questa l’epoca delle torture, delle pene corporali e delle più crudeli pene capitali. Saranno il peso del mercato del lavoro e delle sue fluttuazioni, le variazioni della domanda e dell’offerta, ad orientare la strategia penalistica del diritto borghese. Se nel Medioevo la vendetta privata costituiva un prezioso strumento di contenimento dell’eccesso di offerta della manodopera, con l’avvento del mercantilismo e del capitalismo e, quindi, con l’espansione delle rotte navali e le conquiste coloniali, a fronte di un arresto della crescita demografica dovuto a guerre ed epidemie, corrisponderà un lento abbandono delle pene corporali per sfruttare i detenuti come forza lavoro.
Tesi 11. Il carcere, le deportazioni, i lavori forzati diventano strumenti di educazione al lavoro salariato. Con la rivoluzione industriale, invece, l’invenzione delle macchine porterà ad un alto tasso di disoccupazione e all’aumento, di riflesso, dei livelli di criminalità: di qui, allora, la segregazione cellulare, ma contrariamente alla retorica riformista impregnata di ideologia religiosa, con il solo intento di terrorizzare per continuare a disciplinare. Rusche e Kirchheimer giungono a sostenere che la pena come deterrenza, è da correlare alla disponibilità di un grande esercito industriale di riserva in Europa e al timore di una rivoluzione: «Ciò che occorreva […] alla società europea, con il suo esercito industriale di riserva, era una pena che riuscisse a terrorizzare anche le masse che morivano di fame. Beaumont e Tocqueville a questo proposito scrissero che «in un paese ove la metà della popolazione è crudelmente oppressa dall'altra metà ci si deve aspettare di trovare nel diritto imposto dagli oppressori un'arma pronta a distruggere tutto ciò che può portare alla rivolta degli oppressi». Questa necessità di una pena intimidatrice ebbe un ruolo importante nell'introduzione della segregazione cellulare in Europa: il senso di completa dipendenza e di bisogno determinato dall'isolamento cellulare veniva infatti considerato il tormento più insopportabile che si potesse infliggere al condannato»15. Già in questa prospettiva comincia a notarsi come l’attività punitiva non costituisca una prerogativa del diritto, limitandosi a sviluppare mere «funzioni sociali» che lo Stato di classe esercita sanzionando le condotte di coloro che rifiutano il funzionamento della legge del valore, che non intendono cioè accettare le condizioni imposte dalla produzione materiale. Da qui il nucleo strettamente coercitivo del diritto pubblico in generale che vede anche il diritto penale assimilato ad una pura tecnica di organizzazione sociale, che, in quanto tecnica, è in grado di assolvere qualunque funzione assegnatagli dal comando dello Stato capitalistico: «…da un punto di vista puramente sociologico, la società borghese sostiene con il suo sistema di diritto penale il proprio dominio di classe e riduce all’obbedienza le classi sfruttate»16.
Tesi 12. Ne consegue, al di sotto della superficie mistificante per cui ogni elemento della produzione appare completamente determinato dall’organicità ordinamentale del capitalismo borghese, che lo Stato assume contemporaneamente due ruoli molto differenti ma nel contesto di una processualità del tutto enucleata in una attività formalmente corretta di repressione e controllo del sistema degli scambi tra equivalenti. Vale a dire, da un lato esso organizza la circolazione delle retribuzioni, quale funzione dotata di una caratterizzazione giuridica tipica della sovrastruttura giuridica, dall’altro sanziona perché è stata violata una norma, con ciò ponendosi come funzione di tecnica sociale al servizio degli interessi privati della classe dominante dietro l’alibi di garantire e difendere l’interesse generale: «se per il suo contenuto e per il suo carattere l’attività punitiva del potere è uno strumento di tutela del dominio di classe, per la sua forma essa costituisce un elemento della sovrastruttura giuridica, fa parte dell’organo del diritto, ne costituisce un ramo […] L’atto di autodifesa cessa di essere soltanto un atto di autodifesa per divenire una forma di contraccambio, una sorta di scambio che prende posto a fianco del normale scambio commerciale. Reato e pena diventano tali, assumono cioè la loro natura giuridica, sulla base del riscatto convenzionale […] Il diritto penale è dunque parte integrante della sovrastruttura giuridica in quanto incarna una varietà della forma fondamentale della società moderna: la forma di equivalente con tutte le sue inferenze. L’attuarsi di questo rapporto di equivalenza nel diritto penale è un aspetto del costituirsi di uno Stato giuridico come la forma ideale di relazione fra possessori di merci indipendenti ed eguali che si incontrano sul mercato»17. Tutta questa dinamica, concernente il dato formale simmetrico-retributivo che condiziona la matrice del diritto penale borghese sotto la forma dello scambio equivalente, rende evidente come il principio generale della retribuzione trovi all’interno del modo di produzione capitalistico quella propria determinata specificazione che può concepirsi e comprendersi soltanto sotto questa forma.
