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quadernidaltritempi

Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo

di Roberto Paura

Il testo fondamentale di William MacAskill e il pamphlet demolitorio di Irene Doda a confronto

lungotermismo 00 a 1.jpgComprimendo l’intera storia della Terra in un’ora, scopriremmo che i primi mammiferi sono comparsi al minuto 57 e il primo Homo sapiens un centesimo di secondo prima dello scoccare dell’ora. Alvin Toffler, il futurologo dello “choc del futuro”, immaginò di ridurre gli ultimi 50.000 anni di storia umana in ottocento cicli di 62 anni (oggi sarebbero 801), osservando che solo negli ultimi settanta cicli esiste la scrittura, solo negli ultimi 6 la parola stampata, e quasi tutto ciò che utilizziamo oggi è stato prodotto nell’ultimo ciclo (Cfr. Toffler, 1988). Questo modo di ragionare sul “tempo profondo” aiuta a prendere coscienza di quanto passato sia alle nostre spalle. Ma quanto futuro c’è invece davanti a noi? Molto dipende da quanto durerà l’essere umano. William MacAskill, pioniere della filosofia del lungotermismo, prova a fare un calcolo in Che cosa dobbiamo al futuro. Se la nostra specie durasse in media quanto le altre specie di mammiferi, la storia umana potrebbe estendersi per un milione di anni, di cui 300.000 circa passati da quanto è emerso Homo sapiens. Abbiamo quindi almeno settecentomila anni ancora davanti a noi. Ma perché accontentarci? Essendo molto più capaci di qualsiasi altra specie vivente sulla Terra, dovremmo poter sopravvivere ben più a lungo di esse. La Terra resterà abitabile per centinaia di milioni di anni, e se ci diffondessimo nel Sistema Solare avremmo quattro miliardi di anni ancora davanti (tanti quanti ci separano dalla morte del Sole); ma se sciamassimo in tutta la galassia, o in tutto l’universo, potremmo sopravvivere per un milione di migliaia di miliardi di anni. Ma se invece un brutto giorno, come capitò ai dinosauri, un asteroide colpisse la Terra portandoci all’estinzione? Se qualche invenzione tecnologica fuori controllo arrivasse ad annientare l’intera umanità? Non è forse vero che, secondo gli esperti del Bulletin of Atomic Scientists, l’Orologio dell’Apocalisse è più vicino che mai alla mezzanotte?

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tempofertile

A partire da Gershom Scholem, “Il nichilismo come fenomeno religioso”, la questione dell’elitismo e del messianismo politico

di Alessandro Visalli

i id13040 mw624 q90 1x.jpgGershom Scholem fu, probabilmente, il migliore e più stabile amico di Walter Benjamin ma la sua vita si svolse, dopo un avvio comune, su strade e sentieri molto diversi. Filosofo, teologo e semitista proveniente da una famiglia ebraica tedesca, si trasferì molto presto in Israele e qui rimase fino alla morte, a ottantacinque anni, a Gerusalemme nel 1982. Nel percorso della sua ricerca fu uno studioso della storia delle religioni e, in particolare, della cabala oltre che dei movimenti mistici ebraici. In particolare del movimento sabbatiano (da Shabbĕtay Ṣĕbī). Vicino in gioventù al sionismo laico e socialisteggiante degli anni Dieci ne giudicò in modo severo l’evoluzione. In Walter Benjamin. Storia di un’amicizia[1], il suo libro sull’amico, dichiaro che “il sionismo si è ucciso vincendo”[2], distinguendo tra una versione mistico-religiosa e una ‘pratica’ mirante alla soluzione politica ben nota. Una pratica che evoca da sé le forze della sua distruzione spirituale e precipita nella “disperazione del vincitore [che] è ormai da anni la demonìa peculiare del sionismo”. Il quale con Buber, e tanto più quando si fa materia in Palestina, si vuole come ‘sangue e vita vissuta’ e quindi razza.

