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Palantir, un sistema per la privatizzazione dello Stato
di Franco Padella
Guerre e politiche securitarie poggiano su sistemi operativi, in primis su Palantir, società di Peter Thiel e Alex Karp diventata fondamentale nei teatri di guerra in corso, per la caccia ai migranti negli Usa. Dopo la visita di Trump a Londra si estende in Uk. Con un piedino in Italia.
I conflitti contemporanei, dall’Ucraina al Medio Oriente, si stanno rivelando essere sempre più guerre digitali, dove l’Intelligenza Artificiale e le capacità di elaborazione dati diventano elementi decisivi sul campo di battaglia. Non si combatte più solo con armi fisiche: informazioni, dati interconnessi e algoritmi avanzati formano ormai un vero e proprio sistema operativo della guerra moderna. E’ il controllo dei flussi informativi a determinare il successo delle operazioni con la stessa – se non maggiore – importanza della potenza di fuoco tradizionale.
In questo scenario, le Big Tech, tradendo le loro originarie narrative di beneficio per l’umanità, si sono posizionate velocemente in prima linea per sfruttare le opportunità offerte dalle tensioni globali, mettendosi pesantemente in corsa per inserire le loro capacità di Intelligenza Artificiale e di calcolo nella gestione dei conflitti, siano essi di tipo geopolitico o di controllo sociale a uso interno. Un’operazione pervasiva che invade non solo gli ambiti securitari e bellici, ma anche settori che fino a poco fa erano dominio esclusivo degli Stati nazionali.
Mentre i riflettori mediatici restano focalizzati sul ristretto gruppo FAMAG (Meta, Apple, Microsoft, Amazon, Google), note per le nostre interazioni quotidiane, è un’altra azienda, mediaticamente “minore”, a rappresentare un’alternativa tanto silenziosa quanto potente: Palantir Technologies. Poco visibile rispetto alle altre, si è già profondamente integrata con gli apparati di sicurezza e di guerra americani, ed è molto avviata nella stessa direzione in tutto l’Occidente. A differenza delle altre, Palantir preferisce rimanere in penombra: non vende se stessa al pubblico, non fa pubblicità. Vende potere. Potere dato in uso a Stati e governi, potere di prevedere, di controllare, di dominare. E facendo questo, in qualche modo, diventa essa stessa Stato.
Gemelli diversi per uno stesso potere
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Effetti culturali dell’economia neoliberista V
di Luca Benedini
(Quinta parte – Neoliberismo, dinamiche psicologico-emotive e vita relazionale: prima metà del discorso, con un approfondimento sulla naturalità della filosofia dialettica)*
Osservazioni e riflessioni a tutto campo su dipendenze, proiezioni, dualismi,
sfasature tra i sessi e forme di venerazione sociale di cosiddetti leader
carismatici, tanto più nell’attuale mondo dominato dall’ideologia neoliberista
Prima di inerpicarsi nei vari aspetti di una possibile integrazione tra il “socialismo scientifico” marx-engelsiano e le forme di esperienza, di pensiero e di movimenti alternativi più congrue, profonde e costruttive che si sono sviluppate nell’ultimo centinaio d’anni (integrazione che è stata delineata nella quarta parte del presente intervento), appare opportuno – e per molti versi intrinsecamente necessario – approfondire nel loro insieme una serie di tematiche psicologico-emotive e relazionali che riguardano il modo stesso in cui viviamo e in cui, più in particolare, affrontiamo le varie situazioni e circostanze nelle quali ci veniamo a trovare.
Naturalmente, anche i modi in cui affrontiamo i vari temi che ci si presentano nell’ambito della vita sociale possono essere profondamente influenzati da tali tematiche, benché si tratti di un argomento che è rimasto praticamente escluso dal “cielo della politica” sia durante il ’900 che in questo inizio di secolo: un’esclusione che è avvenuta non certo per caso, ma per tutelare le ambizioni personali e le tendenze ideologiche che – con pochissime, rare e solo parziali eccezioni – hanno drammaticamente predominato nella politica in tutto questo periodo, impoverendo molto pesantemente il lato umano, relazionale e intimamente democratico della politica stessa (lato che invece dovrebbe essere fondamentale in qualsiasi società che al suo interno intenda limitare fortemente il classismo e i suoi tipici effetti umanamente devastanti o che, addirittura, sia orientata esplicitamente al superamento di qualsiasi forma di classismo).
