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sbilanciamoci

Il rebus delle banche

Vincenzo Comito

montepaschi crisiUna conseguenza poco piacevole del referendum britannico è stata quella di un nuovo attacco dei mercati finanziari ai titoli bancari italiani. Come uscirne? I problemi del sistema bancario italiano riguardano la debole dinamica del nostro sistema economico, oltre al tema dei crediti in sofferenza e dell’inadeguata capacità di gestione degli istituti

Una conseguenza poco piacevole del referendum britannico è stata, come è noto, quella di un nuovo attacco dei mercati finanziari ai titoli bancari italiani, da parte in particolare di investitori molto nervosi; essi sembrano ora avere in mente una sola idea, quella di fuggire dal nostro paese, magari guadagnandoci qualcosa. Molti pensano in effetti che la prossima crisi possa riguardare proprio l’Italia.

Le perdite di valore dei titoli sono state pesanti, anche se poi, basandosi sulla speranza che si materializzi presto un intervento pubblico, esse si sono un po’ ridotte.

Alla fine dello scorso anno, Piazza Affari guadagnava circa il 13%, risultando, tra l’altro, campione d’Europa e le banche in particolare, non si sa per quale miracolo di cecità dei mercati, il 21%. Ora, nei primi sei mesi del 2016, il FTSE Mib ha ceduto più del 19%; per quanto riguarda il settore bancario, in particolare MPS ha lasciato sul terreno il 78%, lo stesso valore del Banco Popolare, Unicredit il 62%, mentre Intesa San Paolo, pure un istituto in buona forma, ha perso il 45% (Tosseri, 2016).

MPS in particolare, mentre presentava un capitale netto contabile di 10 miliardi di euro, mostrava invece un valore di Borsa di soli 750 milioni.

Il panico di Borsa ha reso ancora più acuto il problema, già peraltro da tempo sul tavolo, della ricapitalizzazione del nostro sistema, questione legata, per una parte almeno, all’esistenza di un grande livello di crediti in sofferenza. Ora la data critica è quella del 29 luglio, giorno in cui la BCE pubblicherà i risultati delle analisi sulla adeguatezza dei mezzi propri delle banche europee; ovviamente, si temono pessimi risultati per il MPS, ma anche per altri istituti. Il governo italiano sta cercando di fare qualcosa per tamponare almeno le falle maggiori del settore prima di tale data.

Incidentalmente, va ricordato che il problema dei crediti in sofferenza si potrebbe gradualmente risolvere da solo, nel medio-lungo termine, se ci fossero prospettive di crescita rilevanti dell’economia; ma nessuno scommetterebbe oggi su di un adeguato recupero del nostro sistema.

 

Gli interventi del governo

Non che questo governo abbia mostrato nel tempo una particolare abilità tecnica nell’affrontare i molti problemi del paese, ma i suoi interventi recenti nel settore finanziario appaiono, almeno sino ad ora, particolarmente maldestri.

Prima si è lasciato che, in base alle nuove norme europee, venisse tranquillamente azzerato il valore delle obbligazioni subordinate emesse dalle quattro banche in difficoltà (Banca Marche, Banca Etruria, CariFerrara, CariChieti), senza preparare alcuno strumento cuscinetto, salvo registrare subito dopo la rivolta dei risparmiatori.

Successivamente, si è faticosamente messo a punto il meccanismo di garanzia pubblica Gaecs, creato per contribuire a risolvere il problema delle tranche senior delle sofferenze, mossa presentata come la soluzione definitiva del problema; ma, dopo solo qualche giorno, appariva evidente che si trattava di una costruzione quasi irrilevante, anche per le limitate dimensioni dello strumento; e così, di esso nessuno ha più sentito praticamente parlare.

Poi è stata la volta della creazione del fondo Atlante, di nuovo indicata come miracolistica, mentre essa è servita a salvare due banche venete e poi ha quasi esaurito la sua forza propulsiva. Anzi, per alcuni versi la creazione del fondo può aver peggiorato le cose, perché le risorse per farlo decollare sono state apportate da banche in buono stato, che rischiano così di vedere indebolita la loro situazione finanziaria.

