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Il futuro dell’Italia: come uscire dalla crisi?

di Biagio Bossone

Negli anni novanta, da giovane funzionario dell’allora Servizio Rapporti con l’Estero della Banca d’Italia, guidato da Fabrizio Saccomanni – convintissimo europeista – condivisi con tanti colleghi l’orgoglio e l’entusiasmo di essere parte del progetto di costruzione dell’euro. Con lo spirito di chi è artefice di una nuova grande impresa, lavorammo alla costituzione della BCE. Credevamo in un’Italia che contribuiva a ‘fare’ l’Europa; credevamo che la moneta unica avrebbe creato una zona di stabilità finanziaria in Europa, e credevamo che, sotto il vincolo dell’euro, il nostro Paese avrebbe adeguato le istituzioni e la sua stessa struttura produttiva ai migliori standard continentali – cosa di cui avevamo grande bisogno.

Quel progetto, che doveva portare a maggiore prosperità e benessere, è fallito e noi ci sbagliammo (i dati in tabella ne danno impietosa conferma).[1] Di quale altro esperimento sociale abbiamo bisogno per capire che il progetto non ha funzionato e che va cambiata strategia?

Dall’euro in poi, l’Italia ha continuato a non riformare le sue istituzioni e la sua economia, e la Grande Recessione ha mostrato non soltanto le profonde falle dell’Eurosistema che ho descritto qualche mese fa sul Sole24 ore, ma l’ancor più drammatica incapacità dei suoi stati membri di capire cos’è un’unione, come ha ben scritto Susanna Cafaro.

Tabella 1. PIL Pro Capite: Confronto Internazionale  

(stimato secondo la parità dei poteri d’acquisto)

(valori in dollari a prezzi correnti)

  1990 1995 2000 2005 2010 2015
Francia 17.641 20.846 26.193 30.603 36.027 41.178
Germania 19.422 23.566 27.277 31.968 39.263 47.999
Italia 18.546 22.272 27.006 30.052 35.076 37.255
Spagna 13.626 16.207 21.517 27.702 31.984 34.696
Euro area 16.954 20.408 25.323 30.123 35.882 41,123
Regno Unito 16.739 20.183 26.030 32.375 35,741 41.767
Unione Europea 14.962 17.965 22.547 27.495 33.275 38.705
Canada 20.108 23.354 29.185 36.135 40.027 44.205
Stati Uniti 23.955 28,782 36.450 44.308 48.374 56.207

Fonte: World Bank Indicators

Quali sono riforme non fatte? Ne cito alcune: riforma della giustizia civile, della macchina amministrativa pubblica e dell’università; riqualificazione della spesa pubblica e rilancio di investimenti pubblici (in ambiente, territorio, ricerca, innovazione, scuola, salute); sradicamento di mafie, corruttele ed evasioni fiscali; facilità di fare impresa; liberalizzazione del mercato dei servizi e delle professioni. Vista l’annosa inazione su questi fronti prima dell’euro, entrare a farne parte era il momento per darsi un forte colpo di reni e ammodernare il Paese, rendendolo ben più ‘attrattivo’ e ‘competitivo’ che non usando danaro pubblico e moneta debole per creare – insostenibilmente – ricchezza privata.

L’Eurosistema odierno rappresenta la grande occasione mancata e la sua realtà attuale è affatto diversa da quella che tanti Italiani preconizzavano pensando all’euro prima che nascesse. Proprio quell’euro, inizialmente inteso come simbolo di futura unità e prosperità, durante la crisi sarebbe diventato strumento di divisione ed egoismi, egemonia e subordinazione, e infine foriero di una crisi economico-sociale che, come ha argomentato Sergio Fabbrini, minaccia di diventare crisi della democrazia.

Occorre porsi due domande:

  • Può ancora affermarsi la visione che ispirò l’Italia a credere nell’euro, e avviare una riforma dell’Eurosistema che restituisca dignità (teorica e pratica) alle politiche di sostegno della domanda?
  • Saprà l’Italia fare le riforme che avrebbe comunque dovuto fare e non ha fatto?

Riguardo alla prima domanda, richiamo un passaggio espresso alcuni mesi fa sulla stampa italiana da un dirigente della BCE, secondo cui “Alcuni critici dell’euro portano…ad esempio gli Stati Uniti, che sarebbero dotati, a differenza dell’eurozona, di istituzioni che consentono all’unione monetaria di funzionare…Quei critici dimenticano che gli Stati Uniti hanno introdotto quegli strumenti oltre un secolo dopo avere adottato il dollaro, e dopo una guerra civile, molte crisi finanziarie, e la Grande Depressione”. Beh, se da Francoforte avvertono che si dovrà attendere molti decenni e vari eventi catastrofici prima di correggere le gravi storture dell’Eurosistema, non c’è da essere molto ottimisti…

Fuor di boutade, oggi non c’è traccia nel dibattito fra i paesi membri della volontà di riformare il sistema nel senso sopra richiamato, per esempio, fra le altre cose, ripensando gli obiettivi della BCE – argomento che peraltro il solo citare sembra persino un tabù. La cosa non sorprende più di tanto, considerati i vantaggi enormi che il paese-guida – la Germania – trae dal sistema così com’è e come lo ha voluto.

