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Flexsecurity, il solito giochetto a due fasi sulla pelle dei lavoratori

di Alessandro Robecchi

Con tutta la bella retorica sull’uscita dalla crisi, e la ripresina – dopo dieci anni di implacabile tosatura dei redditi dei ceti medio bassi – ecco che abbiamo un problemino. Muore, infatti, gran parte della cassa integrazione per le aziende in crisi o in cessazione di attività. Il che significa avere davanti la prospettiva di 140.000 (centoquarantamila!) lavoratori senza reddito, solo tra i metalmeccanici, cui si aggiungono altre categorie, tavoli, trattative, crisi, emergenze per un totale che nessuno sa calcolare ma che dovrebbe, alla fine dell’anno e nei primi mesi del 2019, sfiorare quota 200.000 (duecentomila!). Sono famiglie che rischiano di restare senza reddito, quindi di più o meno mezzo milione di persone che sentono la terra che cede, il pavimento che diventa fangoso, e avvertono spaventate uno scivolamento verso la povertà.

La questione è già stata approfondita dai leader politici, cioè approfondita come sanno fare loro, in scambi di contumelie di 280 caratteri, virgole e spazi compresi. Di Maio ha dato a Renzi dell’”assassino politico” per il Jobs act, Renzi ha risposto per le rime, eccetera eccetera. La solita seconda media con ragazzi difficili, che – immagino, ma sono quasi sicuro – produrrà in quelle 200.000 famiglie sull’orlo della povertà una notevole irritazione (eufemismo: saranno incazzati come cobra).

Al di là del disastro, che ora bisognerà evitare in qualche modo, va fatta una riflessione seria sulla sbobba che in questi anni ci hanno fatto mangiare, a pranzo e a cena, benedetta e santificata in una parolina inglese (e te pareva, la lingua di Shakespeare sembra la vaselina migliore quando si parla di lavoro in Italia): flexsecurity.

Per anni, più o meno dal 2009, quella della flexsecurityè stata la teoria liberista del lavoro, mutuata da suggestioni danesi (Pil una volta e mezzo il nostro, abitanti meno di un decimo), spinta dai pensatori liberal-liberisti, tradotta assai maldestramente in legge dal jobs act. Consiste, più o meno, nell’aumentare sia la flessibilità del lavoro (flex), sia la sicurezza sociale (security), con il geniale progetto, una specie di speranza con tanto di ceri alla Madonna, che la prima riesca più o meno a finanziare la seconda. Cosa che non è avvenuta.

Su colpe, responsabilità, omissioni, pezze da mettere al buco si vedrà, ma preme qui affrontare un aspetto della questione un po’ più teorico e (mi scuso) filosofico. Perché entra qui in gioco una grande tradizione italiana, che potremmo chiamare il trucchetto delle due fasi. Prima fase: si chiedono sacrifici e rinunce, limature e taglio di diritti, stringere i denti, tirare la cinghia. Ma tranquilli, è solo la prima fase, poi verrà la seconda fase e vedrete che figata.

Ecco, la seconda fase non arriva mai.

Qualcosa si inceppa. O si sono sbagliati i calcoli. O cade un governo. O cambia la situazione internazionale. O il mercato non capisce. O l’Europa s’incazza. Insomma interviene sempre qualche fattore per cui la fase uno si fa eccome, soprattutto nella parte dei diritti tagliati e del tirare la cinghia, e la fase due… ops, mi spiace, non si può fare, non ci sono i soldi, che disdetta.

Sono anni e anni che questo giochetto delle due fasi viene implacabilmente attuato sulla pelle dei lavoratori italiani, anni in cui gli si chiede di partecipare in quanto cittadini al salvataggio della baracca, rinunciando a qualcosa come garanzie o potere d’acquisto in cambio di un futuro in cui i diritti ce li avranno tutti – un po’ meno, ma tutti – e aumenterà il benessere collettivo. Mai successo. Ma mai.

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