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lafionda

Un partito come viceré

di Umberto Vincenti

La vicenda della guerra in Ucraina ha reso manifesto quanto già sapevamo circa l’assetto del potere reale nella Repubblica italiana. Prima del 1992, l’Italia era alleata degli Usa, ospitandone decine e decine di basi militari sparse sulla Penisola. Erano un’alleanza e un’ospitalità dovute: l’Italia aveva perso la guerra che gli USA avevano vinta; e gli USA avevano aiutato efficacemente l’Italia a rialzarsi dalle macerie attraverso le largizioni di denaro contemplate nel Piano Marshall. C’era un condizionamento politico, sì, che gli USA esercitavano attraverso la Democrazia Cristiana. Ma ciò non aveva impedito il sorgere e il diffondersi di un diffuso antiamericanismo ai vari livelli (c’era il Partito Comunista, c’erano gli intellettuali, c’erano i movimenti di piazza). Si eleggevano Capi dello Stato democristiani (ma anche il socialdemocratico Saragat e il socialista Pertini); però si votava per il Parlamento nazionale con frequenza perché le Camere erano frequentemente sciolte in anticipo. Nel 1992 nasceva, con il Trattato di Maastricht, l’UE; e progressivamente l’assetto di potere ne veniva trasformato. Seconda repubblica e galassia Berlusconi.

A un certo punto – siamo nell’estate del 2011 – Berlusconi e il suo governo subiscono vari attacchi destabilizzanti provenienti dalla BCE (la lettera del Presidente Trichet, praticamente un ordine al governo italiano di adeguarsi alle condizioni imposte dalla BCE), dall’UE e, infine, anche da Francia e Germania. Nel frattempo Mario Monti (ex Commissario UE) entra in scena evocando la necessità di un governo tecnico sovrannazionale. Il Presidente Napolitano lo nomina senatore a vita il 9 novembre. Berlusconi si dimette il 12 novembre e il 16 Napolitano conferisce a Monti l’incarico di formare il nuovo governo.

Questa sequenza di fatti risalenti a undici anni or sono ora ci suggerisce qualcosa o no? Assolutamente sì: in quell’ormai lontano 2011 si è consumata una rottura politica, di più una sottrazione della sovranità nazionale (cioè, della sovranità popolare), non più sanata, anzi divenuta, nel tempo, più profonda da una parte, irreversibile dall’altra. Che così sia è dimostrato dalle successive vicende della politica italiana. Dal 2014 non abbiamo più un Presidente del Consiglio eletto dal popolo. Gli ultimi due Presidenti della Repubblica sono stati entrambi rieletti. Gli ultimi tre governi – Conte I, Conte II, Draghi – sono stati presieduti (Draghi è tuttora in carica) da non parlamentari (ma anche il governo Renzi aveva questa caratteristica). Vi è una resistenza assoluta allo scioglimento anticipato delle Camere: dunque si vota di meno e, d’altronde, la durata della legislatura (cinque anni) non è tra le più brevi in circolazione.

La spoliazione dell’Italia – della sua sovranità – si è compiuta con l’incarico a Mario Draghi, un uomo che dire europeista sarebbe molto riduttivo perché Draghi ha fatto tutta la sua fortuna in UE e l’UE lo ha verosimilmente imposto a Mattarella che certamente non avrà obiettato nulla in quanto anch’egli era già robustamente allineato a Bruxelles.

Questa storia ci fa capire che da Draghi non potremmo mai attenderci nemmeno l’elaborazione di una politica, tanto più se estera, autonoma dall’UE; né dovremmo favoleggiare che possa diventare lui l’ispiratore della politica dell’UE. Come accade spesso in Italia, lo abbiamo certamente sopravvalutato in ragione dei suoi trascorsi, certo di alto prestigio, europei. Ma l’Europa habet suas sideras, cioè l’aver fatto carriera in UE non è garanzia né di onniscienza né di onnipotenza. Era invece prevedibile che il ruolo di Draghi fosse strumentale a rafforzare il vincolo esterno che la volatilità dell’elettorato italiano e l’atomizzazione della società italiana potrebbero improvvisamente rendere meno efficace.