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Mario Draghi, ovvero l’ontologia del tecno-capitalismo
di Lelio Demichelis
Il recente discorso di Draghi a Bruxelles a un anno dalla presentazione del suo Rapporto è una quintessenza del pensiero tecnocratico neoliberale. Per competere con Cina e USA serve il primato della crescita e dello sviluppo, meno limiti alle imprese e quasi nessuna cura per la democrazia e la tutela dell’ambiente.
“Monito all’Europa”. “Discorso accorato e appassionato”. “Parole nette. Parole scandite”. “Un ultimatum ai governi”. Questi alcuni dei titoli che hanno accompagnato il recente discorso di Mario Draghi per celebrare un anno dalla presentazione del suo Rapporto sulla competitività. Ma per quale Europa parla Draghi? E in nome di chi ha redatto il suo Rapporto? Poche, come sempre le critiche, molte, come sempre, le lodi. Nessuno (o pochissimi) ha cercato di analizzare la filosofia – meglio: l’ontologia e la teleologia (e la teologia economica e tecnica) – sottesa al suo Rapporto e al suo discorso. Intendendo con ontologia, il senso per cui l’uomo deve essere formattato per essere funzionale al sistema e alle esigenze del capitale, e con teleologia intendendo le finalità da perseguire mediante l’ontologia sistemica, cioè l’accrescimento incessante di profitto, del mercato e dei sistemi tecnici integrati e convergenti in mega-macchine.
Il discorso di Draghi merita quindi un’analisi dettagliata e approfondita. Recuperando quel pensiero critico oggi quasi scomparso dalla scena politica e culturale, ma senza il quale non si capisce il mondo che cambia e come sta cambiando e chi lo sta cambiando a nostra insaputa.
Iniziamo con una notazione: Draghi cita molte sigle e molti acronimi – IPCEI, PPA, CfD, ScaleupEurope – ma non cita mai il più importante, l’IPCC, ovvero The Intergovernmental Panel on Climate Change, i cui studi e i cui allarmi sul cambiamento climatico e ambientale, cioè sull’ecocidio in corso (prodotto dall’uomo, o meglio: da tre secoli di rivoluzione industriale tecnica e capitalistica basata su profitto e sfruttamento di uomini e biosfera, a prescindere dall’uomo), dovrebbero essere invece la bussola per guidare e attuare (questa sì urgentemente) la trasformazione radicale del sistema tecnico e capitalista nel senso di responsabilità (e giustizia) ambientale, sociale e intergenerazionale.
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Iperturismo, il lato oscuro di un’industria globale da 11 trilioni di dollari
di Alberto Burba
Il 27 settembre è la Giornata mondiale del turismo. Ma dietro ai lustrini si nascondono sfruttamento, precarizzazione e distruzione dei territori
Industria da 11 trilioni di dollari, 357 milioni di posti di lavoro e 1,4 miliardi di viaggiatori: il turismo è una miniera d’oro globale. Ma dietro le celebrazioni Onu e gli slogan sulla sostenibilità si nasconde un flagello, l’iperturismo. I dati sono impressionati: ad Andorra ci sono 52 turisti per abitante, nell’isola greca di Zakynthos 150 e nel centro storico di Venezia 520. Le conseguenze? Crisi ambientale (Maya Bay in Thailandia), erosione culturale (Dubrovnik svenduta a Instagram), speculazione immobiliare (Napoli espugnata da Airbnb). Governi e multinazionali concentrano i profitti, mentre i territori vengono devastati, come in Albania dove la cementificazione selvaggia distrugge le coste.
* * * *
Dà lavoro a 357 milioni di persone. Genera un volume d’affari pari al 10% del Prodotto interno lordo mondiale. Sposta 1,4 miliardi di anime ogni anno. Ha un tasso di crescita tra il 3 e il 6 percento. E in cinque anni si è ripresa con grande agilità dalla crisi del Covid.
