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Foodora Glovo: oligopoli a chiamata

di Marta Fana

Dopo le minacce di lasciare il paese, Foodora Italia viene acquisita da Glovo. L'ascesa del gigante spagnolo esprime una trasformazione più profonda delle piattaforme di consegna

La notizia dell’acquisizione di Foodora Italia da parte di Glovo ha ben poco a che fare con le vicende legate al mondo del lavoro e alle proteste dei riders che hanno riempito le prime pagine dei giornali nei mesi scorsi. Niente a che vedere con le dichiarazioni di metà giugno del Ceo di Foodora italia, Matteo Cocco: «Se fossero vere le anticipazioni del ‘decreto dignità’ […] dovrei concludere che il nuovo governo ha un solo obiettivo: fare in modo che le piattaforme digitali lascino l’Italia». Il cosiddetto “Decreto rider” tra l’altro ha avuto vita giusto il tempo per il ministro del lavoro Luigi di Maio di fare un po’ di dichiarazioni e provare a riprendersi le prime pagine dei giornali, offuscato dall’aggressività del collega Matteo Salvini. Nel frattempo però il capitale fa il bello e il cattivo tempo, mai messo in discussione nella sua libertà di azione.

 

È la finanziarizzazione, bellezza!

La scelta di Foodora di lasciare l’Italia, cioè vendere, è una vicenda tutta interna al capitale e risponde prima di tutto alla tendenza alla centralizzazione su scala internazionale. Una strategia dichiarata da Niklas Östberg, Ceo di Delivery Hero, cioè la società, ancora definita start-up, che nel 2014 aveva acquisito Foodora:

«Il nostro focus principale rimane sulla crescita e rafforza ulteriormente le nostre posizioni di leadership per continuare a creare valore per gli azionisti a lungo termine».

Lì dove ciò non è possibile perché la competizione oligopolistica è alta, allora meglio abbandonare. È il caso non solo dell’Italia ma anche della Francia, del Brasile e dell’Australia. Delivery Hero non scompare dal mercato, non affonda nonostante i risultati economici non siano ottimali, ma anzi continua la sua strategia di fusioni e acquisizioni. Come si legge nel comunicato di agosto, acquista iFood in Argentina e hipMenu che gode di forti posizioni di mercato in molte città della Romania. Tra le varie operazioni, diventa niente poco di meno che il più grande azionista di minoranza, con un investimento di 51 milioni di euro, di… Glovo, cioè la società che appunto in questi giorni acquista Foodoora Italia.

Questa operazione permette a Glovo di diventare leader delle consegne a domicilio in Italia, aggiungendo al milione di utenti e 5.600 partner un potenziale di 620.000 utenti e 4.500 partner commerciali.

Sebbene Glovo presenti condizioni economico-finanziarie migliori di quelle dell’ex-holding DeliveryHero, l’operazione di acquisizione è stata possibile dal punto di vista finanziario grazie anche agli ingenti incrementi di capitale, 115 milioni di euro, affluiti ad agosto nello stato patrimoniale, permettendo l’ingresso di nuovi soci. Tra i nuovi investitori emerge AmRest, forse l’operatore più influente del settore ristorazione già quotato in borsa e sotto il cui controllo vi sono circa 1600 ristoranti tra cui grandi catene come KFC, La Tagliatella, Pizza Hut, Starbucks and Burger King, Blue Frog. Il secondo investitore è IdInvest Partner, fondo di investimento francese con un portafoglio di circa 8 miliardi di euro investiti nei più svariati settori, tra cui figura anche Burger King controllata come si diceva dall’altro investitore AmRest. Il terzo tra le new entry è GR Capital, altra società di venture capital con sede a Riga. Insieme a questi nuovi shareholders all’operazione hanno partecipato Rakuten Capital, Seaya Ventures e Cathay Innovation che avevano investito 30 milioni in Glovo già nel 2016.

Il meccanismo attraverso cui Glovo ha aumentato il suo capitale è quello degli investimenti denominati Serie C in cui potenziali investitori iniettano capitale nelle società già ritenute di successo. L’obiettivo è semplice: riuscire a trarre un profitto tale da raddoppiare il valore della quota investita nel minore tempo possibile. È la speculazione, bellezza!