Nella vicenda ucraina questo assetto di potere si è reso più evidente e non ha avuto alcuno scrupolo di farlo: il governo italiano appare come il più filoatlantista ed europeista di tutti. La costruzione ha dato i suoi frutti; gli Italiani, e i loro interessi, contano molto poco, nulla direi. Né Draghi sembra crucciarsene: le sue dichiarazioni hanno segnato un capovolgimento rispetto alla tradizionale cautela osservata attentamente dall’Italia dal dopoguerra in avanti. E per questo possiamo opportunamente introdurre la categoria della rottura i cui effetti vedremo e valuteremo nel prossimo futuro.

Intanto dovremmo ricercare come sia stato possibile instaurare un assetto di questo genere. Si tratta di un mix a cui hanno contribuito vari fattori. In primis la Costituzione che schiera più dispositivi per calmierare la voce del popolo. Poi la trasformazione nei fatti del ruolo del Presidente della Repubblica: da notaio qual sarebbe dovuto essere a organo politico più influente e sempre più determinante. Per giunta il più amato dagli Italiani, che si fermano alla superficie delle dichiarazioni pubbliche del Presidente, assolutamente inconsistenti ma mai divisive perché esprimenti quelle buone intenzioni che piacciono a tutti o quasi. Ma gli ultimi Presidenti hanno lavorato molto sotto traccia a livello interno e internazionale e sono gli artefici, per i poteri che la Costituzione consegna a loro, di questi governi ispirati da Bruxelles. Qualche volta il gioco non è riuscito, come con il primo governo Conte. Ma il più delle volte sì (e si può prevedere che così si continuerà).

Ciò non basterebbe se non vi fosse un partito presso il quale sta una porzione notevole del potere pubblico italiano. Mi riferisco al PD che non a caso in questi giorni di guerra è il più determinato nel sostenere Washington e Bruxelles, esponendo a più di qualche rischio (grave) l’Italia e gli Italiani. In un editoriale di una decina di giorni or sono Marcello Veneziani ha ben descritto l’occupazione, da parte del Partito Democratico, di molti centri del potere pubblico. A cominciare dalla Presidenza della Repubblica di cui questo partito riesce puntualmente (e abilmente) ad appropriarsi. E poi la magistratura, l’università, gli intellettuali (Carofiglio imperversa tutte le mattine alla radio martellando con la pubblicità della fiction tratta da un suo libro), le televisioni pubbliche, i giornali più importanti, le amministrazioni ministeriali e ora, penso, anche le forze armate, almeno in parte. Una lucida strategia, il cui successo è reso possibile dall’assoluta pochezza degli avversari. In sintesi, con il venti per cento dell’elettorato (di quello che vota), il partito-viceré, che ha i suoi laddove il potere è allocato, è in grado di governare comunque, direi, su mandato UE: dunque con la forza che, di rimbalzo, arriva da Bruxelles.

A questo partito l’UE (ora anche gli americani, ma credo nella contingenza) si affida per controllare l’Italia. L’UE, id est Francia e Germania. Quest’assetto di potere evoca categorie antiche: il protettorato, il viceré. Il controllo è capillare e ha dimostrato in questi giorni la sua efficacia: difficile, molto difficile trovare l’opportunità di esprimere, nello spazio pubblico, un’opinione sulla guerra diversa da quella veicolata nel mainstream governato dal PD. Ma non è una novità, almeno per gli addetti ai lavori: bisogna usare le parole del politically correct per accedere al dibattito pubblico che conta. Adesso soggiacciamo più che mai al vincolo esterno. Ma la colpa non è di Draghi, bensì della nostra debolezza, come Stato e anche di noi Italiani. Mario Draghi è la maschera perfetta di un potere che non proprio occultamente ci manovra: con Draghi i nostri alleati carissimi hanno raggiunto la perfezione e il Presidente del Consiglio si lascia andare ad affermazioni inusuali e ad iniziative quasi inconsulte se si abbia presente che esse avranno una ricaduta pesantemente negativa per noi. Usa un linguaggio da leader di una grande potenza: una recita il cui copione è scritto fuori d’Italia. Speriamo che gli Italiani se ne accorgano. Ma è difficile.

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