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dinamopress

Un sovrano intercambiabile

di Augusto Illuminati

Il corpo dissacrato, l’impresa finanziaria, il declino annunciato e gli esorcismi per dilazionarlo. L’agonia (appena conclusa) di Sergio Marchionne come metafora della governance manageriale e della futilità dei suoi spettatori: cinici o irosi che siano

Ammettetelo: una cosa simile non si era mai vista. Interminabili agonie con accanimento terapeutico, sì, ma si trattava di personaggi politici, corpi sacri di governanti e papi – Franco, Tito, Giovanni Paolo – e bisognava pure prendere tempo per risolvere il problema della successione quando non della sopravvivenza stessa del regime. Seguivano ben orchestrati funerali in cui alle masse veniva offerto lo spettacolo dell’eternità del regime, secondo la sua specificità. La sepoltura “centralistica” nella Valle de lo Caídos, la peregrinazione “federale” in treno per tutte le capitali jugoslave, la confluenza universale di tutti i vertici politici e confessionali in piazza San Pietro.

Certo, la riproposizione moderna dei “due corpi del re”, secondo la formula di Kantorovicz, quello naturale e corruttibile del portatore della sovranità e quello simbolico e incorruttibile della dignitas sovrana che legittima l’istituzione e la dinastia, strideva con la medicalizzazione a oltranza dell’agonia (e infatti, coerentemente Wojtyla la rifiutò, sospendendo le cure) – il corpo fisico viene privilegiato rispetto al corpo simbolico permanente, dimostrando un’evidente sfiducia nel secondo.

Nei primi due casi il gigantismo dell’impresa urtò con un evidente fallimento, a sanzione della crisi della sovranità nelle due versioni simmetriche (per fortuna nel caso franchista, per disgrazia in quello titino). Più ambiguo l’esito per Wojtyla, che rinnovava nel suo anacronistico progetto di una Ecclesia triumphans il motivo della rappresentazione dall’alto della sovranità divina in quella umana assoluta del Pontefice (secondo il Carl Schmitt del Römischer Katholizismus). Se la cavò benissimo, dal suo punto di vista, nell’azione politica e nello spettacolo dell’agonia e del funerale, ma l’evoluzione della Chiesa andò, per buona sorte, in tutt’altra direzione e che i tempi fossero irreversibilmente cambiati lo si deduce dal confronto spietato fra la tomba michelangiolesca di Giulio II in S. Pietro in Vincoli e l’orinatoio eretto nel piazzale della stazione Termini.

Nel caso di Marchionne, invece, il processo è stato rovesciato: sostituzione, panegirici funebri, agiografia, dissenso, insulti sono venuti prima della morte e l’agonia stessa è stato circondata di mistero e understatement, invisibilizzata quanto il corpo. Non si è parlato neppure del solito “male incurabile” ma si è fatto ricorso a spiegazioni reticenti, tortuose e implausibili (complicazioni derivanti da un’operazione alla spalla) come un secolo fa si usava con i notabili, sui cui decessi non si fornivano dettagli anche innocui, e tutto all’opposto della medicalizzazione pubblica ossessiva che oggi accompagna governanti anche meno potenti di Marchionne, e divi mediatici.

Il fatto ha una sua logica nel venir meno della sovranità e nel subentrare di meccanismi governamentali più anonimi. Il capitalista in Marx è il portatore (Träger) del processo capitalistico, una funzione che viene assolta da figure intercambiabili, e la concezione eroica dell’imprenditore in Schumpeter, che riecheggia Nietzsche, è un tentativo ben presto disilluso di introdurre di nuovo un elemento personale e volontaristico nella spersonalizzazione del disincantato mondo moderno. La società per azioni e la finanziarizzazione mantengono il ruolo della competizione e dell’innovazione ma non necessariamente il protagonismo individuale: alla fine contano solo gli algoritmi della speculazione e a decidere sono i detentori o i manager del capitale finanziario, non i capitani d’industria o i corsari. Svanisce il “corpo” del padrone delle ferriere o dello stratega schumpeteriano che “rischia” in proprio combinando fattori produttivi e organizzativi. L’elemento feudale e quello avventuroso di dissolvono nella macchina e rendono superflui mausolei, indignazione e suicidi. Meglio la discrezione di una clinica di Zurigo e uno status crepuscolare sospeso tra vita e morte. Perfino gli annunci ferali si fanno a borse chiuse per non far crollare il titolo. Quando la notizia del decesso diventa ufficiale, i giochi ormai sono fatti.