Di questo complesso autore leggeremo ora solo una piccola, ma interessante, conferenza, tenuta in Svizzera nel 1974, Il nichilismo come forma religiosa[3], nella quale l’autore riassume la storia di alcune forme del misticismo ereticale e messianico ebraico e cristiano. Per cominciare vediamo intanto cosa definisce come ‘nichilismo’: l’atteggiamento di colui che contesta per principio qualsiasi autorità, che quindi non accetta alcun principio per fede, a prescindere da quanto sia essa seguita. Si tratta di un atteggiamento invero oggi molto familiare. Per questo vale la pena ripercorrere il racconto di Scholem.

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altraparola

«Marcuse décrit la Société du Spectacle». Guy Debord lettore di “Eros e Civiltà”

di Afshin Kaveh

Screenshot 2024 02 14 alle 17.07.10 1000x641.pngIn questo senso ogni pensatore è responsabile di fronte alla storia del contenuto obbiettivo del suo filosofare.
G. Lukács, La distruzione della ragione

Quel libro tra gli scaffali

Nel 1955, presso la Beacon Press di Boston, trovava per la prima volta pubblicazione Eros and Civilization: A Philosophical Inquiry into Freud del filosofo tedesco Herbert Marcuse, all’epoca insegnante presso l’Università di Harvard. Poco meno di dieci anni dopo, nel 1963, Kostas Axelos, già direttore della rivista Arguments chiusa l’anno precedente e che per le Éditions de Minuit curava una collana omonima, metteva alle stampe la traduzione del libro – resa da Jean-Guy Nény e Boris Fraenkel – consegnata al pubblico francese col titolo di Eros et Civilisation: Contribution a Freud. Daniel Cohn-Bendit, ricordando l’opera, affermava in un primo momento che dall’anno di uscita sino a poco prima degli avvenimenti ruotanti attorno al Maggio del 1968 avesse venduto quaranta esemplari in tutto[1], per poi darne una versione differente diversi anni dopo parlando di «sì e no milleseicento copie» prima del Maggio e più di «centomila esemplari» subito dopo[2]. Quaranta o più di mille copie che fossero, una di queste è presente tra gli scaffali della biblioteca personale di Guy Debord, deposta, dal 2010, presso la Bibliothèque Nationale de France. A tal proposito ci ritorna utile il contributo di Emmanuel Guy e Laurence Le Bras[3], secondo cui, seppur «composta da circa duemila libri», l’archivio dei testi del parigino «corrisponde a una biblioteca tutto sommato piuttosto piccola per uno scrittore di questa portata» e che, per di più, non può essere illustrativa rispetto alle intense letture che hanno accompagnato Debord per tutta una vita, anche perché «il rapido sfogliare i libri al disimballaggio dalle scatole» ha dimostrato, salvo «due eccezioni», che tra le centinaia di migliaia di pagine non era presente «nessuna annotazione a margine dei testi»[4].

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machina

Il messia collettivo: Antonio Negri e la teologia

di Gabriele Fadini

Schermata del 2024 02 17 11 59 12.pngAll’interno dell’ampio spettro dei temi trattati dalla riflessione di Antonio Negri, poco è lo spazio riservato alla questione legata al paradigma teologico-politico. Gabriele Fadini sostiene che ciò non comporti che i temi legati al rapporto tra teologia e politica non abbiano una portata significativa nel suo pensiero. Perciò, in questo articolo l’autore si interroga su come, nella teoria politica di Negri, certamente inscritta nella tradizione del materialismo, la liberazione possa passare anche attraverso la religione. Domanda non certo nuova, a cui tuttavia Negri dà delle risposte peculiari, radicate innanzitutto nel pensiero spinoziano dell’immanenza.

