Il funerale dello Stato: la deriva neoliberista che trasforma i diritti in favori
di Giuseppe Libutti e Mariangela De Blasi
C’è un funerale che si celebra in silenzio, ma con costanza e meticolosità: è quello dello Stato, o meglio, della sua funzione pubblica e sociale. Un funerale che non avviene tra lacrime e lutti, ma tra tagli di bilancio, cessioni di sovranità, applausi alla filantropia e partenariati “virtuosi”. È l’esito di una lunga deriva neoliberista che ha trasformato il principio della giustizia sociale in una parola fuori moda, e l’interesse generale in una variabile dipendente dall’interesse privato.
Il modello dominante – oggi considerato inevitabile – è quello in cui lo Stato viene rappresentato come vecchio, inefficiente, improduttivo. Non è più “il garante dei diritti”, ma un burocrate stanco, da sostituire con attori dinamici, imprenditori “illuminati”, fondazioni private e capitali “socialmente responsabili”. Il passaggio da un sistema basato su diritti universali a un sistema di favori selettivi è stato tanto silenzioso quanto devastante: ha trasformato cittadini in beneficiari, doveri in opportunità di branding aziendale, politiche pubbliche in occasioni di investimento.
La nostra Costituzione parla chiaro: è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli economici e sociali che limitano l’uguaglianza e la libertà dei cittadini. Eppure, nella pratica, queste responsabilità sono state progressivamente delegate a soggetti privati. Non si tratta più di rafforzare la cittadinanza attraverso investimenti pubblici, ma di affidarsi a chi ha capitale da “donare”. Il concetto stesso di “diritto” si dissolve, sostituito dalla “generosità” arbitraria di chi sceglie se, quando e dove intervenire.
Le imprese si ergono a protagoniste della coesione sociale: gestiscono programmi di welfare aziendale, finanziano restauri di monumenti, lanciano iniziative “inclusive” nei quartieri difficili. Ma questa non è redistribuzione. È una forma nuova di potere. È il capitale che detta l’agenda pubblica, che seleziona le emergenze, che orienta i bisogni. Lo fa con la propria logica, con i propri obiettivi reputazionali, fiscali o di mercato.
Non c’è nulla di neutro o disinteressato in questo processo. La filantropia, tanto osannata, è spesso una forma di “potere persuasivo”. Chi dona sceglie, controlla, condiziona. E nel farlo, sottrae spazio alla decisione democratica. La logica privatistica si impone anche su beni che dovrebbero restare collettivi: la salute, l’istruzione, la cultura, il paesaggio.
Una delle narrazioni più pericolose è quella che presenta lo Stato come “paternalista”, “immobile”, “inefficiente”, giustificando così la necessità di alleanze paritarie con il privato. Ma in questa visione non c’è nulla di paritario: c’è un arretramento della sfera pubblica e una avanzata della logica del profitto. Si celebra la “collaborazione virtuosa”, ma si dimentica che il pubblico entra in gioco con risorse scarse e potere contrattuale debole, mentre il privato porta capitali e impone condizioni.
Dietro la retorica della “sostenibilità” e dell’“innovazione” si nasconde una resa culturale: la rinuncia a pensare lo Stato come soggetto attivo, come protagonista della trasformazione sociale. Si dà per scontato che non ci siano alternative al modello attuale. Che il mercato debba essere il motore dello sviluppo, che il benessere possa essere solo “co-prodotto”, mai garantito. In questo contesto, anche il pensiero critico si adegua: non contesta più le disuguaglianze strutturali, ma si commuove davanti alla beneficenza.
La sinistra – un tempo voce delle rivendicazioni collettive – oggi spesso si limita a benedire le donazioni simboliche dei grandi capitalisti, abdicando alla propria funzione storica. Si è passati dall’analisi del sistema alla celebrazione di chi elargisce elemosine.
Particolarmente emblematica è l’evoluzione del cosiddetto “welfare aziendale”. Nato come strumento complementare, si è trasformato in un meccanismo parallelo di gestione della vita dei lavoratori. Non si aumentano i salari, non si rafforzano le tutele universali: si offrono buoni, sconti, convenzioni, piani sanitari integrativi.
Ma il prezzo è alto: il lavoratore diventa dipendente non solo economicamente, ma anche simbolicamente dall’impresa. Non è più solo un soggetto titolare di diritti, ma un destinatario di favori. Le aziende si presentano come “caregiver” sociali, ma nella realtà esercitano un controllo più profondo: modellano il tempo, le scelte, le relazioni dei propri dipendenti. Anche la solidarietà viene gestita, canalizzata, incapsulata in format aziendali. Il volontariato diventa parte del pacchetto di benefits, la cittadinanza si piega alle logiche dell’impresa.
Lo stesso schema si ripete nella gestione del patrimonio culturale. La manutenzione dei beni storici, l’apertura di musei, la valorizzazione del territorio: tutto dipende sempre più spesso dalla “buona volontà” di qualche grande investitore. Ma un Paese che affida la tutela della propria storia alla generosità privata ha perso il senso della propria dignità politica.
Si festeggiano assegni milionari, si esaltano gli interventi privati, si elogia la “valorizzazione” dei monumenti. Ma nessuno si chiede perché il bilancio pubblico non preveda investimenti strutturali per questi ambiti. Nessuno ricorda che, in una democrazia, il patrimonio culturale è bene comune, non vetrina per il capitale.
Tutto questo costruisce una nuova forma di cittadinanza: quella fondata sulla gratitudine, non sulla rivendicazione. I cittadini non reclamano ciò che è loro dovuto, ma ringraziano per ciò che ricevono. La filantropia prende il posto della redistribuzione, la benevolenza del potere sostituisce la partecipazione democratica.
La disuguaglianza non è più letta come prodotto di un sistema economico ingiusto, ma come sfortuna individuale mitigabile da un aiuto selettivo. Il discorso meritocratico – che assolve il sistema e colpevolizza gli ultimi – completa il quadro.
Ma la più grave sconfitta è quella culturale: la perdita della fiducia in un altro mondo possibile. L’idea che non ci sia alternativa è la più potente vittoria del neoliberismo. Si è spezzata la tensione utopica, si è dissolta l’ambizione di giustizia collettiva.
Eppure, la nostra Costituzione è ancora lì, a indicare un’altra strada: quella della giustizia sociale, della dignità universale, della responsabilità pubblica. Non è utopia, è progetto. Non è assistenzialismo, è politica.
Difendere lo Stato sociale non significa essere nostalgici, ma realisti. Significa riconoscere che nessuna donazione potrà mai sostituire un diritto garantito. Che nessuna azienda può decidere, al posto della collettività, quali priorità siano giuste.
La questione centrale non è la generosità. È il potere. E il potere privato, se non viene sottoposto a controllo democratico, non dona: occupa. Decide. Trasforma.
In una società giusta, i diritti non si comprano. Si garantiscono. E solo uno Stato forte, responsabile, autonomo può farlo.
Per questo serve oggi più che mai una riconquista culturale e politica dello spazio pubblico. Non si tratta di escludere il privato, ma di restituire centralità al pubblico. Non si tratta di demonizzare il mercato, ma di riconoscere che il mercato non può essere il motore della giustizia sociale.
È tempo di smettere di applaudire i benefattori e tornare a pretendere giustizia. È tempo di tornare a essere cittadini. Non clienti, non beneficiari. Cittadini.







































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