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Reddito universale o servizi universali?

di Francesco Gesualdi

La discussione sulla redistribuzione del reddito e sulla possibilità che lo Stato intervenga per garantire a tutti, magari in modo incondizionato e universale, una quota minima di denaro sufficiente a vivere con dignità si accende periodicamente da molti anni. Negli ultimi tempi, in Italia, si tinge di forti connotazioni legate alla governabilità, che necessariamente si espongono a semplificazioni e speculazioni di profilo miserevole. Resta però una questione di grande spessore politico e, a maggior ragione, pur esigendo provvedimenti la cui urgenza è sotto gli occhi di tutti, non andrebbe semplificata inseguendo slogan impraticabili né, men che meno, tattiche elettorali. Francesco Gesualdi ci pare intervenga con questo spirito con un ragionamento critico serio che prelude a una proposta che certo presuppone l’esistenza di una volontà politica molto determinata a contrastare le disuguaglianze e un qualche ottimismo sulle capacità di rigenerazione culturale di chi opera nei servizi. Un’ottima occasione per allargare e approfondire il discorso

Un dibattito si aggira per l’Europa: UBI o UBS? E nonostante il richiamo vagamente informatico delle due sigle, questa volta non discutiamo di tecnologia ma di politica. Parliamo del ruolo dello stato, di ciò che deve fare per difendere i cittadini dalla precarietà e l’insicurezza: distribuire o produrre? Deve limitarsi a fare da collettore e distributore della ricchezza che si produce nel mercato per assicurare a tutti una quantità minima di soldi, il famoso reddito universale di base, o deve produrre servizi per garantire a tutti il soddisfacimento dei  bisogni fondamentali?

Due modelli che gli inglesi hanno sintetizzato con due sigle: UBI, universal basic income e UBS, universal basic services, ciascuno con i suoi pro, i suoi contro e vari punti di coincidenza.

L’erogazione di sussidi da parte dello stato non è una novità, ma il reddito di base è una cosa diversa dall’indennità di disoccupazione, dal reddito minimo d’inclusione e dallo stesso reddito di cittadinanza proposto dal Movimento 5 stelle, tutte forme di intervento  che hanno come obiettivo il sostegno a particolari situazioni di bisogno. Il reddito di base è universale e incondizionato: è un assegno dello stesso importo staccato a favore di tutti, vita natural durante, indipendentemente dall’età, dal sesso, dalla situazione occupazionale e perfino dalla ricchezza.

E se stride col principio che non c’è niente di più ingiusto che fare le parti uguali fra disuguali, l’intento teorico del reddito universale  è di dichiarare tutti i cittadini uguali perché a tutti riconosce il diritto di ricevere un minimo vitale senza dover fornire nessuna altra giustificazione se non quella di esistere. Volendo insistere sugli aspetti positivi, un altro risultato importante del reddito universale sarebbe la fine dell’apartheid nei confronti dei lavori domestici e di cura della persona, oggi senza alcuna considerazione sociale perché privi di compenso monetario. E mentre gli scettici sostengono che con un reddito minimo garantito più nessuno si cercherebbe un lavoro retribuito, va ammesso che potrebbe operare miracoli sul piano della qualità della vita, sia per la ritrovata sicurezza nei confronti  della precarietà generata dal mercato, sia per la recuperata libertà di poter dedicare del tempo allo studio, al fai da te, alle relazioni affettive e sociali.

Ma il reddito di base potrebbe essere letale per le casse pubbliche. È stato calcolato che per garantire un reddito di 10mila euro all’anno, una cifra di poco superiore alla linea della povertà relativa, non a tutti, ma ai soli maggiorenni, ci vorrebbero 480 miliardi di euro all’anno, l’85% delle entrate tributarie.  Che significherebbe la scomparsa dello  Stato come agente economico, col risultato di una società più insicura perché lascerebbe i cittadini soli di fronte ai bisogni fondamentali che non possono essere affrontati individualmente: alloggio, istruzione, sanità. La conclusione sarebbe che chiederemmo allo stato di immolarsi sull’altare di un’azione redistributiva a esclusivo vantaggio del mercato, perché avremmo cittadini con più capacità di consumo individuale, ma totalmente sprovvisti di solidarietà collettiva, con grande gioia di banche e assicurazioni.

Per questo, pur riconoscendo la validità teorica del reddito universale di base, mi dichiaro per la convenienza pratica dell’altro modello, quello dei servizi universali di base. Benché con meno appeal perché meno capace di garantire la totale libertà di gestione del tempo da molti reclamata, la società dei bisogni garantiti è una soluzione più sicura, più dignitosa e più sostenibile. Più sicura perché permette  a tutti di soddisfare i bisogni che nella scala delle priorità stanno ai primi posti: acqua, alloggio, igiene, energia, istruzione, sanità. Una società civile non lascia nessuno indietro rispetto a queste esigenze ed opera tutta la solidarietà che serve affinché tutti possano soddisfarli adeguatamente. Una società UBS è anche più dignitosa perché restituisce ai cittadini ciò che i cittadini danno, non tanto sul piano monetario quanto su quello lavorativo. Poter vivere del proprio lavoro, senza dipendere da nessuno, è una delle punte più alte della dignità umana e la società dei bisogni garantiti contribuisce a questo obiettivo perché per avere servizi ci vuole lavoro.

Così scopriamo che la società dei bisogni garantiti è  un potente generatore di lavoro che se gestito in maniera equa rappresenta una grande opportunità di   inclusione lavorativa per tutti. Infine la società UBS è più sostenibile, da una parte perché può orientare le abitudini, dall’altra perché non si limita a garantire i bisogni individuali, ma anche la protezione dei beni comuni. Parlando di abitudini, uno degli aspetti che dobbiamo modificare, se vogliamo salvare questo pianeta, è il modo di muoverci. Inevitabilmente dobbiamo abbandonare le auto private e orientarci verso i mezzi pubblici, scelta possibile solo se disponiamo di un servizio pubblico efficiente e conveniente. Non a caso in Germania si sta sperimentando l’uso gratuito dei trasporti urbani. Quanto ai beni comuni, se da una parte si tutelano con nuove forme di produzione e di consumo ispirate al senso del rispetto, dall’altra servono anche interventi riparativi. Basti pensare allo stato dei nostri boschi, dei nostri fiumi, delle nostre spiagge, per rendersene conto.  Ma per prendersi cura dei beni comuni c’è bisogno di una  comunità  che non distribuisce solo soldi ad uso individuale, ma che sa muoversi come un tutt’uno per obiettivi condivisi.

*Allievo di don Milani, ha fondata nel 1985 il Centro Nuovo Modello di Sviluppo. È autore di diversi libri. Questa è la sua adesione alla campagna 2017 di Comune “Un mondo nuovo comincia da qui”

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