* * * *

All’interno dell’ampio spettro dei temi trattati dalla riflessione di Antonio Negri, poco è lo spazio riservato alla questione legata al paradigma teologico-politico. Ciò, tuttavia, non comporta a nostro avviso che i temi che andremo sottolineando non abbiano una portata significativa a proposito di questo argomento. In Goodbye Mr. Socialism è presente una tesi che crediamo riassumere per interno il rapporto che Negri intrattiene con il pensiero teologico-religioso:

La religione è un grande imbroglio in sé, ma può essere anche un grande strumento di liberazione per sé[1].

Ci troviamo di fronte a una ambiguità? A una contraddizione in termini? In che modo va intesa questa affermazione?La questione che ci si pone di fronte, in altri termini, consiste nel domandarci come la liberazione possa passare anche attraverso la religione per un autore che inscrive il proprio percorso di pensiero all’interno della grande tradizione del materialismo più o meno ortodosso. La domanda da cui partiamo non è tuttavia nuova per la riflessione filosofica e teologica.

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quodlibet

Il fango e le stelle

di Giorgio Agamben

foto 2cfdg .jpgTutti ricordano l’aneddoto, narrato da Socrate nel Teeteto, della servetta trace, «arguta e graziosa», che ride osservando Talete che, tenendo fisso lo sguardo verso il cielo e le stelle, non vede quel che gli sta sotto i pedi e cade in un pozzo. In un appunto del Quaderno genovese, Montale rivendica in qualche modo il gesto del filosofo, scrivendo: «Chi trascina i piedi nel fango e gli occhi nelle stelle; quello è il solo eroe, quello è il sol vivente». Che il poeta ventunenne compendi e anticipi in questo appunto l’essenza della sua futura poetica, non è sfuggito ai critici; ma altrettanto importante è che questa poetica, come ogni vera poetica, implichi per così dire una teologia, sia pure negativa, che uno studioso attento ha drasticamente riepilogato nella formula «teologia della briciola» («Solo il divino è totale nel sorso e nella briciola» – si legge in Rebecca, «Solo la morte lo vince se chiede l’intera porzione»).

La teologia che è qui in questione, com’è evidente già nel dualismo «fango/stelle» dell’appunto giovanile e nelle «buie forze di Arimane» evocate in un intervento del 1944, è certamente gnostica. Come in ogni gnosi, i principi – o gli dei – sono due, uno buono e uno malvagio, uno assolutamente estraneo al mondo e un demiurgo che lo ha invece creato e lo governa. Nelle correnti gnostiche più radicali, il dio buono è così estraneo al mondo, che nemmeno si può dire che esista: secondo i Valentiniani, egli non è esistente, ma pre-esistente (proon), non è principio , ma pre-principio (proarche), non padre, ma pre-padre (propator). E come è estraneo al mondo, è anche estraneo al linguaggio, paragonabile a un abisso (bythos) intimamente congiunto al silenzio (sige):

«Il silenzio, madre di tutto ciò che è emesso dall’abisso, in quanto non poteva dire nulla dell’ineffabile, tacque; in quanto comprendeva, lo chiamò incomprensibile».

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mutanteassoluto

L’ansiosa metafisica di Cacciari

di Nicola Licciardello

Recensione a Massimo Cacciari, Metafisica concreta, Adelphi 2023

140939042 4be9314f eaaf 4507 8312 4cc9461dac51.jpgSe, come dichiara il risvolto di copertina, “quest’opera conclude l’esposizione del suo sistema filosofico, avviata con Dell’inizio (1990), proseguita con Della cosa ultima (2004) e Labirinto filosofico (2014)”, non abbiamo più chances di comprenderlo meglio. Userò lo spazio concessomi solo per evocare certe costanti del filosofo-scrittore Cacciari e le novità relative di questo libro. Queste ultime forse quasi più interessanti, per cui corro il rischio di iniziare da qui.

