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nazione indiana

Nuova edizione dei Manoscritti economico-filosofici di Marx

di Enrico Donaggio e Peter Kammerer

Il 24 maggio esce in libreria per Feltrinelli una nuova edizione italiana dei Manoscritti. Diversamente dalle traduzioni italiane oggi ancora in commercio, risalenti a molti decenni fa, questa si basa sulla versione più recente e scientificamente verificata degli originali di Marx (MEGA 2). Aggiunge inoltre un nuovo quaderno – le Note su James Mill -, dove Marx descrive con grande chiarezza cosa significa produrre in modo umano. Pubblichiamo qui le ultime pagine della postfazione dei curatori

Attacco frontale

L’ampiezza, l’intelligenza e la violenza dell’attacco frontale che i Manoscritti sferrano all’economia politica sono tali da mozzare spesso il fiato. Sviluppatasi tra Seicento e Ottocento per abbattere l’economia feudale e la sua civiltà, questa nuova scienza ha presto rinnegato il suo passato rivoluzionario, i presupposti e la passione critica che l’hanno messa al mondo. L’esame approfondito della natura ideologica dell’economia politica porta Marx a queste conclusioni: a) si tratta di una scienza che rivela, ma al contempo mistifica, la composizione di una società divisa in lavoratori, capitalisti e percettori della rendita fondiaria. Il rapporto tra queste classi sul mercato è un gioco truccato dove la remunerazione del lavoro – il salario – in ultima istanza è sempre destinata a perdere; b) si tratta di una scienza che si occupa soltanto delle cose, non degli esseri umani.

Anzi, che ha come scopo l’”infelicità della società”; infatti “con la valorizzazione del mondo delle cose cresce in proporzione diretta la svalorizzazione del mondo dell’uomo”; c) si tratta infine di una scienza dove “il lavoro compare soltanto sotto forma di attività di guadagno”. Un sapere muto e ostile per quanto riguarda l’attività umana essenziale, incapace perciò di concepire la ricchezza, così come la realizzazione di sé, in un modo che non sia puramente feticistico.

Questa serie di critiche percorre d’ora in poi tutta l’opera di Marx e colpisce alle fondamenta le scienze economiche e sociali moderne. Esse non hanno mai risposto all’attacco frontale marxiano con altrettanto rigore e profondità, limitandosi a riaffermare i propri presupposti, come se una critica denunciata e liquidata come “filosofica” non dovesse interessarle. Di conseguenza il loro ragionamento si è fatto sempre più specialistico e sofisticato, con un ricorso crescente a modelli astratti e formali che nascondono un progressivo allontanamento dalla società e dai suoi problemi. Una specie di beata impotenza accademica – in particolare dopo il 1989 – mentre tutto intorno riaffiorano ed esplodono i vecchi problemi del capitalismo come forma di vita, come modo di produrre e di esistere globale e apparentemente senza alternative. Questioni mai risolte, benché già trattate da Smith, Malthus, Ricardo, Mill: gli economisti classici che Marx qui critica a fondo.

Questo fatto conferisce ai Manoscritti una singolare e urgente attualità. Ma invano si cercherebbe un confronto con le loro pagine nel dibattito contemporaneo, ricco ma pure sconclusionato, sulla “fine del lavoro” – una profezia che viene rimessa in circolo, più o meno con gli stessi argomenti, in ogni epoca di metamorfosi radicale di questa fondamentale attività umana. E lo stesso vale per il dibattito sulle crescenti disuguaglianze tra ricchi e poveri; sui limiti ferrei di una politica di riforme che hanno gettato in una crisi profonda le socialdemocrazie europee; sull’impatto brutale delle nuove tecnologie che rivoluzionano in modo apparentemente inarrestabile stili e condizioni di vita producendo negli individui e nella società scompiglio e insicurezza; sulle distruzioni irreversibili della natura e del passato.

Proliferano infatti oggi patologie sociali che i Manoscritti hanno descritto, nelle pagine penetranti, non sempre difficili e perfino commoventi, sull’estraniazione e sull’alienazione. Una diagnosi sino a pochi decenni fa talmente inflazionata da risultare sfibrata e inservibile, e che oggi solo poche voci isolate cercano di riscattare dall’oblio. Una critica – questo è il suo grande merito – che cerca di andare alla radice di una miseria del mondo moderno che viene apparentemente negata da incredibili progressi nel “mondo delle cose” e da un modello del tutto specifico di sviluppo economico.

