Da Raoul Peck lezioni di politica e di Jenny-marxismo
di Roberto Silvestri
Uno spettro si aggira nei cinema… Finalmente esce in Italia Il Giovane Marx di Raoul Peck, che esordì alla Berlinale 2016 assieme a I’m not your negro, il documentario su James Baldwin che dette notorietà internazionale all’ex ministro della cultura del governo Aristide. Ed è una bella lezione di marxismo.
Il cineasta haitiano, in coppia fissa alla scrittura con Pascale Bonitzer, critico dei Cahiers du cinéma pregiati, conferma, dopo Lumumba ( e dopo l’ancor più interessante documentario su Lumumba, girato precedentemente e molto autobiografico perché il padre di Peck era un diplomatico che visse l’assassinio del leader progressista dagli uffici di Joseph Kasa Vubu, primo presidente della Repubblica Democratica del Congo indipendente ) la sostanza politica alta dei suoi copioni biografici, mai agiografici né retorici.
Un esempio di questa mancanza di sentimentalismo?
È vero che Engels e Marx brindano, a un tratto, ai “cervelli che davvero pensano e agli spiriti liberi” ma si ricorda anche che della parola “libertà” fanno un uso esagerato soprattutto i borghesi: “sono liberi i padroni di usare la forza lavoro, sempre, ma i lavoratori sono sempre obbligati a venderla”.
Un altro esempio? Marx sembra Socrate. Mette sempre in difficoltà qualunque interlocutore. Anche troppo. E si compiace di questo. Proudhon non può che polemizzare a un tratto con il luteranesimo spinto, pericolosamente autoritario, del suo amico-nemico: “attenzione, la critica divora tutto quello che esiste e finirà per divorare anche se stessa. Non inventiamo una religione altrettanto intollerante”. Mentre Wilhelm Weitling, il più biblico dei comunisti, aggiunge: “Sarei il primo ghigliottinato, dopo la Rivoluzione”. E negli occhi di Karl leggiamo già una convincente spiegazione – postfazione del Capitale – del perché di Pol Pot.
La musica non può essere che incalzante, come in Guerre Stellari, sempre la resistenza contro un impero dispotico si mette in scena , e non si possono evitare carrellate in sovrimpressione tra tavolo di lavoro di Marx e tavolo di lavoro di Engels mentre viene redatto il pamphlet anti Proudhon La miseria della filosofia. No. Non tutti gli uomini sono fratelli. Ci sono gli sfruttatori e ci sono gli sfruttati. E quando Salvini e Di Maio mistificano la cosa gatta ci cova. I cittadini non sono tutti uguali.
Spiazzano le immagini di questo Marx col cilindro, centrato perfettamente dall’attore August Diehl, già nazista in Inglorious Basterds , che “danza” nella storia e contro la proprietà privata come fosse Clinfton Webb-Elia Belvedere nell’era Truman. L’anti-filosofo di Treviri ci conquista col suo sorriso disarmante ed egemonico: è un “genio” col sigaro, senza soldi, anche perché Arnold Ruge non paga mai gli articoli, inseguito dagli sbirri di Grizot e di Federico Guglielmo IV di Prussia come Charlot, che non regge troppo l’alcool, batte a scacchi Bakunin (un tagliente Ivan Franek), maltratta i “comunisti primitivi” (“l’ignoranza non ha mai aiutato nessuno e mettere in comune le donne non è altro che il colmo della proprietà privata!”), adora le figlie Eleonor e Laura e fa l’amore appassionatamente con la moglie aristocratica e femminista, Jenny von Westphalen, ovvero Vicky Krips, stessi occhi da avvelenatrice innamorata del Filo nascosto, e quando sentenzia: “Karl, sei ingiusto!” tremiamo. Invece Karl sta pensando solo a come rottamare “La Lega dei Giusti”…. (1)
Il ritmo del film è incalzante. Avvince il movimento continuo in avanti (e barocco : continuo è lo scontro tra interno ed esterno, tra scrivania e voglia di aria pura) della pratica teorica di Marx che Peck-Bonitzer visualizzano, come faceva Eisenstein, con continue rotazioni della testa. Non si vede così spesso in un film la nuca di un protagonista. Il marxismo è disciplina sufi perennemente rotante , soprattutto quando la polemica è con i socialisti “dell’armonia universale e della pace interiore”, alla Willelm Weitling (un ottimo Alexander Scheer, oratore inarrivabile, con quei suoi occhi buoni da ddr, ma fanatici). O con il riformismo, malattia senile del socialismo (Prudhon ha scritto il primo manifesto scientifico del proletariato francese, ma tende a migliorare un sistema “che produce naturalmente miseria”). Utopia? Forse, ma sole se si intende l’utopia come movimento in avanti, non come porto d’approdo. Niente è eterno, tutte le relazioni sociali mutano. Anche l’operaio di linea, anche l’operaio massa...
