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eticaeconomia

Federico Caffè: una donna, alunna, economista lo ricorda

di Grazia Ietto Gillies

Il 6 gennaio Federico Caffè avrebbe compiuto 110 anni. Grazia Ietto Gillies estrae dalla sua memoria preziosi e toccanti ricordi del suo rapporto, prima come studentessa poi come collega, con Caffè. Quei ricordi sono preziosi anche perché finora Caffè è stato ricordato quasi esclusivamente da uomini per la semplice ragione che ebbe pochissime donne come allieve o colleghe, al punto da ipotizzare sue difficoltà nei rapporti con loro e scarsa fiducia nelle loro capacità di fare ricerca. I ricordi di Ietto Gillies ci raccontano una storia molto diversa.

* * * *

Il libro di Daniele Archibugi (Maestro delle Mie Brame, 2022) ha portato a galla aspetti poco noti della vita di Federico Caffè il grande economista, maestro e accademico scomparso senza lasciar traccia nella notte del 14-15 aprile 1987. L’autore ci parla in modo toccante del rapporto padre-figlio tra un uomo piccolo di corpo e grande di intelletto, cuore e sensibilità e un ragazzo spilungone, ribelle, alla ricerca di stimoli e risposte nonché di una figura paterna che gli facesse da guida morale e intellettuale. Le pagine del rapporto a tu per tu dei due sono molto belle e danno una visione nuova del maestro ai moltissimi che lo hanno avuto come insegnante.

Nel libro traspare anche l’affetto delle migliaia di persone che lo avevano conosciuto e il desiderio che fosse ritrovato e in buona salute. Esso portò alcuni a ‘vederlo’ in giro per Roma. Archibugi riporta che la signora Tarantelli – madre di quell’Ezio assassinato dalle Brigate Rosse e che io avevo conosciuto al Massachusetts Institute of Technology (MIT) come giovane simpatico, scanzonato e appassionato di economia – lo ‘vide’ su un autobus romano. Una delle teorie che circolava sulla sua scomparsa era che fosse stato trafugato in paesi nordici da amorevoli discepoli che volevano dargli, negli anni del pensionamento, una vita meno deprimente di quella che aveva a Roma. Io vivevo in un Paese del nord e in una città in cui lui aveva studiato da giovane: Londra. Spesso pensavo che lui era proprio lì, non lontano da me e che se lo avessi visto lo avrei avvicinato e convinto a venire a casa con me. Lo avrei presentato a Donald e Marco, gli avrei preparato un buon pasto calabrese, e poi avrei avvisato uno degli amici miei romani – e suoi discepoli – perché venisse a prenderlo. Ne conoscevo diversi dalle panche universitarie e uno fin dai banchi di scuola. Un giorno, dall’autobus rosso che mi portava da Dulwich a Elephant and Castle, lo ‘vidi’ a Camberwell Green accovacciato come un barbone contro il muro dell’agenzia della National Westminster Bank, ormai chiusa da anni. Scesi alla fermata successiva e feci in fretta il cammino a ritroso ma ovviamente…non c’era.

Forte del suo amore filiale per Federico, Archibugi osa affrontare anche un altro aspetto della persona Caffè: il suo rapporto difficile con le donne. In una frase generosamente lusinghiera mi chiama in causa e questo è stato uno degli stimoli per il presente scritto. Non può non colpire che nei decenni dalla sua scomparsa, gli scritti e i contributi orali per Caffè sono stati quasi interamente al maschile a parte quello di sua nipote la psicologa Giovanna Leone. Questo riflette la sua realtà: i suoi discepoli avviati alla carriera accademica, erano tutti maschi. Perché? Archibugi parla anche di giovani donne quasi traumatizzate dall’essere state trattate in modo ostile dal grande maestro. Ho saputo che qualcuno ha usato l’aggettivo ‘misogino’ con riferimento a Federico Caffè. Il dizionario Devoto-Oli definisce una persona misogina come: “Sofferente di repulsione o di avversione nei confronti delle donne”. Si applica tale definizione a Caffè?