 

Rivendicazioni al vento

Attraverso l’acquisizione di Foodora Italia, almeno nel nostro paese Glovo consolida la fetta di mercato del food delivery, la consegna dei pasti a domicilio. Ma Glovo non si occupa solo di questo settore: è una piattaforma attraverso cui è possibile farsi consegnare di tutto, dai pasti agli acquisti in farmacia, dallo shopping presso Decathlon al “di tutto di più” come si legge proprio sul sito. Come le altre piattaforme di consegna, il delivery, non apre nuovi mercati ma intermedia domanda e offerta attraverso l’applicazione. Si inserisce cioè nella circolazione delle merci, momento essenziale del processo produttivo grazie al quale avviene lo scambio, ovvero la valorizzazione stessa del capitale. Ma l’applicazione di per sé non basta, essa ha bisogno di quel fattore fondamentale affinché si realizzi lo scambio: il lavoro di trasporto e consegna delle merci. È qui che interviene allora il ruolo dei fattorini, i rider, senza i quali il valore di queste piattaforme sarebbe nullo. Per loro nessuna dichiarazione, quel che si sa è che Foodora Italia continuerà ad operare fino ad affare concluso. Tuttavia, il destino dei lavoratori della neo-acquisita non è chiaro. Trattandosi di collaboratori e non esistendo alcuna clausola di continuità lavorativa, Glovo potrebbe disfarsene e riaprire le collaborazioni sotto il proprio regime. Ad oggi, anche i fattorini di Glovo sono tutti lavoratori autonomi, considerati dall’azienda come dei fornitori del servizio consegna. Nessun vincolo, nessuna subordinazione, nonostante nelle ore in cui il lavoratore presta servizio sia comandato proprio dall’applicazione che a sua volta segue i “consigli” dell’algoritmo. L’espediente di marketing utilizzato afferma che “Quello che guadagni per ogni ordine dipende dalla tua esperienza e dai feedback di ristoranti e clienti” se ci sia dell’altro come il tempo di consegna o il numero di ordini non rifiutati non è dato sapere, ma sicuramente lascia aperto il sospetto.

Si può guadagnare fino a 10 euro l’ora, ma come? I lavoratori, a cui è imposto il regime di collaborazione, se inizialmente avevano un fisso garantito per ogni ora di servizio, via via è stato eliminato per dare spazio al sistema più diffuso e rapace: il cottimo. Un meccanismo più volte denunciato dai lavoratori, come in questo post di Riders Union Bologna dove si legge “pochissime consegne (spesso anche nessuna consegna), che vengono pagate 3 o 4 euro lordi; paga a cottimo; assicurazione a carico dei/delle lavoratori/lavoratrici di cui non ci è dato conoscere i dettagli e i massimali; nessuna forma di previdenza sociale; equipaggiamento di lavoro malfunzionante ed insufficiente per garantire la nostra sicurezza; il ricatto del sistema di rating delle/dei riders; l’assenza di un monte ore garantito; la graduale estensione delle distanze di consegna; etc.”.

Rivendicazioni che provano a minare l’assetto organizzativo che le piattaforme impongono, con espedienti per declassare ulteriormente il lavoro aumentando i margini di profitto. Infatti, «dietro l’algoritmo si cela un meccanismo in essere già agli inizi del Novecento: il taylorismo. Il lavoratore come fattore di produzione può essere sostituito in qualsiasi momento ed è chiamato a svolgere una mansione routinaria, sempre la stessa, perfettamente misurabile e quindi controllabile. Tramite l’applicazione, ovviamente. Infatti, l’algoritmo registra tutto: tempi, percorsi, modi della consegna. Si è arrivati – o ritornati – al controllo totale sul lavoro, gestito in maniera del tutto impersonale, in cui l’algoritmo decide quanto e se lavori, basandosi esclusivamente sugli indicatori di produttività che registra». (Non è lavoro, è sfruttamento, Laterza 2017).

 

Sfidare il capitalismo

Queste forme di organizzazione del lavoro in cui ogni costo di produzione è scaricato sui lavoratori non sono specifiche del settore delle consegne, ma rappresentano una dinamica già in atto all’interno del capitalismo globale. Il connubio tra esternalizzazione, in questo specifico caso addirittura individualizzata, e compressione dei salari è il tratto distintivo della ristrutturazione capitalistica ormai in atto da decenni. Niente di nuovo così come l’intreccio tra l’interesse degli azionisti che rimane quello della massimizzazione del valore dell’azienda, quindi del suo investimento, e l’erosione della quota salari a loro vantaggio. Svincolati da qualsiasi responsabilità essi potranno chiudere battenti e andare a cercare opportunità di guadagno lì dove l’espansione del mercato lo permette. Come appunto nel caso di Foodora e Glovo.

Di fronte a queste trasformazioni proprie del capitalismo contemporaneo in cui finanziarizzazione e svalutazione del lavoro corrono di pari passo, in una rinnovata fase di ristrutturazione che ha attraversato la crisi e non è stata ancora conclusa. Di fronte a tutto questo, i tentativi di organizzazione dei lavoratori del settore delle consegne tutt’ora in agitazione in varie parti d’Europa rimangono strumento necessario ma non sufficiente per affrontare la complessità che abbiamo di fronte. Dare vita a una battaglia tutta politica che sappia prendere le misure non soltanto con la sfera della produzione e dell’organizzazione del lavoro, ma con il regime stesso di accumulazione e pervasività del capitale finanziario è quanto mai urgente.


*Marta Fana, PhD in Economics, si occupa di mercato del lavoro. Autrice di Non è lavoro è sfruttamento (Laterza).

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