Infine, va registrato l’accordo-beffa sottoscritto con clamore con l’Europa, che permetterebbe interventi pubblici sino a 150 miliardi di euro, ma solo di fronte a deficit di liquidità delle banche; peccato che gli istituti italiani non abbiano preoccupazioni di tal sorta, ma invece problemi di solvibilità, cioè di insufficienza di struttura finanziaria, cosa che si può risolvere solo con aumenti di capitale e, in parte, con emissioni di titoli a lungo termine. Ma in questo momento, nonostante che il mondo rigurgiti di denaro in cerca disperata di impieghi, non si vedono spuntare all’orizzonte, dalle nostre parti, molti finanzieri volonterosi. Solo pochi fondi-avvoltoio volteggiano sui nostri cieli, pronti ad afferrare qualche preda che si mostrasse incautamente allo scoperto.

Intanto, mentre, per gli impegni presi, appare imperiosa la necessità di vendere al più presto le quattro banche in crisi, nessuno sembra interessato, al momento, ad offrire per la loro acquisizione un prezzo superiore a più di un terzo del valore stimato sulla carta; questo implicherebbe delle perdite rilevanti per diversi istituti coinvolti a suo tempo nell’operazione di salvataggio delle stesse e dei loro obbligazionisti subordinati (Greco, 2016).

 

Le differenti versioni della crisi

-la prima versione

A suo tempo, dopo lo scoppio della crisi, le nostre classi dirigenti ci hanno prontamente somministrato la favola secondo la quale il nostro sistema bancario, al contrario di quello degli altri paesi europei, era sano e che esso non aveva certo bisogno di interventi di ristrutturazione; la versione ufficiale affermava, tra l’altro, che le banche italiane erano state prudenti, avendo tra l’altro evitato di impelagarsi nei titoli sub-prime e nei derivati.

Ma intanto molte di esse, in realtà, nascondevano i loro crescenti problemi sotto il tappeto. Il Monte dei Paschi di Siena, nello stesso periodo, acquistava per una cifra fuori misura la Antonveneta, mentre Unicredit aveva ormai sostanzialmente esaurito la costruzione di un improbabile impero che si estendeva sino alle steppe del Kazakhstan e mentre molte banche nostrane continuavano a prestare tranquillamente grandi somme ad amici generosi e ad parenti riconoscenti. Ma la classe dirigente nazionale aveva a suo tempo deciso che non bisognava disturbare i manovratori. Forse essa sperava che la ripresa dell’economia avrebbe permesso di risolvere tutto (Fubini, 2016).

Nel frattempo, tra il 2008 e il 2010, molte banche statunitensi ed europee entravano in dei processi di profonda ristrutturazione, con l’intervento massiccio di denaro pubblico. Negli anni successivi si è poi assistito al rilevante salvataggio dei sistemi bancari spagnoli e tedeschi, sempre con i capitali statali e con la benedizione di Bruxelles; nel caso tedesco, in particolare, si è arrivati tranquillamente all’immissione di circa 250 miliardi di euro nel sistema, anche se non si può dire che i problemi delle banche del paese teutonico siano stati così pienamente risolti.

-la seconda versione

In tempi più recenti le nostre classi dirigenti cambiavano la loro versione dei fatti, essendo quella precedente ormai insostenibile. Si scopriva così che, in realtà, le banche presentavano grandi problemi, dovuti in particolare a forti perdite su crediti; anche in questo caso, comunque, si affermava che la sventura era dovuta esclusivamente alla crisi, mentre per il resto il sistema restava sano.

Si veniva comunque a sapere all’improvviso che i nostri istituti presentavano crediti problematici per un totale di 360 miliardi di euro, di cui 200 in sofferenza e 160 semplicemente incagliati. A fronte dei primi erano stati approntati fondi di riserva per circa 115-120 euro, quindi con un valore netto residuo di circa 80-85 miliardi, a fronte dei quali un’eventuale vendita sul mercato apporterebbe forse soltanto 40 miliardi circa, con un saldo negativo finale di 45. Nessun fondo, a nostra conoscenza, era stato invece approntato a fronte dei 160 miliardi di crediti incagliati, una parte dei quali passeranno presumibilmente, prima o poi, nella categoria precedente.

Si può quindi stimare, molto grossolanamente, che i fondi di cui necessiterebbe il nostro sistema per rimettersi pienamente in linea rispetto ai guai del passato si aggirano almeno intorno ai 50 miliardi.

Vero è che esistono garanzie patrimoniali e finanziarie su di una parte almeno di tali importi, ma la loro realizzazione monetaria è soggetta a fortissime incertezze e richiederebbe comunque moltissimi anni.

Intanto i mercati finanziari, già molto critici in generale della situazione e delle prospettive dell’economia italiana, cominciano a diffidare dei conti e delle dichiarazioni delle banche, che hanno ormai perso ai loro occhi ogni credibilità.