Il titolo: Agli spartiacque del pensiero. Lineamenti di una metafisica concreta doveva intitolarsi l’opera complessiva di Pavel Florenskij: di cui Cacciari qui cita la prima edizione italiana (1974) de La colonna e il fondamento della verità a cura di Elémire Zolla. Riprende Florenskij nel finale del libro: luminoso esempio di Philosophia perennis “come un sì alla vita”. Di Zolla cita anche Lo Stupore infantile, a proposito del simbolo: “Il mito è l’esegesi del simbolo, la sua dilatazione narrativa, che ha però una funzione speculativa”. Se anche non elaborate queste sono novità, Cacciari aveva sempre evitato di poggiare il suo discorso filosofico su un esoterismo trans-culturale (cioè l’indagine di un archetipo, esempio la Madre, la Guerra, etc. in differenti culture). Ancora più rilevanti sono gli accostamenti al sanscrito delle Upaniśad: di Giorgio Colli cita l’identificazione fra il greco “essere” tò ón e il brahman (p.45), pur distanziandosene – ma in prima persona enuncia poi una serie di radici comuni, come sat e satya, omologia sanscrita di Essere e Verità, o affinità come sukha, “piacere” e il latino succus (p.297-300), oppure āyus “salute” ed eternità (greco aiei, aien, aion, p.323). Ancor più pregnante una citazione diretta da quella che definisce tout court “sophia upaniśadica”: dal finale del quarto adhyāya della Bṛhadāraṇyaka, la più antica (coeva forse dell’Iliade): “In verità questo grande e increato ātman, senza vecchiaia o morte, senza paura, è il brahman. In verità il brahman è felicità e diventa il brahman stesso colui che così conosce” (p.305). Questa “sophia” transculturale (greco-sanscrita) è direi innovativa per il nostro.

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machina

Giorgio Agamben

di Carlo Crosato

Schermata del 2023 11 28 14 17 33.pngFin dalle sue primissime battute, la filosofia di Giorgio Agamben si è impegnata in una profonda critica del pensiero occidentale, studiando la natura nichilistica della sua metafisica, e le sue implicazioni politiche. Strutturandosi attorno a una innovativa ontologia politica, l’oggetto di maggiore interesse è del pensiero agambeniano è l’umano occidentale, la sua azione, la conoscenza, il linguaggio. La combinazione di ontologia politica e critica dell’antropologia occidentale è giunta a produrre, con la serie Homo sacer, una filosofia politica fortemente coinvolta nel rapporto fra la politica e la vita: una biopolitica, in cui è in gioco la stessa definizione della natura umana.

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Giorgio Agamben nasce a Roma nel 1942. Si laurea in giurisprudenza nel 1965 discutendo una tesi sul concetto di persona nella filosofia di Simone Weil. Il suo vero primo incontro con la filosofia, tuttavia, avviene nel 1966 e nel 1968, quando è invitato a partecipare a due seminari tenuti a Le Thor da Martin Heidegger, su Eraclito e Hegel. Sono altrettanto fondamentali lo studio di Walter Benjamin e il metodo di Aby Warburg, con cui il trentaduenne Agamben entra in contatto a Londra presso la biblioteca del Warburg Institute, dove lavora al suo secondo libro, Stanze. Se Heidegger influenza Agamben nello studio critico della metafisica occidentale, e Benjamin è descritto da Agamben come l’antidoto per la filosofia di Heidegger, rappresentando un’ispirazione per la riflessione sul tempo e sulla salvezza, l’ammirazione agambeniana per il metodo di Warburg segna il suo intero lavoro filosofico imprimendogli un carattere fortemente multidisciplinare.

Negli anni londinesi e parigini, l’influenza del metodo di Warburg porta Agamben a preconizzare una «scienza generale dell’umano»: una scienza che, mettendo in dialogo le più diverse discipline, producesse una diagnosi dell’umano occidentale.

