
Non esiste il sionismo buono
di Paolo De Prai*
Nelle settimane scorse ho letto o partecipato a tre eventi che erano direttamente collegati alla valutazione che ebrei italiani hanno del sionismo.
Il primo episodio è quello di Emanuele Fiano, appartenente sia alla associazione “Italia-Israele” che al Partito Democratico, e che in varie occasioni ha negato che ci sia un genocidio, contestato e interrotto a un dibattito presso l’Università di Venezia, Ca’ Foscari.
Il secondo episodio è la relazione di Anna Foa ad un convegno organizzato dalla Chiesa Valdese a Roma, storica che condannava il genocidio a Gaza ma sollecitava in quel convegno la necessità di continuare i rapporti con le Università Israeliane.
Il terzo, letto su Contropiano, venivano riportate le critiche di Giorgio Mariani verso Carlo Ginsburg a proposito delle dichiarazioni del primo fatte per i cento anni della Hebrew University di Gerusalemme, il quale sollecitava l’importanza di continuare con essa le relazioni, a fronte “dell’orrendo pogrom” (definizione di Ginzburg) avvenuto il 7/10/23 e della “risposta criminale” di Netanyahu (altra sua definizione).
Il dato, che è necessario esaminare prima di tutto, è la difficoltà degli ebrei italiani rispetto alla relazione con uno stato estero, tra l’altro criminale, razzista e genocida, tanto che molti di loro nel nostro paese si sentano comunque legati ad esso.
Questo legame degli ebrei italiani con lo stato sionista potrebbe essere causato dalla propaganda dei sionisti israeliani che si arrogano la pretesa di essere i difensori degli ebrei nel mondo anche fuori del loro stato colonialista e in questo fanno continua propaganda.
Questa assurda situazione è come se io, protestante e italiano, dovessi sentirmi comunque protetto dal governo yankee o sentirmi parte di esso: quella dei sionisti è una evidente pretesa assurda a cui nessuno ribatte, sia nei media, sia nella politica.
Questa constatazione porta a chiedersi cosa sia effettivamente il “popolo ebraico”.
Per chi non avesse letto il mio articolo su Contropiano in cui ricordavo un recente studio scientifico della Harvard University, che dimostrava come gli askenaziti siano per lo più di antica origine italiana, per di più di madre non semita, esso introduce il problema che un popolo è diverso da una nazione.
Il popolo indica come una massa di persone è unita da un vincolo linguistico, religioso, culturale più o meno largo, esempio lampante è la definizione di “popolo di sinistra”.
La nazione invece intende una origine comune etnica e geografica, come per gli antichi giudei che ebbero un regno nell’antica Canaan.
I sionisti mischiano e imbrogliano sommando questi due piani, proponendo che il “popolo ebraico” è una nazione, che dopo duemila anni torna al proprio paese di origine (la terra promessa è un falso, perché, come ho ripetuto più volte, il libro della Genesi è un libro teologico e i personaggi in esso sono “inventati”), ma come dimostrato dallo studio genetico della Harvard University, gli ebrei del nord ed est Europa non provengono dalla Giudea e sono scarsamente semiti.
Resta, però, un senso di alterità degli ebrei della diaspora rispetto ai paesi di appartenenza e questo senso ha favorito l’idea, propagandata dai sionisti, di essere una “nazione” che vuole tornare al luogo di origine (però abitato dai palestinesi che sono i veri discendenti degli antichi ebrei, eclatante nel caso dei samaritani che sono palestinesi).
Questo senso di alterità ha origine, per me, da due fattori: il primo è l’idea di essere il “popolo eletto” da Dio e quindi speciale tra tutte le genti non-ebree (goyim), e il secondo, molto più vincolante, è l’azione repressiva attuata dalla chiesa cattolica nell’arco di molti secoli.
La chiesa cattolica ha costretto gli appartenenti alla religione israelita a vivere separati dal resto della popolazione, reclusi in ghetti; la ragione di questa separazione era perché la chiesa cattolica si riteneva il “vero Israele” e la separazione/repressione serviva per mostrare come gli ebrei subissero una condizione sfavorevole, sia per il rifiuto della vera fede, sia perché (per i cristiani) ci fosse per gli ebrei una condizione di attesa e conversione alla vera fede in preparazione del “giudizio universale” e del ritorno del Cristo.