Tesi 13. In effetti un tratto caratteristico del diritto penale moderno è dato dalla presenza della parte lesa che interviene tecnicamente non a seguito di una richiesta di riparazione per il danno subito, ma in quanto è stata violata «la norma posta dallo Stato»; e quand’anche non vi fosse, essa continuerebbe «a costituire lo sfondo dell’azione penale», trovando «la sua reale incarnazione nella persona del pubblico accusatore». Lo Stato in questo modo giunge ad uno sdoppiamento di fatto, operando «come parte (pubblico ministero) e come giudice», mostrando «che il processo penale, come forma giuridica, è inseparabile dalla figura del danneggiato che esige una «retribuzione», e quindi è inseparabile dalla più generale forma del contratto». Da qui la specificità della forma giuridica pienamente inserita nella teoria punitiva che cerca di stabilire la giusta proporzione, la giusta misura, tra reato e pena, esattamente come in uno scambio commerciale nel quale «il pubblico ministero, come si conviene ad una «parte», chiede un «prezzo elevato», cioè una pena severa, l’imputato chiede indulgenza - una «riduzione» - e il giudice decide «secondo giustizia». «Mettete completamente da parte la forma del contratto e priverete il processo penale della sua «anima giuridica»18. Così esposta ed analizzata la potenzialità antagonistica connaturata ad opposti interessi, che nel processo giudiziario raggiunge il suo culmine - la sanzione che si perfeziona nella privazione della libertà perviene a conseguire una forma giuridica totalmente in contraddizione con il suo obiettivo reale che è solo quello di supportare il comando nella sua massima espressione come garante dello sviluppo capitalistico, e che dunque con il diritto non ha nulla a che vedere: «ciò non significa che ogni procedura penale sia del tutto priva dei suindicati elementi semplici e comprensibili, ma vogliamo soltanto mostrare che in tale procedura vi sono peculiarità che non sono determinate da pure e semplici considerazioni sociali e costituiscono invece un elemento irrazionale, mistificato, incoerente e che questo elemento appunto è l’elemento specificatamente giuridico»19.
Tesi 14. La critica marxista irrompe qui dentro questa circolarità contrattuale, all’interno di un processo reificante nel quale il reato costituisce la merce del diritto penale e la sanzione il suo equivalente, vale a dire uno scambio proporzionato fra un’azione dannosa e un’altra che le corrisponde. Di qui la sua funzione eminentemente retributiva che vede il soggetto su cui si vuole influire, posto nella condizione di un debitore che deve pagare un debito. Non a caso il termine sanzione significa al tempo stesso esecuzione coatta di un’obbligazione giuridica privata e pena. Lo stesso concetto esprime il termine «scontare la pena»: il delinquente, scontata la pena, ritorna al punto di partenza, cioè ad una esistenza individualistica nella società, alla «libertà» di obbligarsi e di commettere delitti». In questo processo reale di costituzione sociale del comando capitalistico di accumulazione e subordinazione, lo stesso calcolo della pena in termini aritmetici, «l’espressione matematica che caratterizza la «gravità» della sentenza: il numero di giorni, mesi ecc.»20 - non può che rappresentare un effetto dell’applicazione del principio del libero scambio alla sfera penale: «la privazione della libertà per un periodo determinato preventivamente nella sentenza del tribunale è la forma specifica in cui il diritto penale moderno, cioè il diritto penale borghese-capitalistico, realizza il principio della retribuzione equivalente. Ed è un mezzo inconsapevolmente ma profondamente collegato con l’idea dell'uomo astratto e del lavoro umano astratto misurato dal tempo […] Perché affiorasse l'idea della possibilità di espiare il delitto con un quantum di libertà astrattamente predeterminato era necessario che tutte le forme della ricchezza sociale venissero ridotte alla forma più semplice e astratta: al lavoro umano misurato dal tempo […] Il capitalismo industriale, la dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, l'economia politica ricardiana e il sistema della reclusione a tempo determinato sono fenomeni di una medesima epoca storica»21. E così il carcere finisce per essere un luogo in cui si deve stare peggio che fuori, affinché il livello di vita assicurato ai detenuti sia sempre inferiore a quello minimo garantito a un lavoratore occupato all’esterno, rendendo il lavoro scarsamente retribuito un’opzione comunque da preferire alla vita in carcere. Lo scopo è quindi complessivamente raggiunto: somministrare dolore al detenuto quale valenza esemplare e simbolica, indirizzata alla comunità osservante, nel rispetto del principio di prevenzione generale; abituare al lavoro sottopagato e alla precarietà infinita; tutelare e rafforzare l’ordine sociale attraverso la deterrenza simbolica della pena.