Nell’anno accademico 1961-62 settimanalmente salivo con fatica le scale fino all’ultimo piano della palazzina di Piazza Borghese, dove era allora la Facoltà di Economia e Commercio, insieme a mia sorella Angela, mia compagna di studi sin dalle scuole medie. Lei portava su libri e borse per alleggerire il peso al mio cuore difettoso dalla nascita e ben rappezzato – una decina di anni dopo queste faticose ascese – in un ospedale di Londra. Arrivavamo in anticipo per poterci assicurare posti nelle prime file di quell’assolata aula rettangolare. Si riempiva presto e molti studenti erano costretti ad ascoltarlo in piedi malgrado l’aula fosse abbastanza grande per un corso dell’ultimo anno. Tutti volevano sentirlo. Quando iniziava a parlare non volava una mosca e si sentiva solo lo sfrigolio delle biro sui quaderni. Nel ricordare ciò mi torna anche in mente una situazione ben diversa: una lezione di una materia di tecnica aziendale in un’aula anfiteatro del secondo piano. Un giovane assistente arrogante e borioso – e con fama di bocciatura facile e arbitraria – arriva in ritardo a sostituire all’ultimo momento il professore occupato altrove. Viene accolto con rumore di piedi che strisciano sotto i banchi. Altri, molti altri si aggiungono a poco a poco alla cacofonia finché il rumore diventa insopportabile. A quel punto l’insegnante chiede scusa per il ritardo e la lezione inizia.

Non ricordo una sola lezione in cui Caffè fu assente o arrivò in ritardo. Ci parlava di possibilità mai sentite o considerate prima: come limitare la disoccupazione; come costruire una società del benessere; come ridurre le disuguaglianze. Nelle sue lezioni usava argomenti sia teorici che applicati. Ci presentava gli interventi di politica economica come parte essenziale invero – mi sembrava allora – come la ragione di essere dell’economia politica. Un giorno ci disse che non era opportuno essere fieri di una bilancia dei pagamenti in positivo quando il Paese contava ancora tanti disoccupati e tanta povertà. Non capii la connessione e continuavo a pensarci. Ero affascinata da quello che ci diceva e, malgrado ciò, non chiesi a lui la tesi. La chiesi a Bruno de Finetti nei cui tre esami avevo avuto la lode. Caffè mi diede il 30 senza la lode quindi mi ritenevo meno brava nella sua materia.

Allora chi si laureava bene poteva scegliere tra diverse offerte di lavoro; ora i nostri altrettanti bravi e studiosi neo-laureati e con dottorato di ricerca possono forse solo scegliere il Paese estero in cui emigrare. Mi viene, in questo contesto, in mente una frase di Caffè che lui attribuisce a “una altissima autorità morale” secondo cui “la patria è là dove è possibile trovare lavoro” (il manifesto, 21 genn. 1981).

Io scelsi di lavorare all’ISCO (Istituto per lo Studio della Congiuntura) in un progetto allora pioneristico di applicazione di tecniche econometriche nelle previsioni. Il mio interesse per l’economia e la ricerca economica cresceva giornalmente. Incontrai gente che lavorava all’università e, a poco a poco, mi venne l’idea che forse anch’io avrei potuto aspirare a entrare nell’ambiente universitario. Pensavo a una carriera in economia politica. Avevo un ottimo rapporto con Bruno de Finetti, ma la ricerca in matematica non mi attirava se non come ausilio nei problemi economici. Avevo rivisto Caffè a un corso post-universitario in economia politica e pensai di rivolgermi a lui. Questo corso fu, credo, il primo tentativo di istruzione post-laurea in economia. Purtroppo rimase unico per molti anni. Era stato impostato male e mancava di coerenza e chiarità sugli scopi finali malgrado la presenza di ben noti nomi tra i docenti da Federico Caffè a Bruno de Finetti a Paolo Sylos Labini a Ugo Papi coadiuvate dai giovani Antonio Pedone, Franco Romani e Fausto Vicarelli.

Ero timidissima e insicura e, quando andai a parlargli, dubito di essermi espressa con chiarezza. Ma credo che lui capì a cosa aspiravo, entrare a far parte del suo istituto. Fu gentile ma non disse né si, né no. Me ne andai più insicura di come ero entrata e convinta che non mi volesse nel suo istituto. Negli anni successivi ebbi occasione di pensare che aveva forse una certa stima per me. Gli portai un primo lavoretto chiedendogli commenti per migliorarlo e me li diede a breve tempo. Mi disse che lo trovava ‘esoterico’ – parola che mi sembrò strana e consultai il dizionario per esserne doppiamente sicura – ma mi incoraggiò a pubblicarlo (Ietto, Giornale degli Economisti e Annali di Economia, sett-ott. 1966). Tre anni dopo mi avrebbe assegnato una delle Borse di Ricerca Einaudi. Sono andata a riguardare quel lavoretto dopo quasi 57 anni. Invero ora mi pare un lavoro esoterico con il suo misto di probabilità ed economia teorica. La prima senz’altro risente dell’effetto e influenza De Finetti sulle mie idee e approcci di allora. Non ho più ripreso quegli argomenti anche se continuo a pensare che l’incertezza dovrebbe essere tenuta più in evidenza nelle teorie economiche qualunque ne sia l’approccio ideologico.