Stante queste condizioni, gli ebrei, costretti più volte a essere espulsi ed emigrare, ogni volta si trovavano a ricostruire relazioni tra popoli diversi linguisticamente, culturalmente e religiosamente, ogni volta sentendosi accolti solo tra comunità israelite, da qui l’idea di essere una nazione a parte invece che perseguitati religiosi.
Questa falsa autocomprensione degli ebrei di essere una “nazione” chiarisce la loro difficoltà a distaccarsi dallo stato sionista, anzi sostenerlo, al massimo criticando il governo (razzista) israeliano, fatto che ho riscontrato più volte, anche tra chi ebreo si dice di “sinistra” o intellettuali stimati.
Così Ginzburg afferma che il 7 ottobre è avvenuto un “orrendo pogrom”, scordando che nei soli 15 anni precedenti erano stati assassinati 6085 palestinesi, quindi quel giorno non è successo niente di eccezionale, anzi almeno 500/600 coloni, se non di più, furono assassinati da IDF applicando la “direttiva Hannibal”, inoltre Ginzburg ha sostenuto la necessità di continuare i rapporti (come italiani) con la Hebrew University: da quel giorno l’unico pogrom orrendo successo è stato il genocidio a Gaza!
Ad un altro incontro, a cui io ho partecipato a inizio anno, ho ascoltato alcuni rappresentanti della LEA che da una parte riportavano le difficolta di critica dello stato sionista per i molti legami familiari, ma dall’altra l’assenza di una critica di rottura con il sionismo che è ideologia razzista.
Stessa cosa, continuare i rapporti con le università israeliane, è stato affermato da Anna Foa, dicendo anche, presso il convegno alla chiesa valdese, che esiste un “sionismo buono”, quello di Martin Buber.
La mia critica al sionismo è che non ne esiste uno buono, e si somma al mio rifiuto di accettare normale continuare rapporti con intellettuali israeliani: serve un discrimine.
Martin Buber era un intellettuale ebreo che aderì sin dall’inizio al sionismo, per poi emigrare anche nella Palestina Mandataria, ma egli disse, distinguendosi da Herzl che aveva una impostazione nazionalistica, che il suo era culturale e religioso.
Molto diverso era stato per Hanna Arendt, filosofa che emigrò in Palestina aderendo al sionismo, ma da quella esperienza ruppe divenendone critica dura, firmando anche una lettera di denuncia con A. Einstein, e il suo libro “La banalità del male”, è rivolto anche ai sionisti, che lo avevano capito e per questo la detestavano.
Senza entrare nel merito del pensiero di Buber, è chiaro che il suo rapporto con la “terra santa” era un rapporto affettivo ed ideale, quindi altra cosa dall’ideologia sionista, e questo pensiero è un aspetto generale presente in ogni luogo e in ogni persona: tutti hanno un luogo ideale a cui si è legati, magari perché è il luogo di nascita dei genitori oppure per i migranti che rischiano la vita per attraversare il Mediterraneo, un luogo dove iniziare una vita migliore: arrivare in un altro luogo aderendo a idee razziste e a danno di chi ci vive, allora quello è un crimine, il sionismo per l’appunto.
E veniamo al rapporto con gli intellettuali israeliani o sionisti in genere.
Mio padre, a 15 anni, da ottobre 1943 ad aprile 1945 è stato a Vienna uno schiavo di Hitler, all’inizio costretto a costruire telefoni militari, costretto a vedere bambini ebrei di circa 5 anni spalare la neve a piedi nudi (i nazi dicevano che era un atto educativo), senza poter intervenire, poi per piccoli sabotaggi condannato a scavare in Ungheria il “vallo anti-sovietico” insieme ad altre migliaia di forzati.
Oggi se mi trovassi a un dibattito con un sostenitore del nazismo (o del fascismo) e che sostenesse che l’olocausto non è esistito, non solo non ci parlerei ma agirei attivamente perché tale individuo sia espulso dal dibattito.
Lo stesso vale per i sionisti, se mi trovassi a un dibattito con la presenza di un tizio che sostiene lo stato genocida sionista e che nega il genocidio a Gaza (è il caso di Fiano a Cà Foscari, ma anche della Picierno), agirei allo stesso modo.
E’ chiaro quindi che se si vuole intraprendere un dibattito con intellettuali israeliani la condizione preliminare è sapere se sono sostenitori o giustificatori del sionismo oppure no, è condizione minima indispensabile.
Con Gideon Levi parlerei in qualsiasi momento.






































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