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marx xxi

Guai ai salvatori dell’Occidente

di Fabio Mini

Simboli fallimentari. Usa & C. avrebbero ormai dovuto imparare che non tutto si può risolvere con le armi e occorre porre limiti alla guerra prima che, vinta o persa, si traduca in una sconfitta politica e di civiltà

Non c’è rivoluzionario che prima di diventare eroe nazionale non sia stato considerato un terrorista dai regimi che intendeva abbattere.

Ma è raro che un eroe nazionale diventi un terrorista. In entrambi i casi tutto dipende da chi è destinato a vincere o perdere. Dopo otto anni di guerra civile e due di guerra contro la Russia, l’ucraina sembra destinata a perdere. Non è solo una constatazione oggettiva della situazione sul terreno e dei risultati ottenuti dalle forze in campo: le forze ucraine sono agli sgoccioli e dopo aver dilapidato gli armamenti, i soldi e gli aiuti ricevuti non sono nelle condizioni né di avanzare né di sistemarsi a difesa. La Russia, dopo aver iniziato una guerra “al risparmio”, impegnando poche forze e spendendo quelle immediatamente disponibili in penetrazioni tatticamente separate e non coordinate, è passata alla difesa fortificata della linea del fronte contro la quale si è esaurita la velleitaria controffensiva ucraina.

La prospettiva di una guerra lunga, già anticipata da Mosca sul piano politico e industriale, si è consolidata con la mobilitazione di altre forze e la preparazione del prossimo attacco per la conquista della sponda orientale del Dniepr. Senza aiuti esterni o solo con aiuti poco più che simbolici, l’ucraina non riuscirà né a reagire e neppure a resistere. La denazificazione che la Russia impone come presupposto per la conclusione del conflitto non è indirizzata all’ucraina ma alla sua attuale dirigenza. Lo sa bene il presidente Zelensky e per questo il suo attivismo quasi isterico nei confronti degli Usa e degli altri sponsor occidentali è di fatto l’ammissione esplicita della sua disperazione. Eppure chiede senza concedere nulla, agitando la minaccia globale russa e rivendicando per sé il ruolo di salvatore dell’occidente liberale e democratico.

Un Occidente che (forse) tale era prima della sua avventura e che ora non lo è più. Una minaccia che solo la propaganda più becera può considerare realistica. Zelensky continua a chiedere senza mostrare gratitudine per quanto finora ha ricevuto (grave peccato per un vassallo) anche se effettivamente ha veramente poco di cui ringraziare. Gli americani dicono che gli ucraini hanno voluto fare di testa loro e per questo hanno fallito nella controffensiva. Hanno creato un falso mito d’invincibilità attribuendo agli ucraini tutte le operazioni di sabotaggio, la distruzione dei gasdotti, delle dighe e delle navi russe come se armi, istruzioni, personale e informazioni necessarie a tali operazioni venissero dal Padreterno. In realtà mentre sul terreno la guerra è destinata a durare a lungo e a logorare l’ucraina già provata molto di più di quanto non logori la Russia, Zelensky comincia a vedere i grandi meriti a lui attribuiti come l’inizio dello scarico di responsabilità dei fallimenti. Probabilmente vede avvicinarsi il giorno in cui da eroe e celebrato beniamino di tutte le donne della politica occidentale passerà dagli sbaciucchiamenti alla freddezza e all’isolamento per finire alla criminalizzazione come terrorista di Stato. Su di lui incombono infatti le prospettive di addebito di tutti i crimini di guerra commessi in Ucraina anche dai suoi avversari. E qui se poco hanno da dire i suoi alleati che lo hanno incitato alla corruzione e all’autodistruzione, più che sostenuto, molto da dire ha il popolo ucraino, con i suoi morti, i profughi, le distruzioni, tre generazioni perdute – dai giovani mandati al macello ai settantenni reclutati per il suicidio collettivo – e poche speranze di autonomia e ricostruzione. Zelensky sa bene di correre questo rischio e sa che basta una semplice flessione della volontà americana di proseguire nella fornitura di armi e mezzi per causare il disimpegno della Nato e dell’Europa. E allora saranno gli ucraini, gli americani e gli europei a chiedere conto dei miliardi di dollari finiti nelle tasche dei loro capi, delle loro avventure politiche e sventure militari, dell’ostinata presunzione di rifiutare ogni dialogo e onorevole compromesso e della criminale arroganza di non porre alcun limite alla guerra e al sacrificio di tutti. “Whatever it takes” di buona memoria.