È l’industria del turismo, una miniera d’oro che ogni anno sforna 11 trilioni di dollari. Venerata ai quattro angoli del pianeta, nel 1979 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha pensato bene di dedicarle un giorno tutto suo: il World Tourism Day, la giornata mondiale del turismo, che si festeggia ogni 27 settembre. Ma dietro ai lustrini dei summit internazionali e alla retorica sulla «sostenibilità» si nasconde il rovescio della medaglia, che alimenta sfruttamento, precarizzazione, concentrazione dei profitti in mano a pochi e distruzione dei territori.
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Per un bilancio critico del neoliberismo
di Salvatore Bianco
Tramite una vera e propria rivoluzione politica e sociale, sia pure apparentemente incruenta, sul finire degli anni Settanta del secolo scorso si è affermata una nuova visione generale del mondo sulle già travagliate società occidentali. Essa ha demolito in un decennio, o poco più, lo Stato sociale keynesiano, egemonico nel trentennio precedente, i cosiddetti «trenta gloriosi» (1945-1975), istituendo via via, in forme sempre più compiute, una «sovranità globale di mercato» (C. Galli, Sovranità, Il Mulino, 2019, p. 111). Come sempre, sono le contingenze storiche che si incaricano di propiziare quello che è risultato essere un sommovimento venuto e voluto «dall’alto», da parte dei gruppi economicamente e politicamente dominanti, in evidente stato confusionale perché mai prima di allora sfidati dai «subalterni», al termine del ciclo storico di lotte, quello degli anni Sessanta, forse più favorevole in termini di acquisizioni di diritti sociali e di libertà individuali. Quella che è stata con ogni evidenza una controffensiva scatenata «dall’alto» contro «il basso» e che sta proseguendo tuttora, il grande sociologo e studioso Luciano Gallino ha molto opportunamente riassunto nella nota formula della «lotta di classe dopo la lotta di classe» (La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, 2012, pp. 11-12). In pratica, nei primi anni Settanta il capitalismo occidentale vive la sua crisi più drammatica, che corrisponde a un crollo del saggio di profitto e a una fase economica di prolungata stagnazione nella crescita e, inoltre, a una simultanea esplosione incontrollata dei prezzi – quello che nei manuali di economia è ricordato come il fenomeno della «stagflazione». Tra i fattori scatenanti di quella che si presenta come una tempesta perfetta, sicuramente va annoverata la sciagurata e interminabile guerra in Vietnam, con tutto il suo strascico di squilibri finanziari conseguenti, dovuti agli incontrollati quantitativi di dollari stampati e immessi nel sistema valutario per fare fronte alle sempre più ingenti necessità militari.
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La crisi della Grande Distribuzione Organizzata e la falsa alternativa
di Eros Barone
1. La crisi della GDO nel quadro del capitale commerciale e della concorrenza intercapitalistica
La cronaca riferisce che Carrefour sta ridefinendo la sua strategia e la sua presenza in Europa e valuta l’ipotesi dell’uscita dall’Italia. Il gruppo francese si è pertanto affidato a Rothschild per sondare il mercato alla ricerca di potenziali compratori. Secondo quanto ha ricostruito il «Corriere della Sera», al momento ci sarebbero già alcune aziende della grande distribuzione interessate a rilevare i negozi del gruppo francese. Stando ai risultati finanziari dell’anno scorso, l’Italia rappresenta per Carrefour il quinto mercato dopo la Francia, il Brasile, la Spagna e il Belgio. La penetrazione del gruppo francese in Italia risale al 1993, quando Carrefour aprì il primo negozio e dette avvio a un’espansione che lo ha portato a gestire attualmente 1.185 negozi, dai minimarket e supermercati agli ipermercati, generando 3,7 miliardi di euro di vendite nette. L’eventuale cessione dei negozi italiani rientrerebbe nell’ambito di una strategia più ampia relativa alla revisione di tutte le risorse produttive. Al momento la direzione dell’azienda ha formulato più ipotesi. La prima, e probabilmente quella favorita dai francesi, sarebbe quella di una cessione a un unico compratore. Ma non viene esclusa anche la possibilità di vendite frazionate oppure l’adozione di un modello in ‘franchising’. Del resto, l’azienda francese negli ultimi anni, a livello globale, ha già condotto operazioni per ridurre i costi, dirigendosi progressivamente sul ‘franchising’, che oggi rappresenta il 75% dell’intera rete. Qualsiasi eventuale operazione di cessione avrebbe comunque bisogno del sostegno degli azionisti di riferimento di Carrefour, tra cui la famiglia Moulin, proprietaria del gruppo francese di grandi magazzini Galeries Lafayette.