Riguardo alla seconda domanda, noi Italiani dobbiamo imparare a governarci senza aggrapparci a (o nasconderci dietro) vincoli imposti dall’esterno. L’esperienza con l’euro deve insegnarci che dobbiamo trovare il modo di recuperare l’uso attivo della politica macroeconomica e rafforzare le nostre istituzioni contando sui nostri mezzi. Possiamo riuscirci seguendo una di due strade possibili. La prima è quella di rimanere nell’euro, ma dotandoci di uno strumento monetario ad esso complementare (la moneta fiscale) per ridare spazio a un’economia altrimenti intrappolata in quello spazio asfittico che, al più, ci consente di brillare di sprazzi di luce riflessa. Potrà apparire paradossale, se non addirittura ironico, ma fu proprio la Germania a superare la Grande Depressione inventandosi un nuovo strumento monetario. Certo, quella grande e coraggiosa innovazione richiese uno statista del calibro di Hjalmar Schacht, allorché di statisti come lui oggi, in giro, se ne vedono pochi. Ma occorre pur sempre sperare…

L’altra strada è quella di gestire un’uscita dall’euro nel contesto di un quadro di policy che ci permetta di usare la riacquisita sovranità economica in modo proattivo eppure rigoroso e credibile,[2] e tralasciando di puntare ai presunti effetti taumaturgici della svalutazione che Riccardo Realfonzo e Angelantonio Viscione, così come pure e Andrew Powell, hanno mostrato essere effimeri.[3]

Laddove la strada della moneta fiscale risulterebbe senz’altro più agevole e meno incerta, con misure di salvaguardia previste che la renderebbero fiscalmente neutrale nel caso d’inadeguato stimolo all’output, quella di un’uscita dall’euro implicherebbe incertezze rilevantissime e un passaggio assai stretto per convincere i mercati che l’Italia è non soltanto in grado di uscire indenne dal sistema dell’euro, ma anche di crescere robustamente e stabilmente con una sua nuova moneta. Le ragioni del perché il passaggio sarebbe assai stretto le ho esposte su questo sito, nei commenti all’articolo di Andrea Terzi, sempre su questo sito, e in due interventi più recenti (qui e qui).

Riprendendo i principi del (purtroppo ignorato) manifesto Modigliani del 1998, contro la disoccupazione nell’UE, è necessario agire tanto sul lato delle politiche macroeconomiche quanto su quello strutturale. Dobbiamo stimolare la domanda e impegnarci a riformare i settori cruciali sopra ricordati. Intervenire sulla domanda riaccenderà la crescita; agire con le riforme prima richiamate migliorerà il nostro grado di civiltà e modernità, agevolerà investimenti e innovazione, e aumenterà il potenziale di offerta.

Possiamo (e dobbiamo) fare tutto ciò, dentro l’euro o fuori. Se lo faremo dentro l’euro con la moneta fiscale, acquisiremo la forza economica e il peso politico necessari per promuovere dall’interno la riforma dell’Eurosistema, senza aspettare guerre e crisi, e consapevoli che potremo sempre compensare le carenze del sistema con la flessibilità consentitaci dal nuovo strumento. Se lo faremo fuori dall’euro, nel contesto di un regime di policy flessibile ma credibile, quale quello sopra richiamato, eviteremo di rimanere ostaggi di un sistema gravemente fallace e che non ci dà spazio per rilanciare la crescita di cui abbiamo bisogno.

Entrambe le strade non sono scevre da difficoltà e rischi, ma il non percorrerne  nessuna costerebbe enormemente al futuro del Paese. I ‘cattivi maestri’, da cui Roberto Perotti esorta a guardarsi, non sono coloro che provano a immaginare soluzioni per rimediare al disastro di questi anni, ma quelli che con pervicacia continuano a sostenere le ricette che a quel disastro hanno portato, quelli che non hanno l’umiltà per ammettere che hanno sbagliato e che va cambiata rotta, e quelli che vaneggiano di riforme dell’Eurosistema dimenticando che nulla può fare un’Italia in perenne difficoltà per animare una volontà di riforma che oggi in Europa semplicemente non esiste.

Chiunque si appresti a governare l’Italia dal prossimo anno avrà l’obbligo morale di scegliere e dovrà averne il coraggio.