Molto successe nella mia vita negli anni a venire e nel 1979 gli inviai l’estratto di un dibattito (Ietto Gillies, British Review of Economic Issues, May 1978) che avevo avuto con due economisti britannici – Robert Bacon e Walter Eltis – sulla questione dei problemi economici della Gran Bretagna: erano dovuti ad eccesso di intervento e spesa pubblica che spiazzava quella privata come essi sostenevano? Caffè mi rispose con una lettera gentile e incoraggiante e non molto dopo mi fece avere copia di un suo articolo (Note Economiche, n.6, 1979) in cui citava generosamente il mio lavoro.

Nella lettera a me, rifacendosi al mio accenno alla prossima pubblicazione in italiano del mio dibattito con Bacon ed Eltis (Studi Economici, 7, 1979), scrive le seguenti righe da cui traspare sia la sua posizione verso le teorie dei due autori britannici sia il suo interesse per la letteratura di cui ci anche parla Archibugi:

‘Speriamo che la traduzione italiana valga a smontare gli entusiasmi che le idee dei predetti [Bacon ed Eltis] hanno suscitato anche in Italia e persino in questa Facoltà. Vale sempre, nel nostro paese, il sarcastico rilievo di Trilussa: “Viva la gatta isterica/che viene dall’America” (o dintorni).’

Perché dico tutto questo? Perché sono segni che Caffè non riteneva le donne incapaci di svolgere attività accademica; al contrario ha incoraggiato il mio lavoro. In altro contesto e per persona ben più meritevole, val la pena di ricordare che Caffè scrisse bellissime righe sul contributo di Joan Robinson al pensiero economico in occasione della morte della grande economista britannica. Inizia con il parlare della “…profonda malinconia, dell’amarezza e della sensazione della perdita di una guida intellettuale insostituibile,…” (1983).

Non sono parole e atteggiamenti di persona ‘sofferente di avversione’ verso le donne. Credo, invece, che vedesse il contributo delle economiste come uno sviluppo positivo. Forse, poco abituato come era a frequentare donne al di fuori della sua sfera famigliare, non sapeva bene come trattarci e, a volte, reagiva in modo inaspettato. Ma non credo che fosse misogino, non credo proprio che avesse ‘repulsione’ verso di noi.

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AlsOb
Tuesday, 16 January 2024 21:01
Bella e intelligente narrazione, che con fascino e sofisticatezza si mantiene in equilibrio tra due registri, il memorico sentimentale e l’analitico razionale.
In modo sintetico e sottile esibisce due concetti fondamentali appartenenti alla riflessione dell’economia politica italiana dell’epoca, incertezza e rapporto tra crescita del reddito e struttura delle partite correnti.
Poi tutto ciò è scomparso nell’oblio, surrogato dal rumore della moda delle gatte isteriche e pseudometafisiche provenienti dall’america e interpretate dalle (devastanti) mezzecalzette del sinistro internazionalismo terzomondista.
La sparizione nel nulla di Caffè, (ma si possono aggiungere lo strano incidente di Vicarelli e l’assassinio di Tarantelli), ha l’emblematico valore storico e simbolico di chiudere una stagione della riflessione economica italiana, per aprire definitivamente alla pseudometafisica e al neoliberalismo fascista.
Sicuramente deve avere ragione Grazia letto Gillies nello scrivere, “Ma non credo che fosse misogino, non credo proprio che avesse ‘repulsione’ verso di noi.”.
Se Caffè nutrì specifici sentimenti nei confronti di una specifica donna (la grande Joan Robinson, quella del ““What I mean is that I have Marx in my bones and you have him in your mouth”, uno dei pochissimi cervelli dalla possibilità di avvicinarsi ai piani di Marx), fu di soggezione e amore assoluti.
Infatti era intellettualmente inferiore alla Joan Robinson, ma in compensazione, con spirito di devozione, passione e metodico atteggiamento seppe farsi fedele interprete e testimone dei suoi concetti, sulla cui base sviluppò in modo chiaro, istruttivo, logico la sua visione economica e insegnamento.
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