Nelle settimane scorse Carrefour Italia ha annunciato un piano di riorganizzazione della sede centrale di Milano con 175 esuberi. L’obiettivo dell’operazione, secondo quanto riportato in una nota del gruppo diffusa in occasione dell’annuncio degli esuberi, sarebbe di “accelerare ulteriormente il percorso di trasformazione del business, incentrato sul modello del franchising, e rilanciare la sostenibilità finanziaria e commerciale dell’azienda”.
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Capitalismo crepuscolare. Fate presto
di Salvatore Bianco
L'odierno "capitalismo crepuscolare" non è in grado di offrire lavoro dignitoso e benessere diffuso. Pubblichiamo un estratto del libro di Salvatore Bianco “Fate Presto. Emergenzialismo come fase estrema del neoliberismo” (Roma, Rogas, 2025)
Qui conviene ritornare sia pur celermente alla crisi del 2007 e alla sua frettolosa e interessata interpretazione, da parte dell’establishment e dei vari ammennicoli mediatici, nei termini riduttivi di una semplice crisi finanziaria. Di contro, una più convincente letteratura critica recente l’ha poi correttamente inquadrata come Terza grande depressione del capitalismo moderno, dopo quelle di fine Ottocento e l’altra arcinota crisi del ’29 nello scorso secolo. Secondo questa analisi, essa si sarebbe aperta nel biennio 2007-2008 per mai più richiudersi e pertanto dopo oltre quindici anni ne saremmo completamente pervasi. In realtà, lo stesso pensiero mainstream ha finito con il reinterpretarla piuttosto cinicamente, utilizzando a sua volta le categorie del «pensiero negativo»: il negativo, cioè la crisi, è parte dell’ordine, non ci può essere ordine privo di negazione interna, con buona pace del «razionalismo moderno» e della sua pretesa di trattare la crisi con strumenti risolutivi. In effetti, si è constatato sul piano fattuale che la crisi si era dilatata e intensificata oltre misura. Si è cominciato allora a gestirla, governando non più sulla crisi ma attraverso di essa. E per questo è divenuta nel discorso pubblico, alimentato ad arte dall’élite dominante, «permacrisi»: la cui gestione non può che essere all’insegna dell’emergenza permanente, per l’appunto emergenzialismo. Tutto ciò con l’obiettivo di preservare quello che rimane del proprio ordine e delle gerarchie politiche e sociali in esso incorporate. Ironia della sorte, quella vita biologica che la politica moderna in Occidente aveva elevato a bene supremo da proteggere, come illustrato precedentemente, appare ora sempre più ostaggio, tramite i continui avvertimenti recapitati ad esempio dalla natura, del «modo di produzione capitalistico», che nella sua forma assoluta annichilisce l’ambiente e disumanizza la società, come le guerre più recenti con il loro carico di distruzione e di morti attestano. La crisi deve ritornare a essere nel discorso politico di chi sta in basso quella che è sempre stata in epoca moderna dopo la cesura dalla Rivoluzione francese: un’occasione per agire il conflitto nel vuoto di legittimità che si determina all’indomani della perdita di consenso, con una robusta battaglia di idee a fare da apripista.