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filosofiainmov

La fede nella ragione critica ed emancipativa nel lavoro di Stefano Petrucciani

di Mario Reale

Una riflessione di Mario Reale sul pensiero e la ricerca di Stefano Petrucciani in questi anni di attività accademica. Discorso tenuto presso il dipartimento di Filosofia della “Sapienza” in Roma il 14 novembre 2023. Il presidente di Filosofia in Movimento traccia un profilo intellettuale del filosofo e studioso romano

Senza titolonhgvvf.jpegIl primo libro di SP (Stefano Petrucciani) dal titolo Ragione e Dominio. Autocritica della razionalità occidentale in Adorno e Horkheimer, Salerno Editrice, 1984, meriterebbe senz’altro, a quarant’anni esatti dalla sua uscita, una seconda edizione. Anzitutto perché, con padronanza dei testi e della letteratura critica, vi si esamina, in una sorta di amplissimo commento a Dialettica dell’illuminismo, la prima opera a quattro mani dei due fondatori della «scuola di Francoforte», e quindi perché vi sono chiamati in causa e discussi con acutezza, molti e impegnativi autori rilevanti per il tema prescelto: da Hegel e Marx, a Schopenhauer, Nietzsche e, con particolare cura, Lukàcs. Ma, più ancora, il testo si raccomanda per la maturità e novità dell’interpretazione che, per illustrare un’originale tesi circa la critica all’illuminismo dei due autori, si serve di tutte le possibili risorse della «razionalità occidentale», nella convinzione che mai dalla ragione – né sembri una cosa ovvia – si possa uscire, e che per «ragione» debba intendersi uno strumento critico e d’intrinseca ricchezza, come già in nuce nel pensare-dire di Aristotele in Metafisica IV, 4, quasi alle origini della tradizione del pensiero nato in occidente e che Kant riconosceva ancora necessariamente nostro. Da ogni immersione critica la ragione sembra riemergere quasi chiedendo una nuova definizione, poiché esce rafforzata ogni volta che, conoscendo il mondo, allarga altresì la sua forza e la consapevolezza di sé.

La ragione è una realtà che si mantiene, per quanto forti siano le critiche che possano esserle rivolte, e che debbono essere di necessità risolte per SP in auto-obiezione, in un movimento che va entro di sé, per uscirne più avvertito e vigoroso.

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machina

L’interno della rivoluzione. Mario Tronti e la «rivoluzione politica paolina»

di Michele Garau

0e99dc d8a5f7134085431489fbbcbcf34dc44fmv2È piuttosto complesso definire il rapporto che lega, perlomeno dagli anni Novanta, la riflessione di Mario Tronti all’interpretazione di San Paolo. Michele Garau, in questo articolo di alcuni anni fa, affronta un tale compito con un impegno preliminare nell’indagine su una costellazione di categorie che possiede per l’autore straordinaria importanza: quella che annoda il terreno politico, specialmente rivoluzionario, alla dimensione della trascendenza e a quella della profezia. Pubblichiamo qui la prima parte del testo.

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I. Il Paolo di Mario Tronti e la teologia politica

 

Definire il rapporto che lega la riflessione di Mario Tronti, dagli anni Novanta a oggi, all’interpretazione di San Paolo, risulta piuttosto complesso. Per rispondere a tale compito occorre infatti un impegno preliminare nell’indagine su una costellazione di categorie che possiede per l’autore straordinaria importanza: quella che annoda il terreno politico, specialmente rivoluzionario, alla dimensione della trascendenza e a quella della profezia. Il pensiero di Tronti addiviene infatti a temi religiosi e spirituali attraverso la constatazione di una crisi catastrofica della politica e dell’emergenza antropologica che la accompagna. Con un sempre più marcato accento tragico nella scrittura e nello stile di pensiero, il padre dell’operaismo italiano incontra l’ambito religioso come «spirito disordinante», come slancio che va dall’interiorità dell’individuo allo spazio sociale aprendo una prospettiva di «ulteriorità» rispetto allo stato delle cose mondane. Il cristianesimo appare dunque come espressione di «differenza umana», come modello storico alternativo, custode di un’idea di uomo radicalmente dissimile e nemica rispetto a quella del capitalismo[1].