Tesi 15. In questo scenario nel quale riemerge ancora la specificità storica del diritto borghese, si può dire che il capitale, nell’espansione e nello sviluppo storico dei propri rapporti sociali, tende a sviluppare un processo di progressiva trasformazione qualitativa a partire dal tempo di vita, modificando radicalmente il tempo di tutta la vita collettiva in tempo produttivo di plusvalore, e che si sviluppa in uno schema che vede in sequenza il tempo delinearsi come misura, ovvero come equivalente funzionale indifferente alla sostanza; come relativo, insieme di funzioni a matrice temporale, ed infine come denaro e circolazione. «Due cose sono necessarie perché si formi la società industriale: da un lato è necessario che il tempo degli uomini sia messo sul mercato e offerto in cambio di un salario a coloro che vogliono acquistarlo; e dall'altro è necessario che il tempo degli uomini sia trasformato in tempo di lavoro. È questo il motivo per cui troviamo in tutta una serie di istituzioni il problema e le tecniche dello sfruttamento ottimale del tempo»22. Prima dell’avvento della schiavitù salariata, infatti, non si era storicizzato il concetto del lavoro umano misurato nel tempo: affinché si imponesse l’idea di espiare il delitto con un determinato quantitativo di libertà personale predeterminato astrattamente era necessario che tutte le forme della ricchezza sociale venissero ridotte alla misura del lavoro umano: «Il calcolo, la misura di pena in termini di valore-lavoro per unità di tempo, diviene possibile solo quando la pena è stata riempita di questo significato, quando si lavora o quando si addestra al lavoro (al lavoro salariato, al lavoro capitalistico) [...] Il contenuto della pena (“l’esecuzione”) è in questo modo legato alla sua forma giuridica allo stesso modo in cui l’autorità in fabbrica garantisce che lo sfruttamento possa assumere l’aspetto di contratto»23. Sul punto, e a dimostrazione di una reale trasposizione del modello giusprivatistico inverato nella specificità circolare lavoro-tempo-salario-vendita, su quello del diritto penale a sua volta inverato nella forma retribuzione equivalente-libertà-detenzione, è ancora Marx a sottolineare che la costituzione del mercato del lavoro, con il sopravvento della società borghese, ha non solo liberato una massa di forza-lavoro dagli antichi rapporti, ma soprattutto ha reso questa massa di individui «libera da ogni proprietà; una massa ridotta a trovare l’unica fonte di guadagno nella vendita della propria capacità di lavoro, o nella mendicità, nel vagabondaggio, nella rapina. È assodato storicamente che essi hanno tentato dapprima quest’ultima via, ma che da questa sono stati però spinti, mediante la forca, la gogna e la frusta, sulla stretta via che conduce al mercato del lavoro - qui i governi […] figurano come condizioni del processo storico di dissoluzione e come creatori delle condizioni di esistenza del capitale»24.
