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«Il banco di prova di Trump a Gaza e in Ucraina»

di Jeffrey D. Sachs e Sybil Fares

L’economista di fama mondiale indica due soluzioni per far finire i conflitti: Stato palestinese e neutralità ucraina

Jeffrey Sachs sostiene che il presidente Trump si presenta come un pacificatore, ma che i suoi sforzi si limitano a proporre un cessate il fuoco, ignorando le cause politiche dei conflitti. Assieme a Sybel Fares, l’economista sostiene qui di seguito che la pace non è una tregua, ma la risoluzione dei nodi di fondo. A Gaza, il «piano» di Trump fallisce perché non impone la nascita di uno Stato palestinese. In Ucraina, la chiave è invece l’arresto dell’espansione della Nato. Per passare dalle parole ai fatti, sostengono gli autori, Trump dovrebbe avere il coraggio di sfidare il complesso militare-industriale e tutti coloro che traggono profitto dalla guerra.

* * * *

Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ama presentarsi come un artigiano della pace. Nella sua retorica, rivendica i meriti per i suoi sforzi volti a porre fine alle guerre di Gaza e Ucraina. Eppure, sotto le sue fanfaronate, si nasconde un’assenza di sostanza, almeno fino a oggi.

Il problema non risiede nella mancanza di impegno di Trump, ma nella sua mancanza di concetti adeguati. Trump confonde la «pace» con i «cessate il fuoco», che prima o poi (di solito prima) sfociano nuovamente in guerra. In realtà, i presidenti americani da Lyndon Johnson in poi sono stati asserviti al complesso militare-industriale, che trae profitto dalla guerra infinita. Trump si limita a seguire questa linea, evitando una vera risoluzione dei conflitti a Gaza e in Ucraina.

La pace non è un cessate il fuoco. Una pace duratura si ottiene risolvendo le controversie politiche di fondo che hanno portato alla guerra. Ciò richiede un confronto con la storia, il diritto internazionale e gli interessi politici che alimentano i conflitti. Senza affrontare le cause profonde della guerra, i cessate il fuoco sono una mera interruzione tra un massacro e l’altro.

Trump ha proposto quello che definisce un «piano di pace» per Gaza. Tuttavia, ciò che egli delinea non è altro che un cessate il fuoco. Il suo piano non riesce ad affrontare la questione politica centrale dello Stato palestinese. Un vero piano di pace dovrebbe collegare quattro risultati: la fine del genocidio israeliano, il disarmo di Hamas, l’adesione della Palestina alle Nazioni Unite e la normalizzazione dei legami diplomatici con Israele e la Palestina in tutto il mondo.

Questi principi fondamentali sono assenti dal piano di Trump, motivo per cui nessun Paese lo ha avallato, nonostante le insinuazioni contrarie della Casa Bianca. Al massimo, alcuni Paesi hanno sostenuto la «Dichiarazione per una pace e una prosperità durature», un gesto per prendere tempo.

Il piano di pace di Trump è stato presentato ai Paesi arabi e musulmani per deviare l’attenzione dallo slancio globale per lo Stato palestinese. Il piano statunitense è concepito per minare tale slancio, permettendo a Israele di proseguire la sua annessione de facto della Cisgiordania e il suo bombardamento in corso a Gaza, oltre alle restrizioni sugli aiuti di emergenza, con il pretesto della sicurezza.

Le ambizioni di Israele sono quelle di sradicare la possibilità di uno Stato palestinese, come il primo ministro Benjamin Netanyahu ha detto esplicitamente alle Nazioni Unite a settembre. Finora, Trump e i suoi associati non hanno fatto altro che portare avanti l’agenda di Netanyahu.

Il «piano» di Trump si sta già sgretolando, proprio come gli Accordi di Oslo, il Vertice di Camp David e ogni altro «processo di pace» che ha trattato lo Stato palestinese come una lontana aspirazione piuttosto che come la soluzione del conflitto. Se Trump volesse davvero porre fine alla guerra – una proposta alquanto dubbia – dovrebbe rompere con le Big Tech e con il resto del complesso militar-industriale (destinatari di ingenti contratti per armamenti finanziati dagli Usa). Dall’ottobre 2023, gli Stati Uniti hanno speso 21,7 miliardi di dollari in aiuti militari a Israele, gran parte dei quali tornano alla Silicon Valley.

Trump dovrebbe anche rompere con la sua principale donatrice, Miriam Adelson, e con la lobby sionista. Agendo in tal modo, rappresenterebbe almeno il popolo americano (che è a favore di uno Stato palestinese) e sosterrebbe gli interessi strategici americani. Gli Stati Uniti si unirebbero al consenso globale schiacciante, che appoggia l’attuazione della soluzione dei due Stati, radicata nelle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e nei pareri della Cig.

Lo stesso fallimento degli sforzi di pacificazione di Trump si riscontra in Ucraina. Trump ha ripetutamente affermato durante la campagna elettorale di poter porre fine alla guerra «in 24 ore». Eppure, ciò che ha proposto è un cessate il fuoco, non una soluzione politica. La guerra continua.