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sinistra

Nel giardino di Olos: pensiero critico e consumismo “spirituale”

di Paolo Bartolini

olistico 2.jpegIl recente invito di Wu Ming 1 a fare “buon uso” dell’esoterismo è un’occasione preziosa per esercitare il pensiero critico intorno alla variegata galassia delle esperienze spirituali contemporanee, con particolare riferimento al mondo delle pratiche New Age ed “olistiche”.1 Se di pensiero critico vado parlando, non è certo per mettere all’opera il bisturi del razionalismo scientista, quindi per negare i bisogni profondi di molte persone che, in determinati percorsi di consapevolezza ampliata, cercano qualcosa che al tempo del tecno-capitalismo manca come l’aria. Piuttosto mi guida l’intento di non gettare il bambino della ragione filosofica con l’acqua sporca del disincanto moderno. Wu Ming 1 sottolinea opportunamente la necessità di “mostrare la sutura”, cioè di serbare intatta la bellezza di un’operazione culturale senza dover nascondere i trucchi del mestiere che producono stupore in coloro che assistono a una determinata performance (letteraria, teatrale, pittorica, illusionistica ecc.). La differenza tra manipolazione e incanto ricercato è tutta nell’aura di segretezza che legittima alcune figure carismatiche a esercitare una fascinazione insidiosa sugli altri, millantando poteri e connessioni con forze sovrumane. Lo scrittore, l’artista, il performer, il guaritore possono invece produrre i loro effetti di verità e di meraviglia senza dovere, per questo, abolire una quota di sano scetticismo,2 anzi giocandovi consapevolmente.

Questo discorso abita un presente drammatico, attraversato da un diffuso e trasversale senso di disagio, imputabile a un passaggio d’epoca che vede il progressivo declino delle egemonie maturate nella seconda metà del secolo scorso, l’incombere del disastro ecoclimatico e problematiche inerenti alle diseguaglianze sociali, ai flussi migratori forzati e a una crescente perdita di senso nelle nostre vite.

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altraparola

La temperie moderna sullo sfondo de L’uomo senza qualità

di Alvise Marin

Screenshot 2023 09 28 alle 19.02.38 1094x641.pngLa parabola del moderno, il cui delinearsi lasciava intravedere esiti trionfalistici, tende invece a chiudersi con un momento terminale di crisi. Quest’ultima si manifesta nel cambiamento della percezione che l’individuo ha di sé, ma altresì nel modificarsi del tessuto connettivo della società. L’uomo tende a non cogliere più il proprio Ego come il centro delle proprie azioni e queste ultime, orfane di un autore, gli accadono suo malgrado e lo sorprendono quasi non gli appartenessero. Eccentrico rispetto a un centro che non c’è, egli cerca la sua vera identità nel rifrangersi di quest’ultima negli innumerevoli ruoli che la società gli confeziona addosso. Società, che del resto, è diventata un palcoscenico, sul quale si avvicendano ruoli, idee e visioni del mondo diversi, nessuno dei quali possiede però la forza di impadronirsi della scena; di qui il continuo stato di sommovimento in cui essa si trova e la sua tendenza a destrutturarsi.

Se questa è la temperie in cui langue la modernità dei primi decenni del Novecento, questo è anche il panorama della Vienna descritta da Robert Musil nel suo capolavoro incompiuto, L’uomo senza qualità. Ulrich, il personaggio principale del romanzo, è proprio un uomo come quello descritto sopra e la società in cui vive è proprio sul punto di disgregarsi.

Per spiegare questa trasformazione sociale e mentale, è necessario partire, in ambito filosofico, dal soggetto cartesiano, il quale nasce radicando la sua certezza nel Cogito e pensandosi nella sua unità sostanziale. In Cartesio il soggetto è l’autore dei propri pensieri e delle proprie azioni ed è dotato di un centro inamovibile.