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Social media, realismo capitalista e post-fascismo
di Alberto Remonato
1. Esternalizzazione dell’intrattenimento
Nella raccolta di frammenti pubblicata postuma col titolo Pensieri, Pascal scrive che gli uomini non avendo potuto rimediare alla morte, alla miseria, all’ignoranza, hanno risolto, per vivere felici, di non pensarci[1]. Aggiunge che questa funzione del non-pensare è delegata al divertissement:
La sola cosa che ci consola delle nostre miserie è il divertissement, che pure è la nostra più grande miseria. Infatti proprio questo, principalmente, c’impedisce di pensare a noi stessi e ci porta inavvertitamente alla distruzione. Senza di questo saremmo nel tedio, e il tedio ci spingerebbe a cercare un mezzo più solido per uscirne. Invece la distrazione ci diverte e ci fa arrivare inavvertitamente alla morte[2].
L’intrattenimento, dunque, ‹‹ci porta a perderci››, a fuggire, ad alienarci da noi stessi, dagli altri, dal tempo. L’essere umano, per paura delle ‹‹proprie miserie››, rimuove la coscienza dalla propria condizione e della propria mortalità.
Nella nostra contemporaneità la funzione dell’intrattenimento è stata completamente esternalizzata. Il compito di produrre divertissement viene gestito integralmente da quella che Adorno e Horkheimer chiamano ‹‹industria culturale››, i cui prodotti appunto, ci consolano dalle nostre miserie e costituiscono la più grande delle nostre miserie; detto altrimenti: ‹‹il piacere del divertimento promuove la rassegnazione che vorrebbe dimenticarsi in esso››[3].
Come sapeva Platone, non può esserci pensiero senza eros. In una società del desiderio esausto, in cui le passioni sono sostituite da impulsi da assecondare in una coazione ossessiva e soffocante – ciò che Mark Fisher chiama ‹‹edonia depressa››, ossia ‹‹l’incapacità di non seguire altro che il desiderio››[4] – il pensiero non può costituirsi. Ne consegue l’impossibilità di immaginare un mondo altro e, dunque, il bisogno della sua messa in forma, appunto il racconto di un’alternativa. Un secolo fa Walter Benjamin osservava che ‹‹la capacità di scambiare esperienze››[5] volgeva al tramonto; oggi quel tramonto è compiuto trascinando con sé l’attesa di una nuova alba.
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Le tre grandi rotture del Novecento
di Gianmarco Pisa
Il contributo offerto dai compagni e dalle compagne della Rete dei Comunisti con il Forum – e la successiva pubblicazione degli Atti – per un “Elogio del comunismo del Novecento”, nelle sue quattro sessioni-approfondimenti tematici (prima della Seconda guerra mondiale: l’assalto al cielo; dopo la Seconda guerra mondiale: le nuove rivoluzioni, le conquiste operaie e i movimenti di liberazione dei Paesi in via di sviluppo; la regressione del movimento comunista e la controffensiva capitalista; la riemersione delle contraddizioni accumulate dalla supremazia del capitalismo), rappresenta, nel suo complesso, una iniziativa preziosa per l’approfondimento e il dialogo tra comunisti (e oltre l’ambito specifico del movimento di classe) nonché un terreno di lavoro condiviso con le soggettività del movimento che intendono sviluppare una riflessione, non apologetica e non liquidatoria, non eclettica e non dogmatica, per attualizzare l’analisi critica, marxista, e ricomporre terreni unitari.
Al di là delle – e senza l’esigenza di definire più o meno arbitrarie – periodizzazioni, un tema che conviene fare emergere e che offre elementi di riflessione e di approfondimento non scontati è offerto dalle grandi rotture che l’esperienza storica, politica e culturale del movimento comunista del Novecento ha attraversato e delle quali è stata, più volte, protagonista indiscussa.
Non va dimenticato, infatti che proprio il movimento comunista e, alla sua base, il marxismo e il leninismo hanno rappresentato, in Oriente, la concretizzazione di società e di sistemi liberi dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, in cui per la prima volta si sono realizzati diritti e istanze di emancipazione e di liberazione, e, in Occidente, il fattore maggiore nella sconfitta del fascismo storico e nell’avanzamento della democrazia.
Quali possono essere individuate, dunque, tra le grandi rotture del Novecento?
La prima anzitutto: l’avanzata del movimento di classe e l’affermazione su scala planetaria del socialismo nel periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale alla metà degli anni Settanta.