Mentre Zelensky, in piena crisi di credibilità per una guerra che non può vincere, agita lo spauracchio della Russia per ottenere altri soldi, gli Stati Uniti stanno consumando il residuo della propria credibilità sostenendo Israele in una operazione militare che non può perdere. A Gaza si combatte, ma non è una guerra. Sarebbe stata guerra se Hamas fosse stato riconosciuto come nemico legittimo e la sua brutale azione fosse stata ritenuta un raid militare, un colpo di mano o un attacco preventivo. I responsabili diretti delle nefandezze sarebbero stati criminali di guerra e trattati di conseguenza. Sarebbe stata un’insurrezione armata, anch’essa prevista e regolata dal diritto internazionale, se Israele avesse riconosciuto, come ha fatto l’Onu, il suo stato di potenza occupante della Striscia. Ma non è così; gli Usa, Israele e i loro clienti e amici hanno scelto di considerare Hamas un’organizzazione terroristica e la popolazione di Gaza colpevole in toto. Quindi l’operazione delle cosiddette forze di difesa israeliane è una rappresaglia, una punizione indiscriminata, sproporzionata contro un’intera popolazione, un massacro deliberato, una persistente violazione del diritto internazionale e un crimine contro l’umanità come non se ne vedevano da decenni. L’equivalente rappresaglia contro un attacco terroristico condotta dagli Stati Uniti contro al Qaeda in Afghanistan si è risolta con il ritiro americano incondizionato dopo vent’anni di occupazione militare. Al Qaeda e i suoi successori sono ancora presenti in mezzo mondo come ideologia e militanza. In questo caso è Israele a non conoscere limiti ed è evidente che le cautele verbali del presidente Biden nel sostegno a Netanyahu, smentite puntualmente dai fatti e dall’alimentazione delle forze israeliane, non riguarda il rispetto del diritto o delle vittime innocenti, ma il tempo di esecuzione del massacro. Occorre che sia completato prima che la vicenda interferisca direttamente con la campagna elettorale statunitense che avrà il suo culmine la prossima estate prima delle elezioni del novembre successivo. Circa sei mesi, quindi. Tuttavia l’obiettivo che Israele si è posto con la completa eliminazione di Hamas e la distruzione delle strutture di Gaza “whatever it takes” non può essere raggiunto nei tempi necessari all’attuale presidenza Usa. Hamas sarà eliminato da Gaza, ma già ora tra i combattenti compaiono palestinesi e non palestinesi che non appartengono ad Hamas. Di questo passo tra 6 mesi la mobilitazione islamica potrebbe essere consistente, le vittime sarebbero 50 mila di cui 30 mila donne e bambini.

La minaccia russa evocata da Zelensky ha probabilità zero di avverarsi mentre quella di un conflitto mediorientale e mediterraneo con Israele e gli Stati Uniti al centro è vicina alla certezza. Nel conflitto in Ucraina, la Russia si è astenuta dall’impiego di bombardamenti incendiari e nucleari tattici sulla popolazione nonostante ne possedesse i mezzi. A Gaza, tali bombardamenti israeliani sono all’ordine del minuto e la minaccia nucleare è incombente proprio perché Israele non riconosce alcun limite neppure se imposto dagli Stati Uniti o dal diritto internazionale. L’esperienza irachena, quella libica, quella siriana e quella afghana avrebbero dovuto insegnare a Usa e loro alleati occidentali che non tutto si può risolvere con le armi e che occorre porre limiti alla guerra prima che sia perduta o che la vittoria delle armi si traduca in una sconfitta politica e di civiltà. Ucraina e Gaza dicono che non è stato imparato nulla, e dei relativi conflitti siamo tutti responsabili.


Da il fatto quotidiano 16 dicembre 2023

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