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Dialettica dell’irrazionalismo

di Enzo Traverso

Da Dialettica dell’irrazionalismo. Lukács tra nazismo e stalinismo, Ombre Corte, Verona 2022

follia 1024x1024.jpgParadossalmente, ciò che manca ne La distruzione della ragione è l’irrazionalismo nazista. Dopo aver dedicato centinaia di pagine a spiegare come la maggior parte delle correnti della filosofia tedesca si fossero così profondamente allontanate dall’eredità dell’Aufklälrung, il libro non cerca di studiare la loro incorporazione in una nuova forma razzista e imperialista di irrazionalismo. Non dedica alcun capitolo alla Weltanschauung nazista, che viene quasi ignorata ad eccezione, come abbiamo visto, di alcune citazioni tratte da Der Mythus des zwanzigsten Jahrhunderts di Alfred Rosenberg. Lukács insiste fin dall’inizio sul fatto che, invece di seguire una dinamica interna e “immanente”, la storia dell’irrazionalismo dovrebbe essere messa in relazione con alcune tendenze strutturali del capitalismo tedesco, ma non sembra molto interessato ad analizzare il modo in cui nichilismo, anti-umanesimo, razzismo, nazionalismo e imperialismo siano infine confluiti in una nuova ideologia sincretica. Egli segue il percorso del razzismo europeo da Gobineau a Rosenberg, passando per Gumplowicz, Woltmann e Chamberlain, cioè da un razzismo contemplativo a un razzismo “rigenerativo” che accoglieva le istanze del darwinismo sociale, ma non esamina la nascita di una nuova teoria razziale fondata sul “nordicismo”, l’eugenetica e una nuova concezione geopolitica – biologista e vitalista – dello “spazio vitale” (Lebensraum). Così, i nomi di Hans Günther, il pensatore ufficiale del razzismo nazista (Rassenkunde), Karl Haushofer, il geografo che teorizzò l’espansionismo tedesco in Europa orientale, e Friedrich Ratzel, il geografo del XIX secolo che forgiò il concetto di “spazio vitale”, non appaiono nel libro di Lukács.

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lindice

Il Nietzsche metafisico di Heidegger

di Gianni Vattimo*

Martin Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, ed. orig. 1961, trad. dal tedesco di Franco Volpi. 

ONLINE 1.pngNei corsi universitari degli anni ‘36-40 e negli altri testi (degli stessi anni) che sono raccolti nel volume su Nietzsche Heidegger legge il pensiero di Nietzsche in maniera del tutto originale rispetto alle interpretazioni che ne erano state date nei decenni precedenti, e che, sebbene avessero colto in generale il significato globale e radicale della critica nietzscheana, non aveva mai preso così intensamente sul serio la “pretesa” del filosofo di rappresentare una svolta epocale nella storia dello spirito europeo. Espressioni come quella che fa da titolo a un capitolo di Ecce homo, “Perché io sono un destino”, il più delle volte erano arse da mettere sul conto dell’incipiente pazzia di Nietzsche. Heidegger le prende invece sul serio, a modo suo; e proprio per questo la sua lettura di Nietzsche innova profondamente rispetto a quelle precedenti, anche quando abbiano la densità speculativa dello studio di Jaspers (uscito nel 1936) o di quello di Alfred Baeumler (forse troppo ingiustamente messo da parte, oggi, come nazista, uscito nel 1931). Il punto è che Nietzsche era stato generalmente inteso, prima di Heidegger, come un critico della Zivilisation o, secondo l’espressione di Dilthey, come un Lebensphilosoph — che non significa anzitutto un “filosofo vitali, ma un pensatore “esistenziale”, che non crede più alla filosofia come metafisica, come teoria generale dell’essere, ma che la esercita come una riflessione personale, spesso di carattere saggistico, secondo un modello che risale a Montaigne o anche al pensiero della tarda antichità. 