C’è da sottolineare, a questo proposito, che non tutti gli istituti piccoli e medi hanno ancora portato allo scoperto i loro crediti in sofferenza completamente, ma, d’altro canto, si può sperare che le partite nascoste possano pesare per pochi miliardi di euro ulteriori.

-La situazione reale

Va a questo punto sottolineato, ciò che smentisce anche la seconda versione dei fatti avanzata dai nostri dirigenti, che solo una parte, per quanto importante, delle perdite è da attribuire alla crisi. La realtà è anche quella che il nostro sistema finanziario è da molto tempo soggetto alla corruzione, alla cattiva gestione, alla carenza di controlli, come hanno ampiamente mostrato i casi delle quattro banche già citate, della Carige, del MPS, della BPM, e, su di un altro piano, anche quello di Unicredit e di altri. La crisi ha fatto solo venire gradualmente allo scoperto dei problemi che in precedenza potevano essere nascosti nelle pieghe dei bilanci grazie ai grandi margini di profitto permessi dalla situazione del mercato.

Come mostrano diverse inchieste, le banche italiane non hanno comunque solo il più alto livello di crediti dubbi dell’eurozona, con circa il 18% di sofferenze sul totale dei prestiti, contro il 12% circa del Portogallo, il 6% della Spagna, il 3% della Germania (Sanderson, Barker, Jones, 2016). Esse si presentano anche tra le meno redditive, sono infestate da alti costi e da inefficienze manageriali e sono anche quelle con il livello medio più basso di mezzi propri.

L’immissione anche di grandi risorse, mentre potrebbe risolvere i problemi nell’immediato, non sarebbe sufficiente, senza una profonda ristrutturazione del sistema, a mettere a posto pienamente le cose nel medio-lungo termine.

Che cosa si poteva fare? Sul piano tecnico ci sarebbero state almeno cinque possibili vie d’uscita dalla situazione attuale, anche se tutte presentavano molti possibili inconvenienti: 1) attivare i meccanismi del bail in secondo le regole dell’Unione, 2) accedere all’European Stability Mechanism (ESM), 3) potenziare con nuove risorse il fondo Atlante, 4) arrivare ad un intervento del governo che avrebbe portato ad immettere nel sistema fondi pubblici, o a fornire garanzie pubbliche a fondi privati, 5) infine, pensare all’ intervento di qualche banca in buono stato di salute che avrebbe avuto voglia di acquisire gli istituti in difficoltà. Alcune di queste misure potevano poi essere attivate in qualche modo contemporaneamente.

1) Per quanto riguarda il bail in, per far sì che Bruxelles autorizzasse qualche immissione di denaro pubblico nel sistema rispettando le regole, sarebbe stato richiesto che prima si fossero cancellati o, almeno, tagliati i valori di azioni e di obbligazioni, ordinarie e privilegiate. In particolare, prima di un intervento statale, gli azionisti e i creditori avrebbero dovuto subire perdite sino all’8% del valore delle passività di un istituto. Ma, per quanto riguarda almeno gli obbligazionisti piccoli risparmiatori, si trattava di una soluzione politicamente impossibile, a meno che non si fosse poi riusciti in qualche modo a rimborsare i danneggiati.

Vero è, peraltro, che l’articolo 107 del trattato sul funzionamento dell’Unione Europea permette aiuti di stato in circostanze eccezionali, per far fronte in particolare ad un serio disturbo dell’economia. E cose sostanzialmente simili dicono altre norme emesse da Bruxelles, quali il punto 45 delle regole sugli aiuti di stato e la sezione 72 della BRRD (Bank Recovery and Resolution Directive) (McCrum, Hale, 2016). Tutto dipendeva, a questo punto, dalle interpretazioni che si volevano dare alle stesse regole.

Su di un altro piano, il problema italiano è quello che, nella gran parte dei paesi, le obbligazioni bancarie, e ancora di più quelle di tipo subordinato, sono possedute quasi esclusivamente da investitori istituzionali, che sanno bene quello che fanno e sono in grado di coprire le perdite. E le regole europee sono forse state messe a punto a suo tempo pensando a tale quadro. Ma in Italia circa 200 miliardi di euro sui 600 di obbligazioni bancarie globalmente in circolazione sono possedute invece da investitori al dettaglio. Per quanto riguarda le obbligazioni subordinate, poi, sempre investitori retail, circa 60.000 persone in tutto, possiedono il 50% del totale di 60 miliardi di titoli in circolazione (McCrum, Hale, 2016). Solo il Monte dei Paschi ne ha emessi per 5 miliardi (Sanderson, Barker, Jones, 2016).