Tesi 16. In questi termini il divenire storico della produzione sociale non ha solo comportato una operazione di disciplinamento e controllo degli individui, bensì la fondazione di un rapporto temporale che ha finito per subordinare quello spaziale, conseguendone che ogni attività lavorativa, ogni attività umana è diventata tempo di lavoro necessario soltanto per la valorizzazione capitalistica, unificata e disciplinata sotto il comando del capitale secondo le dinamiche tipiche della giornata lavorativa capitalisticamente governata dalla misura temporale. Questo cambiamento violento che interviene storicamente nei rapporti di produzione deve tuttavia necessariamente modificare l’orizzonte normativo del comando, anticipando la possibilità concreta di concepire una più elaborata teoria generale della pena detentiva, per cui la tendenza ad opera della scienza giuridica borghese sarà nel senso di cominciare «ad eliminare completamente questo elemento dell’equivalenza come assurdo per concentrare invece l’attenzione sui principi razionali della pena», omettendo però di considerare che questa assurda forma di equivalenza deriva dai rapporti materiali di una società che produce merci «[essa è insita] nella vita stessa, nella prassi giudiziaria, nella struttura stessa della società […] nella stessa prassi sociale»25. Alla base di questa omissione vi è solo il consapevole rifiuto di vedere che al livello fondamentale dei rapporti sociali tende a subentrare prepotentemente la lotta di classe, e dunque la costituzione di rapporti e poteri contrapposti che vanno immediatamente irreggimentati secondo un’ottica di controllo e disciplina. Insomma, quanto più l’organizzazione capitalistica viene minacciata, tanto più la regola che sovrintende allo sviluppo del suo sistema diviene aggressiva e violenta.
Tesi 17. Il capitalismo non può negare che il diritto penale, quale «forma di connessione tra soggetti egoistici separati, portatori di un interesse privato autonomo», è perfettamente radicato «con le fondamentali condizioni senza le quali è impensabile una società di produttori di merci»26, così riproducente la forma dello scambio fra due soggetti atta a consacrare l’equivalenza tra delitto e libertà personale: «lo Stato imposta il suo rapporto con il delinquente come uno scambio commerciale di buona fede: sta qui il significato delle garanzie processuali penali. Il delinquente deve sapere in anticipo per che cosa deve rispondere e che cosa gli si chiede: nullum crimen, nulla poena sine lege. Che significa? Si vuole forse che ogni potenziale delinquente conosca con precisione i metodi di correzione che gli saranno applicati? No, la cosa è assai più rozza e semplice: egli deve conoscere la quantità di libertà con cui pagherà alla fine del contratto giudiziario. Egli deve conoscere in anticipo le condizioni in base alle quali dovrà pagare. Questo è il senso dei codici penali e processuali penali»27. In questa dimensione diventa del tutto evidente, su un piano non solo metodologico ma squisitamente materiale, che la trasformazione dello scambio semplice tra due soggetti ugualmente proprietari nel cosiddetto «contratto giudiziario», così come qualsiasi altra forma di scambio economico-giuridico, può realizzarsi perché in realtà ad interagire non ci sono proprietari di merce, ma solo soggetti giuridici che hanno ceduto la loro volontà nel diritto come equivalente generale, con ciò finendo per esprimere tale processo un significato di stretta praticità politica, con tutte le implicazioni che essa comporta in termini di gestione della società del capitale.
Tesi 18. Nelle analisi sul diritto penale, è stato Pasukanis ad evidenziare un aspetto che fino ai suoi tempi non era mai stato sottolineato, qualcosa che nessuno aveva mai messo in luce con tanta chiarezza. Egli voleva dimostrare l’esistenza di un conflitto insanabile, completamente al di fuori della possibilità di essere mediato o regolato da alcuna norma, tra l’aspirazione del diritto moderno a ricondurre ogni relazione interpersonale alla logica dell’equivalenza dello scambio e la violenza intrinseca che tale aspirazione inevitabilmente genera e perpetua. L’equivalenza, infatti, racchiude una duplice natura: da un lato rappresenta la struttura logica dello scambio, dall’altro si manifesta come un mezzo di sfruttamento. È proprio questo dissidio irrisolto a riaccendere costantemente il conflitto sociale, obbligando lo Stato ad emergere come forza coercitiva, come una violenza esterna ma necessaria per sostenere la pretesa di equivalenza insita nella forma giuridica moderna. Pasukanis ha avuto dunque l’intuizione non soltanto di riconoscere la violenza radicata in questa imposizione di equivalenza, ma anche di comprendere che lo sviluppo ipertrofico delle forze produttive nel tempo avrebbe reso più visibile e incontestabile questa violenza, esponendone gli effetti in forme progressivamente sempre più laceranti. Se le sue tesi si fossero limitate solo a ridurre tutto il diritto a mera tecnica o amministrazione delle cose, come sovente gli viene erroneamente attribuito, probabilmente Pasukanis si sarebbe salvato da Stalin e dal suo scienziato giuridico Vishinsky. E invece occorreva farlo sparire non solo fisicamente, ma soprattutto filosoficamente. La sua Teoria, finalizzata all’estinzione del diritto e dello Stato, era oltremodo inammissibile per la sopravvivenza di qualsiasi tipologia di ordine costituito, sia essa nazifascista, liberal-democratica o socialista, perché, leninisticamente, l’estinzione della forma giuridica rende impossibile contenere la lotta di classe destinata inesorabilmente ad attraversare i rapporti di produzione e riproduzione sociale28.
