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lafionda

La censura sui social

di Giusi Di Cristina

Si sa che nelle democrazie la libertà d’espressione è una cifra fondamentale, uno di quegli elementi che ci assicura di vivere nel posto giusto, ove mai qualcuno potrebbe proibirci di dire o scrivere la nostra opinione.

Certo. Fin quando non si instaura una intellighenzia superiore, una sovrastruttura potremmo dire, che decide cosa si può o non si può dire, scrivere, condividere sui social per non turbare talune indefinite “sensibilità”. Tutto questo è particolarmente evidente nelle piazze dei social, mascherate da luoghi di libera parola ma sottoposti alla scure del padrone che detta le regole di ciò che è postabile e ciò che non lo è. Utenti hanno visto restrizioni alla condivisione di opere d’arte con nudi, per non parlare della guerra alle immagini sull’allattamento: un corto circuito culturale per cui l’algoritmo non riconosceva l’arte o un atto assolutamente naturale.

Negli ultimissimi anni però si è passati da un algoritmo che non comprendendo l’arte punisce glutei e seni a un algoritmo che al contrario capisce benissimo cosa e chi punire dietro alla scusa di difendere il pubblico da post che diffonderebbero contenuti violenti o falsi. Vengono tolti post e bloccati utenti e profili senza la possibilità di un contraddittorio.

Non mi era mai successo di vedere il mio profilo bloccato: pur avendo sempre scritto e pubblicato post su varie questioni politiche, quasi sempre dalla parte opposta rispetto a chi ha detenuto il potere a livello nazionale ed europeo, non ero mai stata zittita. Invece ieri inizio ad avere problemi con la piattaforma Instagram e dopo alcuni tentativi quell’ “impossibile caricare il feed” si è trasformato nel “hai condiviso contenuti inappropriati”. Vado a vedere e il post incriminato è un post condiviso da La Fionda, rivista con cui collaboro, che mostrava il video dei pestaggi da parte della polizia agli studenti liceali di Pisa. Avevo semplicemente postato il video, rimandando il contenuto alla rivista, non avevo aggiunto neppure una virgola eppure la sola condivisione mi è valsa un blocco che non mi permette di usare il mio profilo.

Ora le questioni sono essenzialmente due: la prima è che lo stesso video è stato postato migliaia di volte da singoli utenti, associazioni e persino politici dunque mi chiedo perché bloccare me. Come funziona l’algoritmo? Pesca al bussolotto la persona da punire? Non essendo io una specialista dei social e non amandoli particolarmente non ho così tanti followers da poter influenzare: qual è la logica? E se sono stata ripresa perché bloccare anche il profilo?

La seconda questione: il messaggio mandatomi da Instagram è che il contenuto da me condiviso avrebbe potuto “incoraggiare la violenza e portare al rischio di violenza fisica o a una minaccia diretta per la sicurezza”. Dunque: condividi un video per denunciare la violenza e sei tu a fomentare la violenza.

Bisogna dirsi le cose chiaramente, per come stanno: in un sistema come quello attuale l’interesse di chi dirige i mezzi di comunicazione deve essere per forza quello di tentare di guidare chi li usa verso ciò che è maggiormente desiderabile per il mantenimento dello status quo. Succede in Italia, così come dappertutto. Se abbiamo una minima pratica di piazze e manifestazioni sappiamo che i manganelli in Italia non appaiono di certo oggi col governo di Meloni e Salvini, ma che è una pratica ben sperimentata trasversalmente dai vari governi che si sono succeduti negli anni.

Forse le domande che davvero ci si dovrebbe porre sono: vale la pena indignarsi dinnanzi alla violenza della polizia, che altro non è che l’esecuzione di ordini governativi? Come sarebbe corretto rispondere a tale violenza per ottenere un reale cambiamento, una reale risposta? E ancora, se i social sono l’altro braccio (quello non armato) della legge che picchia, come ci si deve relazionare con gli stessi?

La piena vittoria del neoliberismo ha significato non solo l’imposizione di un diktat economico ma la sottomissione a un sistema culturale determinato dall’egemonia economica neoliberale e questo vale più di difendere personaggi in altri contesti ritenuti indifendibili.

Si pensi alla questione all’attenzione di questo post: una manifestazione contro il genocidio in Palestina repressa dai manganelli della nostra polizia a sua volta difesa dal ministro Salvini. Il Salvini osteggiato dal sistema in quanto ritenuto troppo di destra e filoputiniano verrà difeso dal sistema (o al massimo leggermente ripreso) perché, nel caso specifico, il ministro difende Israele e reprime chiunque manifesti contro Israele.

Il sistema non ha etica né morale, ha il solo obiettivo di difendere i propri interessi, in primis economici. Tutto il resto – politica, cultura, istituzioni – vengono dopo e solo per assolvere all’obiettivo primario.

Una convergenza di intenti, si direbbe, che su alcune prospettive non trova differenze tra von der Leyen e Salvini, al di là dei proclami, perché il sistema sostenta entrambi ed entrambi per esistere politicamente sostengono il medesimo sistema.

Solo partendo dalla consapevolezza che chi usa i social per diffondere opinioni contrarie ai padroni del sistema li può usare solo a mezzo informativo, si potrà ritornare nelle piazze e costituire delle isole di pensiero e azione che non dipendano da un post, che non abbiano paura dei manganelli e che sappiano ricostruire una reale alternativa.

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