Marx frequenta Courbet e le sue modelle nude, elogia Prudhon (solo quando lo merita), va in pellegrinaggio perfino sulla battigia di Knotte-le-Zoutee, che sarà capitale del cinema sperimentale e consacrerà Jonas Mekas, bacia perfino Engels sulla bocca, sia perché le sue inchieste operaie di Manchester e Leeds sono “colossali” sia perché siamo anche in piena buddy-comedy. E tutt’attorno musica diegetica: bande, operai e operaie irlandesi che cantano, danzano e lottano in grande solidarietà, senza risentimenti né piagnistei.
Il giovane Marx racconta i 5 anni cruciali (1843-1848) che capovolsero l’Europa. E che questo figlio di un ebreo convertito comprese meglio di altri, trasformandosi da filosofo della sinistra hegeliana e giornalista democratico-radicale, in nemico pubblico numero 1 del capitalismo e del socialismo utopista, in critico materialista dell’economia politica, della morale, della religione borghese, in tribuno del proletariato, potente nella teoria e seducente nella pratica.
Perseguitato dalla polizia, censurato dagli assolutismi, spiato da gretti vicini di casa, Marx, ancora ventenne, organizza l’antagonismo proletario e artigiano a Colonia, Parigi, Bruxelles e Londra. Scrive libri, saggi, articoli e assieme all’amico della vita Engels, figlio indocile di un cinico industriale tessile (“come ha fatto il demonio a impadronirsi di te?”), smantella le ipocrisie della sinistra e della estrema sinistra parolaia e riformista (mentre il montatore pensa costantemente a Transformers ). Chi ha visto Anno uno ritroverà poi una identica capacità di sintetizzare in un solo sguardo (Grun come Amendola) i dubbi e i tormenti, i conflitti interiori e l’aperta polemica che fanno della politica una pratica da musical. Musica, horror e politica. Siamo nei territori di The shape of water , infatti. Minnelli non avrebbe saputo descrivere meglio il passaggio dagli Annali franco-tedeschi alla Rheinische Zeitung fur Politik, Handel und Gewerbe (Gazzetta renana dipolitica, industria e commercio), dalla Critica della filosofia del diritto di Hegel alla Sacra famiglia, dai Manocristti economici filosofici del 1844 al trionfale Manifesto del partito comunista che darà ritmica e melodia alla rivoluzione europea del 1848.
Possono godere finalmente i cinefanatici dell’impegno festivo e dell’horror, coloro che non abbassano gli occhi di fronte a rapporti sociali di produzione degni di Carpenter, Hooper, Craven e Henenlotter. Già, troviamo anticipati profeticamente (senza voler far spoiler) gore e splatter dei decenni a venire (anche sui bellissimi titoli di coda, accompagnati da Bob Dylan). L’autore del Capitale terrorizza ancora tutto l’occidente, tanto che finora nessuno è riuscito a raccontarne vita e opere sul grande schermo. Fu proibito a Eisenstein, da Stalin e a Rossellini dalla Rai. Di Marx, 200 anni dopo la nascita e 135 anni dopo la morte, ricordiamo al cinema solo il busto sulla tomba londinese di Highgate ( Morgan matto da legare di Reisz, Gb 1966) e il titolo di un film sessantottino raro, Praise Marx and pass the ammunition (1970 Gb). Sarà che il vero maestro di Marx era nero e veniva da Haiti come Peck: Toussaint Louverture che nel 1804, assieme all’esercito di schiavi in rivolta delle piantagioni di canna da zucchero, completò la rivoluzione francese… In terra di voodoo, di spettri, se ne intendono.