Tesi 19. Come risposta alla criminalità egli tenderà verso una sorta di difesa sociale, piuttosto che un sistema di retribuzione. Un approccio questo non giuridico che avrebbe dovuto consentire di abbandonare il principio di equivalenza basato sul regime della forma scambio, focalizzando, dunque, l’attenzione non sulla proporzionalità della pena, ma piuttosto sulla corrispondenza tra le misure adottate e l’obiettivo finale della difesa sociale. Il che avrebbe dovuto comportare l’abbandono sia del concetto di colpevolezza individuale, sganciato così dal fatto, sia di pena non più da intendersi come retribuzione dovuta al delitto, sia, in definitiva, dei concetti di imputabilità e di castigo, per concentrare l’oggetto del comportamento delittuoso sugli aspetti sociali di un determinato contesto ambientale, derivandone che soltanto il suo approfondimento culturale e socio-economico avrebbe dovuto sostituire l’analisi del fatto delittuoso in sé quale momento esclusivo ed assoluto del processo. La prassi post-rivoluzionaria avrebbe poi dovuto confrontarsi con l’aspetto imprescindibile di eccesso, violenza e autorità, che mette in luce e al tempo stesso rivela la fragilità della presunta razionalità posta a fondamento della costruzione giuridica delle norme e delle dinamiche dello scambio. Un confronto capace di integrare le necessità legate alla difesa sociale e agli interessi reali della comunità, con le relative modalità e dosimetrie punitive, all’insegna di quel complesso dilemma morale che conduce all’arduo quesito: in termini sanzionatori è socialmente più grave la condotta di chi sottrae milioni di euro alla collettività o al capitalista che deliberatamente fa fallire le proprie aziende gettando nella miseria e nella disperazione centinaia di migliaia di operai?29
Tesi 20. Nel dibattito «marxista» italiano, oramai datato, relativamente alla ricerca di un’alternativa antiformalistica all’astratto e diseguale formalismo legalistico, si ricorderà forse l’esperienza teorica dell’uso alternativo del diritto. Una tecnica interpretativa mirata ad enfatizzare l’aspetto politico nell'esercizio della funzione giurisdizionale e a promuovere una «giurisprudenza tecnicamente più fondata e argomentata della giurisprudenza conformistica d’ispirazione autoritaria»30. Il giudice, chiamato a scegliere tra le diverse interpretazioni di un testo legislativo, inevitabilmente è portato ad adottare un criterio metagiuridico basato su valori o, più ampiamente, su considerazioni politiche. Ciò in quanto «le varie interpretazioni tra cui scegliere sono tutte giuridicamente possibili e cioè tutte tecnicamente corrette». Se il sistema giuridico rispecchia la logica antagonista delle forze produttive, è l’uso complessivo del diritto, sia civile che penale, ad opera delle classi dominanti ad essere messo in discussione, poiché lesivo dell’esigenza di rafforzare la tutela degli interessi collettivi o diffusi31. Trincerarsi dietro l’invocata apoliticità del giudice, o dietro formule straordinariamente astratte ed inconsistenti, secondo cui i diritti ottengono protezione solo se la loro tutela è «conforme a giustizia», è in realtà solo una finzione dettata da una politica conservatrice contraria ad ogni cambiamento dell’assetto sociale, uno strumento utilizzato «per fare politica in maniera indisturbata»32. Partendo dal principio sancito dall’articolo 3 della Costituzione, che attribuisce alla Repubblica, e quindi anche alla magistratura, il dovere di eliminare gli ostacoli di ordine economico e sociale, si giunge alla conclusione che il giudice, nell’atto di interpretare e applicare le disposizioni legislative, deve individuare quella norma che, tra le possibili opzioni desumibili dallo stesso testo, risulti maggiormente idonea a realizzare la piena libertà e l’effettiva eguaglianza e, pertanto, a emancipare le classi subalterne. «Solo con riferimento agli specifici connotati dello scontro di classe in un dato momento è possibile individuare le scelte giurisprudenziali realmente alternative in ragione della loro aderenza a effettivi interessi sociali», sicché, «utilizzando tutte le possibilità tecniche offerte dall’ordinamento», inaugurare «nuovi e più ampi spazi alle lotte di massa in vista di nuovi e alternativi assetti di potere»33. Il punto fondamentale diventa quindi quello di valorizzare le «formule emancipatorie» presenti nella Costituzione e di interpretare le norme in modo da favorire gli interessi delle classi subalterne, fino a far deflagrare le contraddizioni interne all’ordinamento. «Non è più la norma che è asserita quale dato naturale di cui è scontata, secondo le soluzioni giurisprudenziali canonizzate dalla tradizione, la capacità rappresentativa del fatto, ma è il fatto a essere assunto ad oggetto primario e privilegiato di conoscenza [...] nella totalità dei suoi nessi e delle sue complesse e singolari determinazioni economico-materiali»34. Le conseguenze sono allora chiare: la tutela del diritto di sciopero deve avere priorità rispetto alle esigenze del cosiddetto «bene comune»; la tutela delle libertà individuali deve prevalere sulle ragioni di ordine pubblico; i diritti sindacali dei lavoratori devono porsi al di sopra degli interessi della proprietà privata o delle logiche produttive. In termini assolutamente radicali, invece, il contributo di Negri, anche in polemica con le tesi sull’uso alternativo del diritto, poiché da inquadrare solo nel contesto, seppure progressista, di un rinnovato riformismo borghese: «Al giudice […] viene richiesto di sovradeterminare autoritativamente precarie o insussistenti regole dello sviluppo, gli viene imposto di sostituire alla coercizione economica - ormai odiosa e inefficace - la coercizione legale. Egli produce diritto, e diritto penale, per produrre un profitto che altrimenti non si dà più […] Nello Stato-crisi il diritto penale è la fatiscenza del capitalismo che si presenta come arroganza. Marxianamente. […] Il riformismo giuridico non ha spazio, in questa situazione: quand’esso si presenta ha pure e semplici funzioni di mistificazione. Nell’ideologia del diritto penale la mistificazione opera presentando in termini di scambio l’emergenza della nuova costrizione […] solo una scelta siffatta sembra a me produttiva di politica criminale di parte operaia, - quando cioè la lealtà dell’operatore giuridico nei confronti dell’organizzazione giuridica della repressione di Stato sia a priori tolta.»35.
Tesi 21. Nelle Teorie del plusvalore, Marx scriveva che un filosofo produce idee, un delinquente produce delitti, ma anche il diritto penale. D’altronde anche il professore titolare di una cattedra di diritto penale, con il suo manuale, non fa altro che gettare sul mercato generale i suoi contributi come merce. Il delinquente produce tutta l’organizzazione poliziesca e la giustizia penale, gli sbirri, le carceri, i giudici, i boia, i giurati e tutte quelle differenti professioni che formano altrettante categorie della divisione sociale del lavoro. La sola tortura ha dato occasione alle più ingegnose invenzioni meccaniche, e nella produzione dei suoi strumenti ha dato impiego a una massa di onesti lavoratori. Il delinquente poi produce una impressione, sia morale che tragica, secondo il caso, e rende così un servizio al movimento dei sentimenti morali ed estetici del pubblico, tanto da contribuire a produrre anche arte, bella letteratura, romanzi e perfino tragedie. Il criminale, insomma, rompe la monotonia e la calma tranquillità della vita borghese, provoca quella inquieta tensione, quella mobilità senza la quale lo stimolo della concorrenza verrebbe smussato. Egli dà così uno sprone alle forze produttive, poiché se il delitto sottrae una parte della eccessiva popolazione al mercato del lavoro, diminuendo la concorrenza fra gli operai, e impedendo, in una certa misura, la caduta del salario al di sotto del minimum, la lotta contro il delitto assorbe un’altra parte della stessa popolazione. Il criminale appare allora come uno di quei fattori naturali di equilibrio, che stabiliscono un giusto livello e aprono tutta una prospettiva di utili occupazioni. Si potrebbe dimostrare fin nei dettagli l’influenza del delitto sullo sviluppo della forza produttiva. Le serrature sarebbero giunte alla perfezione attuale se non vi fossero stati ladri?36
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