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Appunti a margine di un libro "politicamente scorretto"

di Carlo Formenti

È sufficiente che qualcuno si dichiari a favore di una limitazione della libera circolazione delle persone per sentirsi affibbiare l’etichetta di reazionario da parte dei fan dell’ideologia “no border”. In questo lavoro sosterremo invece la tesi che esistono valide ragioni “di sinistra” (se essere di sinistra significa essere contro il liberismo e a favore dei ceti popolari) per sostenere che non è solo la liberalizzazione della circolazione di capitali e merci, ma anche quella delle persone ad avere aggravato gli effetti della mondializzazione sui redditi e sulle condizioni di vita delle classi subalterne. Così scrivono Aldo Barba e Massimo Pivetti nella Introduzione al loro scorrettissimo libro “Il lavoro importato. Immigrazione, salari e stato sociale” (Meltemi). Ne riassumo qui di seguito le tesi più significative.

In primo luogo i dati. Il libro ne contiene parecchi, qui mi limito a citare quelli relativi ai flussi migratori degli ultimi vent’anni in Inghilterra, Germania, Francia e Italia. In questi Paesi la percentuale di residenti nati all’estero è oggi, nell’ordine, del 14,4; 13,7; 12,2 e 10,2 per cento. L’Italia come si vede viene ultima, ma è fra quelle che hanno avuto un tasso di crescita più elevato in anni recenti.

Altro dato: l’attenzione si concentra generalmente sull’immigrazione dall’Africana e, in minor misura, dall’Asia ma, ad avere determinato un deciso mutamento della composizione etnico culturale dei Paesi sopra citati, è stata soprattutto l’immigrazione proveniente dai Paesi dell’Est Europa dopo il crollo del blocco sovietico (forse meno “visibile”, ma anche quella che, essendo dotata di livelli di educazione e preparazione professionale superiori agli altri immigrati, ha avuto più impatto sul mercato del lavoro).

Passiamo ora a una serie di miti (costruiti dai media e dagli economisti neoliberisti, ma sposati entusiasticamente dalle sinistre) che Barba e Pivetti smontano sistematicamente: l’immigrazione serve a mitigare gli effetti dell’invecchiamento demografico della nostra popolazione; gli immigrati sono indispensabili perché fanno lavori che gli autoctoni non sono più disposti a fare (e per lo stesso motivo non possono essere incolpati di contribuire all’abbassamento dei salari in questi settori); gli immigrati sono quelli che pagheranno le nostre pensioni (corollario del primo mito); la presenza di milioni di persone che appartengono a culture diverse è una forma di arricchimento.

Vediamo come replicano gli autori. L’argomento del ringiovanimento della popolazione si fonda sull’ipotesi che i comportamenti riproduttivi degli immigrati restino simili a quelli dei rispettivi Paesi di provenienza (cioè con tassi di fertilità assai più elevati dei nostri), ma le ricerche dimostrano che in tempi brevi i loro comportamenti riproduttivi si allineano a quelli dei nativi (già alla seconda generazione sono assimilabili). Quanto al presunto impatto fiscale positivo, tale tesi che non tiene conto del fatto che i più poveri (anche i nativi, ma gli immigrati sono molti di più) in termini di spesa pubblica costano assai più di quanto non contribuiscano alle entrate complessive dello stato. Ancora: il peso degli stranieri inattivi sui sistemi di protezione sociale è massimo a fronte di nessun contributo diretto alla produzione complessiva. Inoltre, per avere lavoratori immigrati occorre “importare” anche individui che non lavorano, anche se sono in età da lavoro. Infine sull’apologia del multiculturalismo: la concentrazione nei luoghi più attrattivi in termini di opportunità di reddito di individui provenienti dagli stessi Paesi crea “comunità della diaspora”, che non si integrano con i nativi e che, nelle periferie già povere e degradate hanno ulteriormente peggiorato la situazione, minando la coesione sociale e innescando guerre fra poveri. Gli effetti di questa mancata integrazione sono particolarmente vistosi nel sistema scolastico: le scuole periferiche (dove restano confinati i figli dei ceti popolari, mentre quelli degli benestanti vanno in centro o in scuole private) scontano un secco abbassamento dei livelli di apprendimento.