Non si tratta qui di fare del facile pessimismo culturale, un atteggiamento psico-politico al quale, del resto, i Manoscritti non concedono spazio alcuno. Va invece ammesso e meglio indagato il fallimento della speranza comunista che Marx aveva riposto nel movimento dei lavoratori: quella di poter imporre con la loro prassi e le loro lotte una nuova economia politica basata sulla liberazione del lavoro e sulla soppressione della proprietà privata. Una speranza che, con il Novecento alle spalle, si può considerare fallita ovunque – in Occidente, in Unione Sovietica, in Cina – nonostante gli sforzi enormi che hanno segnato la storia del secolo scorso.

La radice di ogni cosa

Alla radice del mondo moderno sta la proprietà privata. Il suo movimento segna e compie la storia umana. Questo concetto è il nodo centrale che – dal punto di vista filosofico come da quello politico – divide i comunisti da tutti gli altri movimenti socialisti e riformatori. La proprietà privata, per Marx, non riguarda tanto le cose e il loro regolamento giuridico, quanto l’ordine materiale e sociale della produzione, la separazione dei lavoratori prima dalla terra, poi dal capitale e la loro subordinazione al comando dei proprietari dei mezzi di produzione. Solo la soppressione di questa dipendenza potrà liberare il lavoro per farne la “proprietà attiva” di chi lo svolge. Per questa ragione la necessità di superare il lavoro salariato percorre come un filo rosso i Manoscritti e, da quel momento in poi, tutta l’opera di Marx.

È quasi superfluo notare che, a livello mondiale, nessuna forza politica oggi scrive sulle proprie bandiere la richiesta della soppressione della proprietà privata. Circostanza che fa capire quanto fuori luogo, e dunque difficili o addirittura incomprensibili, possano risultare ai nostri giorni i Manoscritti. Eppure la questione rimane di capitale importanza. Poiché concerne non solo l’esclusione di masse crescenti dal mercato del lavoro o la loro condanna a una precarietà degradante, ma la capacità degli uomini di decidere coscientemente non solo come si producono le cose, ma anche con quali tecnologie e che cosa si produce.

Una scienza economica che affida decisioni di questa portata alle forze anonime ed estraniate del denaro e del mercato non potrà mai risolvere questo problema capitale in modo umano. Trattare infatti il lavoro soltanto nella forma di un’attività retribuita, di mera fonte di guadagno, significa astrarre dalla sua natura reale e complessa. Considerarlo esclusivamente in questa prospettiva – renderlo cioè compatibile con il mercato – implica ridurre l’essere umano a homo oeconomicus: il mostro dell’economia politica che Mary Shelley descrive nel suo Frankenstein, pubblicato non a caso nel 1818, un anno dopo On the Principles of Political Economy and Taxation di David Ricardo.

Una scienza e una società che ignorano cosa sia il lavoro realmente umano – il tema sottotraccia di tutti i Manoscritti – non potranno mai risolvere le questioni brucianti del non lavoro, della precarietà, dell’esclusione dal mercato, della realizzazione di un’esistenza piena e dignitosa. Per Marx il lavoro è un processo attivo e cosciente tra l’uomo e la natura per produrre gli oggetti necessari alla vita. E, nel corso della storia, l’uomo stesso. Sulla base di questo postulato, nel manoscritto su James Mill, egli può chiedersi: cosa significa produrre “in quanto uomini”? Domanda che a un economista moderno non potrebbe mai venire in mente, interrogativo destinato quindi a non avere risposta da parte della religione del nostro tempo. Sorprendente è invece quanto afferma Marx, contraddicendo non poco l’immagine che di lui si è imposta: il lavoro che realizza l’essenza dell’uomo è godimento e amore.

Questo risultato – secondo i Manoscritti – sta alla fine della strada intrapresa dall’umanità lungo la storia. Una meta raggiungibile solo mediante l’affermazione e la soppressione della proprietà privata dei mezzi di produzione, un’oggettivazione dell’uomo che diventa estraneazione e alienazione, la perdita completa e un ritorno dell’uomo a se stesso. La realizzazione dell’essenza umana tramite il lavoro prevede dunque che si produca prima il suo contrario, cioè un mondo irreale e disumanizzato.

Questo pensiero, sorto da una fede nella dialettica, si è rivelato una speranza continuamente mortificata, deviata, ingannata dalla nostra storia recente. La strada della disalienazione pare sempre più ardua, quando non sbarrata una volta per sempre. La vecchia questione filosofica della vita buona e della felicità – come quella altrettanto antica del rapporto tra lavoro e libertà – si pongono dunque oggi in forme inedite. I Manoscritti economico-filosofici ci costringono a fare chiarezza su questi problemi inaggirabili. Continuando a sperare che nella terra di nessuno tra una realtà di fatto, che s’impone come l’unica possibile senza alternative, e una realtà sconfitta, che prometteva di realizzare la vera essenza dell’uomo, si trovino ancora giacimenti di nuove energie rivoluzionarie.

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