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Hype, ovvero l'economia della truffa
Sulla macchina della colpa neoliberale
di Lorenzo Mizzau
Sin dalla nascita di Machina, transuenze si è interrogato con vari articoli sulla fine del neoliberalismo o, per meglio dire, sulla rottura dell'egemonia neoliberale.
Riprendiamo questo programma di discussione con un articolo di Lorenzo Mizzau, che si concentra soprattutto, riprendendo Lazzarato, sull'economia del debito. L'ipotesi dell'autore, per dirla con le parole sue è che «in gioco ci sono precisamente le stesse tecnologie di governo, le stesse istituzioni, gli stessi discorsi che regolano il funzionamento di ciò che Foucault ha chiamato governamentalità neoliberale[12]. Eppure, c’è qualcosa come una riconfigurazione di paradigma, un nuovo assestamento di tutti questi elementi attorno a un nuovo cardine».
Il soggetto non deve capire che i maltrattamenti costituiscono un attacco premeditato alla sua identità personale da parte di un nemico antiumano. Deve essere indotto a pensare che merita le terapie cui viene sottoposto perché in lui c’è qualcosa di spaventosamente sbagliato.
W. S. Burroughs[1]Il neoliberalismo è morto. Lunga vita al neoliberalismo!
Che l’ipotesi neoliberale, oggi, faccia acqua da tutte le parti è sotto gli occhi di ciascuno. Al punto che dichiarare la bancarotta del neoliberalismo, da qualche anno a questa parte, non appare più tanto assurdo[2].
Ecco, in un rapido scorcio, il panorama che ci troviamo di fronte. Il discorso postbellico della pace, oggi, cede il passo a un nuovo discorso e a nuove pratiche di guerra. Al meccanismo postbellico del consumo, ancora attivo in Europa lungo tutti gli anni Ottanta, subentra l’introduzione forzata della miseria come way of life.
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It's the Corporations, Stupid
di Antonio Pagliarone1
Sarà per me benvenuto ogni giudizio di critica scientifica. Per quanto riguarda i pregiudizi della cosiddetta opinione pubblica, alla quale non ho fatto mai concessioni, per me vale sempre il motto del grande fiorentino: Segui il tuo corso, e lascia dir le genti!
Karl Marx
Michael Roberts in un suo articolo ha affermato che “Trump considera gli Stati Uniti solo come una grande corporation capitalista di cui è amministratore delegato” ma ciò che può trarre in inganno è che un amministratore delegato è subordinato alle decisioni dei suoi azionisti e questi sono rappresentati dalle Corporation e non viceversa, e le corporation, a loro volta, sono condizionate dai loro azionisti ed hanno come unico obiettivo i profitti e i dividendi, non le esigenze della società in generale, né salari più alti per i dipendenti della “corporation” di Trump. Ogni corporation che agisce a livello globale vuole pagare meno tasse sui propri redditi e profitti, quindi è indispensabile che i governanti, di ogni nazione, si impegnino non solo a tagliare ulteriormente la Spesa Pubblica ma anche a smantellare definitivamente tutta la legislazione e la regolazione dell’attività economica garantendo mani libere per la realizzazione di profitti in ogni parte del mondo dove sia possibile. Ma come è potuto accadere un fenomeno così devastante che spinge gli osservatori manistream e non a dichiarare la “fine della democrazia liberale”? Purtroppo occorre andare a fondo e non soffermarci come fanno in molti a osservare gli epifenomeni superficiali per poter fare affermazioni drammatiche che dovrebbero terrorizzare la gente comune.
Innanzitutto occorre necessariamente prendere in considerazione un concetto marxiano fondamentale per comprendere la dinamica del modo di produzione capitalistico ossia l’accumulazione e le condizioni in cui si realizza. In un lavoro di Daniel Campos, di prossima pubblicazione1, l’autore ribadisce in maniera efficace i concetti marxiani della Legge del valore e dell’accumulazione tenendo presente allo stesso tempo le dinamiche della produzione e della circolazione delle merci passando in rassegna ciò che egli stesso definisce Forme di Accumulazione, Regimi di Accumulazione, Poli di Accumulazione e Assi di Accumulazione che permettono di analizzare a ogni livello, globale o regionale, gli stadi ed i periodi dello sviluppo capitalistico nel corso del tempo rispettando la tradizione marxista.