Passiamo al lavoro. La crescita del tenore di vita che gli indigeni hanno sperimentato nei decenni del welfare e di cui restano residui sia pubblici che privati (welfare familiare) fa sì che spesso si preferisca restare disoccupati che sottopagati. Questo tipo di disoccupati (i “bamboccioni” della retorica liberista) non garbano al capitale, che vuole gente disposta a svolgere qualsiasi mansione (anche la più degradante e nociva) per qualsiasi salario, cioè gli immigrati. Ma ciò non significa che non vi sia concorrenza fra gli uni e gli altri: in primo luogo, la resistenza di chi si ritira dal mercato del lavoro non può durare all’infinito, arriva il momento in cui si è costretti a rientrare, e quindi ad accettare i livelli determinati dalla debolezza contrattuale degli immigrati, poi perché i meccanismi dell’esercito industriale di riserva (che come ci ha insegnato Marx sono quelli che regolano il salario) fanno sì che, alla lunga, l’abbassamento del salario minimo finisce inevitabilmente per far slittare verso il basso l’intera piramide salariale (un meccanismo che si è verificato, per esempio, con la massiccia immissione di forza lavoro femminile sul mercato del lavoro negli ultimi decenni del secolo scorso). Infine Barba e Pivetti ricordano - a proposito della scarsità di mano d’opera che i padroni adducono come una buona ragione per importare lavoratori stranieri - che in assenza di flussi immigratori quella scarsità si sarebbe potuta fronteggiare attingendo alla riserva di nativi scoraggiati o impiegati a tempo parziale (a condizioni di offrire salari decenti, il che il capitale è ben contento di evitare ricorrendo agli immigrati).

Da quest’analisi i due autori fanno discendere una serie di proposte su come si dovrebbero regolare i flussi migratori senza associarsi alle crociate delle destre: gli ingressi andrebbero commisurati alle effettive chance di integrazione lavorativa e sociale, anche attraverso accordi con i Paesi di origine il che, nel caso dell’Africa, richiederebbe di rimpiazzare gli “aiuti” subordinati alle forche caudine del Fondo monetario internazionale con un “piano Marshall” per lo sviluppo (il che, per inciso, è quanto facendo la Cina con i suoi colossali investimenti infrastrutturali). Si tratterrebbe poi di condurre capillari campagne di controinformazione sulle difficoltà del viaggio e sui suoi esiti incerti e spesso letali, per contrastare la propaganda delle organizzazioni criminali che “arruolano” gli immigrati, illudendoli su ciò che troveranno lungo il cammino e una volta arrivati (se mai arriveranno). Quanto agli immigrati illegali si tratta, da un lato, di regolarizzarne il maggior numero possibile allineandone le condizioni di lavoro e di vita a quelle dei nativi (e contribuendo così a rafforzare l’unità di tutti i lavoratori), e di espellere gli altri (aumentare le espulsioni può essere costoso, argomentano Barba e Pivetti, ma avrebbe il vantaggio di agire da deterrente scoraggiando ulteriori arrivi). Ovviamente tutto ciò è anatema per le sinistre no border che hanno abbandonato qualsiasi impegno per la tutela degli interessi e dei bisogni delle classi popolari indigene (sulle quali rovesciano il proprio disprezzo accusandole di xenofobia e razzismo – e regalandole così all’egemonia delle destre!), per concentrare tutte le energie sulla “battaglia morale” (o meglio moralistica) a favore dell’assoluta libertà di movimento delle persone. Un’ideologia no border, annotano Barba e Pivetti, che demonizza i confini in quanto contorni degli stati nazione, considerati espressione diretta del potere capitalista. Una visione antistatalista che l’esperienza del trentennio glorioso e dei socialismi sopravvissuti alla caduta dell’Urss dovrebbero avere spazzato via, dimostrando come lo stato non sia necessariamente “il comitato di affari della borghesia”, ma possa essere utilizzato per migliorare le condizioni di vita delle classi popolari. Purtroppo le idee di Gramsci e il suo concetto del farsi stato delle classi subalterne da tempo non abitano più nei cervelli atrofizzati di una certa sinistra.

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