La causa della guerra in Ucraina non è un mistero – se si guarda oltre la retorica dei media mainstream. Il casus belli è stata la spinta del complesso militare-industriale statunitense per un’espansione infinita della Nato, che includeva l’Ucraina e la Georgia, e il colpo di stato sostenuto dagli Stati Uniti a Kiev nel febbraio 2014 per insediare un regime filo-Nato, che ha innescato la guerra. La chiave per la pace in Ucraina, allora come ora, era che il Paese mantenesse la sua neutralità come ponte tra Russia e Nato.

Nel marzo-aprile 2022, quando la Turchia mediò un accordo di pace nel Processo di Istanbul, basato sul ritorno dell’Ucraina alla neutralità, gli americani e i britannici spinsero gli ucraini ad abbandonare i colloqui. Fino a quando gli Stati Uniti non rinunceranno chiaramente all’espansione della Nato in Ucraina, non potrà esserci una pace sostenibile. L’unica via d’uscita è un accordo negoziato che sia basato sulla neutralità dell’Ucraina nel contesto della sicurezza reciproca di Russia, Ucraina e Paesi Nato.

Il teorico militare Carl von Clausewitz ha notoriamente descritto la guerra come la continuazione della politica con altri mezzi. Aveva ragione. Eppure è più preciso definire la guerra come il fallimento della politica che porta al conflitto. Quando i problemi politici vengono differiti o negati, e i governi non riescono a negoziare su questioni politiche essenziali, la guerra è la conseguenza fin troppo frequente. La pace reale richiede il coraggio e la capacità di impegnarsi in politica e di tener testa a coloro che traggono profitto dalla guerra.

Nessun presidente dai tempi di John F. Kennedy ha veramente cercato di fare la pace. Molti attenti osservatori di Washington ritengono che fu l’assassinio di Kennedy a insediare al potere in modo irreversibile il complesso militare-industriale. A ciò si aggiunge l’arroganza del potere statunitense, già notata da J. William Fulbright negli anni Sessanta (riguardo alla disastrosa guerra del Vietnam). Come i suoi predecessori, Trump crede che il bullismo statunitense, la disinformazione, le pressioni finanziarie, le sanzioni coercitive e la propaganda saranno sufficienti a costringere Putin a sottomettersi alla Nato, e il mondo musulmano a sottomettersi al dominio permanente di Israele sulla Palestina.

Trump e il resto dell’establishment politico di Washington, in debito con il complesso militare-industriale, non supereranno da soli queste delusioni. Nonostante decenni di occupazione israeliana della Palestina e più di un decennio di guerra in Ucraina (iniziata con il colpo di stato del 2014), i conflitti continuano, malgrado i tentativi in corso da parte degli Stati Uniti di imporre la propria volontà. Nel frattempo, il denaro scorre a fiumi nelle casse della macchina bellica.

Ciononostante, c’è ancora un barlume di speranza, dato che la realtà è una cosa ostinata. (…) Il primo ministro Viktor Orban, estremamente competente e realista, può aiutare Trump a cogliere una verità fondamentale: per arrivare alla pace in Ucraina, l’allargamento della NATO deve finire. Allo stesso modo, le controparti fidate di Trump nel mondo islamico – il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan, il Principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, il Presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi e il presidente indonesiano Prabowo Subianto – possono spiegare a Trump l’assoluta necessità che la Palestina diventi subito uno Stato membro dell’Onu, come precondizione stessa per il disarmo di Hamas e per la pace, e non come una vaga promessa per la fine della storia.

Trump può portare la pace se torna alla diplomazia. Sì, dovrebbe tener testa al complesso militare-industriale, alla lobby sionista e ai guerrafondai, ma avrebbe il mondo e il popolo americano dalla sua parte.

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Comments

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CARLO
Tuesday, 04 November 2025 09:58
Mi spiace ma non condivido questo articolo, perchè sbaglia, in maniera ingenua, ad individuare la vera causa della guerra. Da quando esiste il capitalismo le guerre servono a conquistare mercati, materie prime e rotte commerciali. In questo contesto l'apparato militare è uno strumento non il soggetto che decide le guerre. E' il capitalismo occidentale in crisi che cerca di espandersi per la necessità di produrre profitto, battuto dalla concorrenza del capitalismo orientale. L'occidente non può garantire a Mosca la neutralità Ucraina perchè l'espansione ad est dell'occidente è una necessità, altrimenti la sua crisi rischia di diventare irreversibile, così come non può permettersi di cedere il controllo del più grande serbatoio energetico del mondo, quello in medioriente, da qui l'assoluta necessità di armare Israele e combattere tutti i soggetti locali che questo controllo mettono in discussione, a cominciare dall'Iran e a ruota Libano, Yemen, Palestina, così che serva da monito per dittatori e sceicchi locali su cosa si rischia a cambiare alleanze. La causa delle guerre è il capitalismo.
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