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Neoliberalismo: che cosa c’è in un nome?
di Sandro Chignola e Sandro Mezzadra
Una rottura di fase e una secca discontinuità: da tempo le abbiamo registrate. La seconda Presidenza Trump aggiunge aspetti di non secondaria importanza (e tutt’altro che scontati) a un processo avviato da tempo – quantomeno dalle guerre statunitensi in Afghanistan e in Iraq, dalla crisi finanziaria del 2007/8 e poi dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina. Il capitalismo, una volta di più nella sua storia secolare, sta cambiando pelle. Un diffuso autoritarismo agevola la riorganizzazione degli spazi politici (di cui profughi e migranti sono i primi a pagare il prezzo); l’articolazione tra gli spazi politici e gli spazi dell’accumulazione capitalistica è in discussione su scala mondiale, con il ritorno al centro della scena degli imperialismi e della guerra; processi di concentrazione del capitale e del potere trasformano il paesaggio sociale e politico in molte parti del mondo; la proliferazione di quelli che abbiamo chiamato “regimi di guerra” implica una riconversione della spesa e degli investimenti verso l’industria degli armamenti, mentre il “dual use” contribuisce a porre la logica di guerra al centro dello sviluppo di settori come le tecnologie digitali e l’intelligenza artificiale. Sono solo pochi cenni, sufficienti tuttavia a rendere conto della profondità della rottura in cui siamo immersi.
Ci sembra necessario domandare se queste trasformazioni non richiedano una verifica delle categorie consuete del pensiero critico, a partire da quella di neoliberalismo. La fase attuale presenta almeno tre caratteristiche che ci sembrano estremamente significative, in questo senso. La prima riguarda il contraddittorio e violento riassestarsi dei poteri e dei processi di valorizzazione in un quadro post-egemonico di multipolarismo centrifugo e conflittuale. La seconda riguarda l’inedito intreccio di poteri politici ed economici in assetti oligarchici di comando, all’interno dei quali salta il progetto di separare Stato e società, politica e mercato. La terza riguarda le tensioni che attraversano il sistema monetario e, in particolare, la posizione del dollaro come valuta di riserva e mezzo di pagamento negli scambi internazionali (nonché come garante di asset finanziari).
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Trump e l’eterogenesi dei fini
di Marco Canesi
1. Il limite del capitale alla fine del fordismo: eludere le nuove istanze strutturali
Con la progressiva saturazione del mercato dei beni di consumo di massa standardizzati e il tramonto del fordismo, erano emerse nuove istanze
Cresceva la necessità di soddisfare una domanda dettata da bisogni sempre meno di origine naturale (fisiologica e biologica) e sempre più di origine sociale e culturale. Ne conseguiva la necessità di un’offerta che, in virtù di uno stretto e costante contatto con la domanda, fosse più personalizzata o, comunque, più appropriata, in cui a prevalere fosse tendenzialmente il valore d’uso sul valore di scambio. Le piccole e medie imprese, date le loro caratteristiche strutturali e la predisposizione ontologica dei loro conduttori e delle loro maestranze a fare un buon prodotto, avrebbero potuto essere le più idonee a realizzarne la parte più importante e ad acquisire ruolo di protagoniste nel processo di produzione.
Si può ritenere che, in alternativa alla storica tendenza alla centralizzazione e alla concentrazione, si stesse manifestando l’esigenza di una tendenza esattamente opposta, ovvero una tendenza alla decentralizzazione e alla deconcentrazione.
Le multinazionali, condizionate dalla logica del profitto, hanno eluso il problema sostituendo al modo di sviluppo fordista il modo di sviluppo della globalizzazione[1]: da un lato, hanno continuato a perseguire una sempre più forte centralizzazione dei capitali e, da un altro lato, hanno attuato, come decentralizzazione, una delocalizzazione di gran parte delle fasi di processo delle proprie filiere produttive nei Paesi periferici, con lo scopo, anzitutto, di pagare i salari più bassi e di avere un’organizzazione gestionale la più flessibile, a livello mondiale.