Note
[1] Naturalmente i dati in tabella mostrano soltanto il terreno perduto dall’Italia rispetto ad altri paesi avanzati dall’ingresso nell’euro in poi. Nulla dicono del fatto che il PIL reale del Paese nel 2017 segna un delta negativo di circa 100 miliardi (un buco del 6% circa) rispetto al 2007 – dieci anni fa! – la disoccupazione è doppia, le persone in povertà assolute triple e la qualità dei posti di lavoro che si creano è scadente, con ampie e crescenti sacche di precariato e lavoro a tempo limitato. Non era questo quello che ci aspettavamo dall’euro.
[2] Secondo il quadro di policy proposto: Governo e Banca d’Italia concordano un piano di monetizzazione di una quota rilevante del debito pubblico, per esempio adottando la proposta PADRE di Pierre Pâris e Charles Wyplosz, così ristabilendo condizioni di sostenibilità del debito, mentre il Parlamento introduce:
  • un obiettivo duale per la politica monetaria, con il perseguimento di stabilità dei prezzi e piena occupazione (per esempio tecnicamente incardinato su un target espresso in termini di PIL nominale), e la stabilizzazione del rapporto debito/PIL intorno al nuovo valore post-monetizzazione
  • l’obbligo di mantenere il bilancio strutturale in pareggio, permettendo l’uso anti-ciclico della leva fiscale ma con l’impegno di bilanciare i saldi attraverso i cicli
  • la previsione che Governo e Banca d’Italia si coordinino nelle situazioni d’inefficacia della politica monetaria, eventualmente anche attraverso un nuovo regime di politica monetaria sostenuto dal bilancio consolidato tesoro-banca centrale.
[3] Concordo con le conclusioni di Realfonzo e Viscione, tratte dall’analisi dell’esperienza storica, secondo cui i risultati in termini di crescita, distribuzione e occupazione dipendono da come si resta nell’euro e, più che dall’abbandono del vecchio sistema di cambio in sé, dalla qualità delle politiche economiche che si varano una volta tornati in possesso delle leve monetarie e fiscali.

Comments

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Vincesko
Sunday, 10 December 2017 18:37
Citazione1: “ripensando gli obiettivi della BCE”.
Citazione2 (nota2): “un obiettivo duale per la politica monetaria, con il perseguimento di stabilità dei prezzi e piena occupazione”.

Nello statuto della BCE, all'art. 2-Obiettivi, c'è, col riferimento all’art. 3 del TUE, oltre alla stabilità dei prezzi, anche l'obiettivo della piena occupazione, solo che il mandato è duale-gerarchico.

Dall'analisi comparativa dei rispettivi statuti:
- per la FED, gli obiettivi della piena occupazione e della stabilità dei prezzi sono su un piano perfettamente paritario, e la piena occupazione è menzionata per prima: Section 2A. Monetary policy objectives
The Board of Governors of the Federal Reserve System and the Federal Open Market Committee shall maintain long run growth of the monetary and credit aggregates commensurate with the economy's long run potential to increase production, so as to promote effectively the goals of maximum employment, stable prices, and moderate long-term interest rates.
http://www.federalreserve.gov/aboutthefed/section2a.htm
- per la BCE, invece, la stabilità dei prezzi ("sotto, ma vicino, al 2%"), che con il trattato di Lisbona è entrata a far parte degli obiettivi dell'Unione europea, è l'obiettivo principale, la piena occupazione l'obiettivo secondario o subordinato, o meglio, a ben vedere, condizionato ("fatto salvo l'obiettivo della stabilità dei prezzi"; "without prejudice", nella versione inglese); ne discende logicamente e in stretta aderenza al testo letterale dell'art. 2 del suo Statuto, mutuato dai Trattati UE, che la gerarchia dei 2 (due) obiettivi statutari della BCE non è fissa e invariabile, ma muta in rapporto all'andamento del tasso d'inflazione della Zona euro nel medio periodo: se questo è pari o superiore all'obiettivo del “poco sotto il 2%”, il Consiglio direttivo della BCE deve perseguire esclusivamente l'obiettivo principale, al quale potrebbe arrecare pregiudizio il perseguimento anche dell'obiettivo subordinato della crescita economica e della piena occupazione attraverso le leve monetarie tipiche (tasso ufficiale di sconto e |massa monetaria); ma se il tasso d'inflazione è inferiore, ''a fortiori'' quando è sensibilmente inferiore - come si verifica in EUZ da 5 anni, con sconfinamenti in territorio negativo, cioè di deflazione -, rispetto al target, la gerarchia cambia formalmente e sostanzialmente e i due obiettivi - quello principale della stabilità dei prezzi e quello subordinato della “crescita economica equilibrata” e della “piena occupazione” -, statuiti dal fondamentale art. 3 del TUE, diventano assolutamente concordanti, convergenti e complementari, e quindi l'obiettivo subordinato ha le stesse dignità e cogenza del primo.
https://www.ecb.europa.eu/ecb/legal/pdf/c_32620121026it._protocol_4pdf.pdf
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