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L’inganno della meritocrazia al tempo degli influencer

di Niccolò Biondi

La polemica che in questi giorni ha coinvolto l’influencer Imen Jane, rea di aver ricondiviso parole denigratorie nei confronti di una giovane barista, pare averne fatto nuovamente vacillare la reputazione a circa un anno dalla gaffe circa la sua millantata laurea in economia. La divulgatrice social si è scusata poco dopo l’accaduto alludendo a un errore di errata comunicazione e sottolineando che le parole ricondivise vanno contro i suoi principi e la sua storia.

Lo scivolone di Imen appare nient’altro che un naturale epifenomeno della mentalità individualista e competitiva che sottende la retorica di questi influencer economici coccolati dai media mainstream, che trovano in loro il grimaldello ideale per promuovere uno specifico modello sociale tra le fila dei più giovani.

In questo senso, l’ideologia della meritocrazia rappresenta uno dei più potenti fattori di legittimazione del sistema liberale e capitalistico. “Impegnati, e avrai ciò che meriti”: su questa semplice frase si regge la legittimazione del sistema socio-economico contemporaneo, nonché la giustificazione a posteriori dei risultati della competizione: i vincenti hanno meritato, i perdenti hanno demeritato.

Da qui il consueto corollario politico: redistribuire redditi e ricchezza è non solo sbagliato, dal momento che diminuisce l’incentivo a rischiare e impegnarsi, ma anche ingiusto, dato che si toglie ai meritevoli per dare ai demeritevoli.

Che il sistema di mercato sia un mondo meritocratico, a differenza di forme di organizzazione dell’attività economica più centralizzate o caratterizzate dall’intervento pubblico redistributivo, è una convinzione continuamente espressa dai militanti neoliberali. Eppure, se si vanno a leggere le opere di un autore neoliberale come Friedrich August von Hayek, ad esempio “Legge, legislazione e libertà” (1986), si può constatare come siano gli stessi teorici neoliberali a metterci in guardia dalla facile equazione mercato uguale meritocrazia.

 

Meritocrazia e uguaglianza di opportunità

Risulta facilmente comprensibile che non si può in alcun modo parlare di “potere ai meritevoli” qualora la posizione di partenza dei vari individui sia diseguale: chi parte molto più avanti degli altri ha un vantaggio che gli consente di faticare meno per raggiungere gli stessi risultati. Le differenze di partenza sono di vario tipo, da quelle naturali (differenze anatomiche e intellettive) a quelle sociali ed economiche.

Il figlio di una famiglia ricca, che non necessita di lavorare fin da giovanissimo per permettersi le vacanze e ha a disposizione insegnanti privati nel doposcuola per le ripetizioni, ha un vantaggio competitivo enorme su chi proviene da una famiglia povera, deve condividere la camera da letto con uno o più fratelli, è costretto a lavorare dopo la scuola e non può pagarsi le ripetizioni. Per dare potere, remunerazione economica, posizioni sociali elevate e credito ai “meritevoli” occorrerebbe che tutti avessero le stesse opportunità di partenza, cosa che in un mondo caratterizzato dalla proprietà privata ereditata è impossibile. Ma se fosse possibile, attraverso un’assoluta eguaglianza di partenza, sarebbe possibile calcolare il merito individuale?

 

La meritocrazia è oggettiva, e non soggettiva

Uno dei grandi errori che spesso si fanno a proposito della meritocrazia è pensare che sia possibile calcolare il merito individuale, quasi la fatica, l’impegno, lo sforzo e le capacità fossero entità quantificabili in modo oggettivo e, su questa base, fosse possibile disporre su una scala i valori dei vari “meriti” individuali. In realtà, così non è.

Per capire se c’è stato un merito, non si può calcolare lo sforzo, l’impegno e le capacità individuali, ma soltanto controllare i risultati: per fare un esempio semplice, in una competizione sportiva vince chi è arrivato primo, e non chi si sia impegnato di più nella gara o si sia allenato di più. Il che non significa che, tendenzialmente e nei grandi numeri, non vinca chi si è allenato di più: anzi, sostiene Hayek, ai fini del funzionamento del sistema di mercato occorre che le persone credano che esso remunera l’impegno e lo sforzo, altrimenti il meccanismo del mercato cesserebbe di funzionare.

Il punto è che la meritocrazia, in un sistema di mercato, è oggettiva: il mercato remunera chi, a prescindere dalla sua qualità morale, dai suoi sforzi, dal suo impegno, dalle sua capacità, riesca a soddisfare le esigenze degli altri. Il mercato guarda all’oggettività della soddisfazione del consumatore, e non alla soggettività dell’impegno, dello sforzo e delle capacità “sulla carta” dei soggetti.

 

La meritocrazia è inficiata non solo dalle diseguaglianze di partenza, ma anche dal caso

In un sistema di mercato la remunerazione dei soggetti dipende solo in parte dalla loro abilità: dipende, in larga parte, dalla fortuna e dal caso – dall’essersi trovato al momento giusto nel posto giusto, dall’aver conosciuto nella propria vita persone che ci hanno aperto possibilità, da eventi casuali che mettono in difficoltà i concorrenti, eccetera.

 

L’inganno della meritocrazia

L’economia di mercato, in altre parole, non remunera i meritevoli, sia perché il merito può essere soltanto valutato ex post ed è oggettivo (nel senso sopra indicato), sia perché dipende da circostanze casuali in cui la sorte si somma all’abilità e alle capacità individuali nel determinare il destino delle persone. Derivano da questa conclusione due conseguenze rilevanti.

In primo luogo, la meritocrazia non può essere utilizzata come un argomento per negare la necessità dell’intervento pubblico nell’economia, sia per redistribuire i redditi sia per finanziare servizi pubblici: il fine è quello di diminuire le differenze di partenza dei vari soggetti, al fine di realizzare più meritocrazia rispetto a quanta sia capace di produrne il mercato, e diminuire l’influenza del caso sulle cose umane.

In secondo luogo, occorre interrogarci sull’opportunità stessa di strutturare la società intorno all’ideale della meritocrazia. È indubbio che l’ideale meritocratico sia un potentissimo fattore di stimolo dell’impegno e della laboriosità individuale, e dunque un elemento positivo per l’economia e la società. D’altra parte, tuttavia, tale ideale non deve portarci a sposare forme più o meno radicali di “darwinismo sociale”: una delle facoltà fondamentali dell’essere umano risiede nella capacità dell’empatia, della solidarietà, della rivendicazione della giustizia sociale.

La società umana non si regge, a differenza della natura animale, sul meccanismo del pesce grande che mangia il pesce piccolo: siamo umani proprio perché la nostra società è in grado di prendersi cura di chi “rimane indietro”. Questa è, a proposito, la convinzione dello stesso Charles Darwin, che riteneva che la caratteristica principale della società umana fosse il depotenziamento dei meccanismi di selezione naturale che deriva dalla capacità morale dell’uomo.

Ciò che è chiamato impropriamente “darwinismo sociale”, pertanto, dovrebbe essere chiamato “concorrenzialismo sociale” o “spencerismo”, dal nome di Herbert Spencer, un autore liberale che a fine Ottocento teorizzò la selezione naturale nella società umana.

Una società umana, civile e avanzata è perfettamente in grado, e deve assumersi l’onere, di accompagnare forme di meritocrazia alla giustizia sociale. Per farlo, però, è indispensabile l’intervento pubblico nell’economia.


* Tratto dalla pagina Osservatorio Italiano sul Neoliberismo

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