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Tendenze autoritarie del neoliberalismo
di Donato Gervasio
Docente all’Università Bordeaux-Montaigne, specialista di Nietzsche e studiosa di Foucault, Barbara Stiegler è molto presente nel dibattito politico francese, in particolare per le sue riflessioni sul “macronisme”, il sistema di potere legato al presidente della Repubblica, Emmanuel Macron. Ha scritto Bisogna adattarsi. Un nuovo imperativo politico e La democrazia in pandemia. È qui a Biennale Democrazia per parlare delle sue ricerche, che conduce da molti anni, sulla storia del neoliberalismo.
“Neoliberalismo e democrazia: la pace è la guerra e la guerra è la pace”: il titolo della lezione di Barbara Stiegler, che sostituisce quello annunciato (“Una lotta disperata, ma con molto fair play. Società e politica ai tempi del neoliberismo”) è un esplicito riferimento alle parole che, nel mondo creato da George Orwell in 1984, significano il contrario di quello che dicono.
“Il neoliberalismo fa un discorso di pace o di guerra?” Con questa domanda Stiegler comincia la sua riflessione. Prima di rispondere ci offre alcuni punti di riferimento storici: Il neoliberalismo, nato negli anni Trenta del Novecento, è una delle conseguenze della crisi economica del ‘29 e della crisi del liberalismo classico. I neoliberali ritengono necessario un più marcato intervento dello Stato nell’economia e in tutti gli ambiti della vita sociale, combattono i fascismi e si fanno promotori della pace mondiale, condizione necessaria per la creazione di un mercato globale.
“Ma oggi, e in modo davvero sorprendente – afferma Stiegler – i nuovi neoliberali sono i primi a volerci preparare mentalmente alla guerra.” E ci offre due esempi di questo “incredibile capovolgimento”: Emmanuel Macron, presidente della Repubblica francese, e Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea: entrambi si fanno sempre più sostenitori di un “discours guerrier”.
Stiegler tiene a precisare che questo discorso di guerra non si è manifestato in seguito all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, ma ha cominciato ad affermarsi durante gli anni dell’emergenza Covid.
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Appunti sul neoliberismo
di Michele Cangiani
Non semplicemente nuovi problemi, ma il problema dei problemi è emerso con la crisi iniziata nel 2007-2008: l’incapacità della società contemporanea di affrontare i problemi, quelli, in particolare, causati dal suo stesso funzionamento. Nonostante gli evidenti fallimenti, sfociati clamorosamente nella crisi, l’ideologia neoliberale sembra piuttosto rafforzata che indebolita. Essa, anzi, benché gli interessi a cui conviene siano solo quelli di una piccola minoranza, tende a determinare non solo la politica economica, ma l’assetto complessivo della società, fin nei suoi fondamenti costituzionali. L’esigenza di riforme antidemocratiche, tipica della trasformazione neoliberista, è chiaramente emersa fin dall’inizio, durante la crisi della fase di accumulazione del dopoguerra.
1. Da una crisi all’altra
È emblematico, al riguardo, il Rapporto alla Commissione Trilaterale[1]. Ed è significativo che un prodromo della svolta neoliberista sia stata la politica adottata da Pinochet in Cile dopo il golpe del 1973, il quale valse come monito per qualunque paese si azzardasse a non adottare la tendenza ‘giusta’ per risolvere la crisi. Nel 1978, in Cina, Deng Xiaoping promosse la liberalizzazione – entro un regime politico illiberale. L’affermazione definitiva delle politiche neoliberiste è avvenuta con i governi Thatcher in Gran Bretagna nel 1979 e Reagan negli Stati Uniti d’America nel 1980, orientati in primo luogo ad abbattere il potere conquistato dai lavoratori e dalle loro organizzazioni. Non senza successo. I bollettini del Bureau of Labor Statistics del Department of Labor degli Stati Uniti documentano la costante diminuzione degli operai e impiegati iscritti ai sindacati: dal 20,1% nel 1983 all’11,1% nel 2014.
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