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lafionda

In terra ostile: il destino della modernità occidentale e i suoi critici

di Carlo Magnani

unnamed 8.jpgIl pubblico de “La fionda” è costituito per lo più da persone che – come lo scrivente – “vengono” da sinistra, si sono cioè formate sui testi e sui temi classici della sinistra novecentesca, votandone i partiti storici o le frattaglie derivanti da scissioni e rifondazioni varie. Tutte queste persone sono però altamente insoddisfatte della sinistra, in tutte le sue varianti, nella sua configurazione attuale: europeismo a prescindere, oblio dei diritti sociali e precarizzazione del lavoro, atlantismo “senza se e senza ma”, sono alcuni dei punti di forte critica verso la narrazione progressista. Questo pubblico può risultare, al massimo dell’eresia, ben propenso verso il “momento populista”, vedendo nell’attenzione a temi socialmente sentiti da larghe masse della popolazione collocate fuori dalla fatidica “Ztl” una opportunità per ri-creare finalmente una “vera” sinistra. Questa breve premessa solo per illustrare che il compito che mi sono dato – segnalare ai lettori de “La fionda” il libro di Boni Castellane “In terra ostile” – è una impresa ardua, che va però compiuta. Come sostenere di fronte a tale comunità la bontà di una riflessione che si colloca del tutto al di fuori dei margini del perimetro della sinistra, anzi, che sta proprio dalla parte opposta?

Boni Castellane è un nome di fantasia, impiegato da un opinionista che scrive sul quotidiano “LaVerità”: il successo della rubrica ha dato l’abbrivio per una iniziativa editoriale sfociata nella pubblicazione del libretto titolato appunto “In terra ostile”. A sentire l’anonimo Autore, molto attivo su X (ex Twitter), le vendite hanno ad oggi raggiunto, dopo una seconda edizione, quota 15.000, che non solo per la saggistica ma anche per la narrativa costituisce per il mercato nazionale una quota quasi eccezionale: nessun giornale o media ne ha chiaramente parlato.

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acropolis

Mario Tronti: il Regno, se noi lo vogliamo

di Marcello Tarì

a125ef90 46f5 4fc1 801a e9f4a8bb77d0 16 9 discover aspect ratio default 0Vi ho voluto bene, adesso vado
Sono stato un comunista
Avevo un sogno, una speranza
Arrivederci amore, addio (Baustelle, L’uomo del secolo).

Mario Tronti è morto il 7 agosto, nella sua casa di Ferentillo, a 92 anni da poco compiuti; un’«età da patriarchi» disse per i 90 anni di Ingrao[1], così come poi dovette dire di sé stesso con un pizzico della sua consueta ironia, tagliente e dolce allo stesso tempo.

Per buona parte del piccolo e grande pubblico, il suo nome è legato al suo primo e giovanile libro, Operai e capitale, pubblicato da Einaudi nel 1966[2], che fu in seguito definito «la bibbia dell’operaismo». Un libro che, comunque lo si voglia giudicare, segnò, a ridosso del ’68, e specialmente delle grandi lotte operaie del 1969, una grande novità ma anche una forte rottura teorica nel marxismo del secondo Novecento, questo secolo duro e difficile a cui lui è sempre rimasto fedele.

 

L’opera prima

In quelle pagine Tronti compiva infatti la cosiddetta «rivoluzione copernicana» nell’interpretazione del conflitto epocale tra capitale e lavoro: prima viene il soggetto operaio e le sue lotte, dopo il capitale e il suo sviluppo; quindi, al partito va la tattica, al movimento operaio la strategia, proprio quella che in uno dei passaggi più celebri e densi di conseguenze chiamò la «strategia del rifiuto».

C’era già, a ben guardare, in quel rovesciamento di prospettiva, un aspetto della radicalità evangelica a cui più tardi Tronti avrebbe fatto direttamente riferimento: i primi saranno gli ultimi e gli ultimi saranno i primi.