2) Il ricorso invece all’ESM avrebbe richiesto che l’Italia si assoggettasse a procedure di controllo molto spinte, ciò che di nuovo sarebbe stato politicamente insostenibile.

3) Per quanto riguarda invece il potenziamento del fondo Atlante, era evidente che qualcosa si poteva ancora fare. Il governo sta ancora peraltro cercando di mobilitare, oltre ai fondi che restano in cassa (circa 1,75 miliardi), altre risorse per circa 2-3 miliardi o forse più. Ad oggi non è ancora chiaro quanto si riuscirà a raccogliere alla fine in totale.

500 milioni potrebbero venire da Sga, una struttura a suo tempo messa in piedi per il salvataggio del Banco di Napoli (ma non si tratterebbe per Bruxelles di aiuti di Stato?), altrettanto dalla sempre disponibile Cassa Depositi e Prestiti, sui cui atteggiamenti interventisti su troppi fronti lontani dai suoi obiettivi di fondo ha tuonato in questi giorni anche la relazione annuale della Corte dei Conti; si stanno ancora mobilitando casse previdenziali, compagnie assicurative, banche d’affari estere (Saldutti, 2016), a tutti promettendo qualcosa sul piano normativo e fiscale (alla fine comunque pagheremo in qualche modo noi). Particolarmente discutibile appare il possibile intervento delle casse presidenziali, che non possono diventare un bancomat del governo. Molto preoccupato il commento dell’associazione dei giovani dottori commercialisti e di quella dei notai, che parlano di “una forma di esproprio patrimoniale”.

4) per quanto riguarda invece l’intervento diretto dello stesso governo, si veda più avanti.

5)L’acquisto, infine, da parte di qualche banca in buona forma, di strutture in difficoltà come il MPS appariva invece problematica, anche se certo non impossibile.

Quello del Monte dei Paschi era il caso nel breve termine più critico. Per esso, tra l’altro, la BCE ha appena chiesto entro la fine del 2018 una riduzione di circa 10 miliardi di euro nel livello delle sofferenze. Il governo ha così pensato, con il consenso di Bruxelles, all’acquisto delle stesse sofferenze attraverso un’operazione complessa, con l’intervento, per una parte, del fondo Atlante potenziato, come sopra indicato, con il risveglio dal letargo, dall’altra, del fondo Gacs per un’altra porzione e caricando infine qualcosa anche sulle spalle degli azionisti.

Inoltre, dopo la ripulitura dal bilancio dei crediti in sofferenza, si varerà un aumento di capitale (il quinto aumento miliardario in poco tempo) di circa 5 miliardi, che dovrebbe essere sottoscritto “sul mercato”, con il montaggio e la possibile garanzia dell’operazione da parte di alcune grandi banche internazionali, ma anche con una controgaranzia del governo i cui termini non appaiono peraltro ad oggi chiari (Bufacchi, 2016).

Altre risorse sarebbero poi necessarie evidentemente per far fronte alle eventuali carenze di capitale di altre banche.

 

Conclusioni

Il sistema bancario nazionale ha bisogno, nel caso di Montepaschi come più in generale, di una importante iniezione di risorse e tale operazione, viste le attuali condizioni, non si può probabilmente fare, in una qualche misura, senza un intervento finanziario pubblico.

Il momento per il governo italiano di ottenere l’assenso di Bruxelles è abbastanza favorevole. In effetti, le classi dirigenti europee sono ancora sotto lo shock della brexit e sembrano avere superato un primo momento di istintiva repulsione verso le richieste italiane, considerate all’inizio come un comportamento opportunistico che cercava di sfruttare l’evento britannico; qualcuno parlava a questo proposito di “opera buffa”, qualcun altro sottolineava che i problemi italiani erano ben precedenti al referendum di oltremanica.

A Bruxelles, a Francoforte e a Berlino hanno poi cominciato a ripensare alla questione e si è fatta strada la paura di un cedimento del fronte italiano; eloquente, a tale proposito, una ormai celebre vignetta pubblicata in prima pagina dall’Economist del 9 luglio, che mostra un autobus con i colori italiani che sta in bilico su di un precipizio. C’è anche la consapevolezza che la possibile caduta dell’Italia farebbe saltare il sistema dell’euro.