Marchionne era un ben pagato manager finanziario, fornito anche di un consistente pacchetto azionario, che gestiva (con successo) i soldi di John e perfino di Lapo Elkann, non un imprenditore schumpeteriano innovativo nella progettazione e nell’organizzazione sociale come Ford o Adriano Olivetti. L’acquisizione della Chrysler con il prestito di Obama è stato il suo capolavoro, non il piano industriale, il lancio di nuovi modelli (a parte la jeep Renegade) o la conquista del mercato americano; l’apertura al settore dei motori ibridi ed elettrici fu tardiva e al momento tutta virtuale. Un accorto operatore finanziario, che ha allontanato temporaneamente lo spettro del fallimento e collocato la Fca al settimo livello in un mercato che nel giro di pochissimi anni avrà posto solo per cinque competitori e quindi prevede ulteriori fusioni e alleanze, che di recente Marchionne aveva fallito (GM, Opel, marche asiatiche). Per di più con un bilancio assai magro per quanto riguardo l’Italia, dove si producono solo tre modelli e dai cui presto uscirà l’unico prodotto di massa, la Panda. Sul piano impositivo lo spostamento elusivo delle residenze legali e fiscali della Fca e del contribuente Marchionne in Olanda, Inghilterra e Svizzera integrano il trasferimento della produzione industriale verso Detroit. Dopo l’avvicendamento con Mike Manley, le dimissioni di Altavilla suggellano la snazionalizzazione del board dirigenziale. Ma, prima ancora, lo stesso Marchionne aveva preso atto realisticamente della svolta trumpiana sui dazi, accettando di fatto lo spostamento del grosso della produzione dentro i confini Usa: nella gara dei sovranismi solo la Germania può resistere all’offensiva protezionista – e anche essa con perdite.

L’unico campo in cui Marchionne fece innovazione effettiva fu quello della politica sindacale, soprattutto prima del suo trasferimento oltreoceano. Mentre i precedenti manager Fiat, Valletta e Romiti, si erano limitati a combinare, secondo le circostanze, i due sperimentati modelli storici  anti-operai, la protezione violenta dei crumiri (Pinkerton) e la creazione di sindacati gialli (Zubatov), Marchionne, oltre all’ovvia separazione fra Cisl e Uil buoni e proni e Fiom ”cattiva”, puntò più in alto a disinnescare il partito di “sinistra”, a fagocitare quel Pd che voleva non solo praticamente impotente (come Berlinguer nel 1980) ma attivamente complice. Ciò che gli riuscì con il sempiterno Fassino e l’affezionato Renzi, ma prima ancora nel 2011 con la neutralità di Bersani nella prova di forza a Mirafiori nel 2011. In fin dei conti il crollo della sinistra fu “merito” sostanziale suo e va detto obiettivamente che anche in questo caso Matteo da Rignano ha usurpato danni fatti da altri. Perfino Di Maio dovrebbe rendergli grazie per gli spazi aperti al populismo a Pomigliano.

Marchionne come persona non ha meritato né l’insopportabile aneddotica che continua a fiorire dopo l’ufficializzazione della morte né il livore da web. Merita la riconoscenza degli azionisti di cui ha annullato i debiti e il ricordo poco caldo degli operai Fiat-Fca. Non lascia un’eredità industriale ma questo fallimento si iscrive in una crisi più generale della globalizzazione e del ruolo europeo in essa. Non essendo riuscito a mangiarsi le altre major il gruppo Fca è probabilmente destinato a essere a sua volta mangiato. A vivere di subappalto e a gestire in Asia la nicchia del lusso, con Ferrari e Maserati. Vedremo.

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