Così l’Europa non sembra volere, tra l’altro, mettere in difficoltà ulteriore il governo Renzi, che vede come l’ultimo baluardo contro il caos e contro l’avvento al potere del movimento Cinque Stelle. Bruxelles si rende probabilmente conto che l’attuale presidente del consiglio non ha migliorato granché la situazione dell’economia italiana, ma comunque si pensa che egli abbia cominciato a mettere in moto le “riforme” auspicate dall’Europa e che, al di la di qualche pittoresca improvvisazione, egli operi in maniera abbastanza diligente in linea con il pensiero dominante.

Così si è arrivati ad un accordo molto tormentato. Appariva molto difficile comunque che Bruxelles autorizzasse un’immissione di capitale al livello che sarebbe stato necessario per coprire tutti i buchi dei bilanci bancari, cioè 40-50 miliardi, come aveva inizialmente chiesto il governo. E’ stata invece autorizzata l’operazione sopra descritta insieme a qualcun’altra di dimensioni più ridotte che potrebbe seguire (The Economist, 2016), facendo tra l’altro finta dalle due parti che si tratti di un’operazione di mercato. Tale intervento dovrebbe poi contribuire, secondo i promotori dell’iniziativa, a portare maggiore tranquillità al settore e permettere quindi una ricapitalizzazione abbastanza facile di Unicredit; sembra sia necessario pensare, in questo caso, ad un’operazione che possa andare dai 5 ai 10 miliardi, oltre alla cessione di alcune importanti attività.

Ma i mercati finanziari non sembrano essere convinti sino in fondo e i titoli bancari, non solo quelli di MPS, nei giorni successivi all’annuncio dell’operazione sulla banca senese, hanno continuato a subire dei rovesci.

Il problema è quello che certamente non tutto è risolto. Le questioni di fondo del sistema bancario italiano appaiono molto importanti e riguardano, da una parte, la persistente debole dinamica del nostro sistema economico, dall’altra, in specifico, oltre al tema dei crediti in sofferenza, quelli di una scarsa redditività, di una debole capitalizzazione e di una inadeguata capacità di gestione degli istituti, nonché,infine, di una scarsa coerenza delle loro attuali politiche con le necessità della nostra economia e del nostro paese.

Tali problemi vengono resi più complicati da risolvere, e non solo da noi, per alcune condizioni esterne che si vanno sviluppando, quali, da una parte, i bassissimi, quando non negativi, tassi di interesse presenti sul mercato e, dall’altra, la forte dinamica tecnologica, che vede tra l’altro arrivare nel settore nuovi concorrenti molto aggressivi. In tale quadro, la capacità delle banche europee, non solo italiane, di reggere la situazione, non appare soddisfacente ed in ogni caso essa sembra inferiore a quella degli istituti statunitensi.

Il timore legittimo ora,in ogni caso, è che i problemi del sistema vengano scaricati da noi solo sui dipendenti, con ondate di licenziamenti, tagli di salari e così via.

Su di un altro piano, a nostro parere bisognava trovare la via di un intervento diretto dello Stato nel capitale del MPS, occasione per impostare, insieme ad altre mosse, una nuova politica del credito di cui il paese avrebbe certamente bisogno.

Essa dovrebbe essere indirizzata al supporto delle piccole e medie imprese e, più in generale, alla riqualificazione dello sviluppo economico italiano, in direzione delle crescita degli investimenti, indirizzati in particolare verso una nuova politica energetica, le nuove tecnologie, il supporto dell’occupazione, in particolare di quella qualificata.

Ma forse tutto questo è chiedere troppo ad un governo come quello Renzi.


Testi citati nell’articolo
-Fubini F., Così l’Italia è tornata nel mirino, Corriere della Sera, 8 luglio 2016
-Greco A., Conto salato per la vendita delle quattro banche salvate, La Repubblica, 9 luglio 2016
-Sanderson R., Barker A., Jones C., Essential repairs, Financial Times, 11 luglio 2016
-Tosseri O., La Bourse de Milan subit les affres des financières, Les Echos, 13-14 luglio 2016 
-Bufacchi I., Quella doppia garanzia pubblico-privato, Il Sole 24 Ore, 30 luglio 2016
-McCrum D., Hale T., Exploiting the fine prints of EU rules to save Italy’s banks, www.ft.com, 15 luglio 2016
-Saldutti N., Il cantiere allargato di Atlante2, Corriere della Sera, 12 luglio 2016
-Sanderson R., Barker A., Jones C., Essential repairs, Financial Times, 11 luglio 2016
The Economist, Crisis and opportunity, 9 luglio 2016

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