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Da termometro a valutazione individuale: la resistibile ascesa dei test INVALSI

Redazione ROARS

Un vecchio adagio recitava che i test INVALSI servissero per migliorare il sistema di istruzione, che fossero anonimi e che non valutassero né il singolo studente, né l’insegnante. Si trattava di un semplice termometro: uno strumento che segnalava i punti di forza e i punti di debolezza della scuola italiana. Non bisognava demonizzare un termometro: ogni strumento, si sa, non è né buono né cattivo in sé. Dipende dall’uso che se ne fa. Questo racconto non ci aveva mai convinto. Origini e scopi dei test erano stati ben delineati dal trio Checchi-Ichino-Vittadini nel 2008 in un documento per l’allora ministra Gelmini: i test sarebbero dovuti progressivamente diventare lo strumento di regolazione dell’insegnamento e della popolazione studentesca. Da termometro di stato a certificazione algoritmica individuale, è stato un attimo. Una prevedibile e resistibile ascesa, quella dei test Invalsi: realizzatasi con sostegno politico e mediatico trasversale e irriducibile, nell’assenza di voci critiche radicali. Bene constatare che oggi, quando i buoi sono scappati dalle stalle, si levino petizioni e preoccupazioni diffuse. Noi sosterremo queste posizioni, benché tardive, perché continuiamo a credere che ogni costruzione umana e ogni fede, perfino quella nei test Invalsi, siano in realtà fatti profondamente politici, e quindi modificabili.

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Un vecchio adagio recitava che i test INVALSI servissero per migliorare il sistema di istruzione, che fossero anonimi e che non valutassero né il singolo studente, né l’insegnante. Si trattava di un termometro, un semplice termometro: uno strumento che segnalava i punti di forza e i punti di debolezza della scuola italiana. Non bisognava demonizzare un termometro: ogni strumento, si sa, non è né buono né cattivo in sé. Dipende dall’uso che se ne fa.

Questo racconto non ci aveva mai convinto. Le origini del sistema di misurazione degli apprendimenti erano state ben tracciate da Daniele Checchi, Andrea Ichino e Giorgio Vittadini nel 2008: i test nascevano per diventare progressivamente uno strumento di controllo e gestione dell’insegnamento, e di regolazione della popolazione scolastica. Tutto sarebbe venuto col tempo e senza fretta. Lo avevamo ricordato anche qui.

Nel 2016 arrivò infatti la misura valore aggiunto delle scuole, nel 2017 le prove divennero computerizzate; poi fu la volta delle certificazioni individuali delle competenze, a firma del direttore generale INVALSI: una vera e propria seconda pagella con tanto di “voto” da 1 a 5 (livello) in matematica, italiano e inglese.

Sebbene la metafora del termometro buono cominciasse a scricchiolare, il volontarismo progressista, misto ad un’ingenua fiducia nei dati che danno senso e correggono il mondo, continuava a ritenere lo strumento perfettibile. D’altra parte, l’indotto che nel tempo si andava consolidando attorno ai test – ricercatori e studiosi di varie aree disciplinari, fondazioni, enti e aziende private – proliferava, intrecciandosi sempre più alle attività istituzionali di scuole e università.

Il cambio di passo non si fece attendere: l’immagine dello strumento (termometro, fotografia o analisi del sangue) fu progressivamente accompagnata dalla nuova retorica delle disuguaglianze, dei divari e dell’equità.

Dati per tutti per non lasciare indietro nessuno” fu lo slogan che nel 2019 inaugurò la messa in circolazione di una nuova parola d’ordine, la dispersione implicita, e di una nuova postura comunicativa: la valutazione compassionevole. Solo i test Invalsi censuari avrebbero potuto segnalare gli studenti “dispersi impliciti” (citazione testuale), ovvero coloro che fallendo nei test avrebbero rappresentato una nuova piaga sociale. Una categoria di giovani da sorvegliare, anno dopo anno, regione per regione: bambini e adolescenti destinati ad “una vita adulta con competenze totalmente insufficienti per agire autonomamente” (citazione ancora testuale).

Nel 2020 arrivò la pandemia, e i test furono sospesi, ma durò poco. La macchina dell’informazione pubblica produsse prontamente lo spettro del learning loss e della perdita di apprendimenti da quantificare.

Con il PNRR, arriviamo all’oggi. E la posta in gioco dei test continua ad alzarsi.

Da un lato, essi acquisiscono valore predittivo, diventando indicatori di fragilità individuale capaci di “individuare precocemente” disagi e insuccessi scolastici e indirizzare risorse vincolate ad attività di recupero differenziate.

Contemporaneamente, un decreto legge (nr 19, 2 Marzo 2024) prevede che i risultati entrino nel curriculum digitale di ogni singolo alunno, accessibile tramite la piattaforma ministeriale Unica.

Da termometro di stato a certificazione algoritmica individuale, è stato un attimo. Un percorso politico scorrevole e trasversale, favorito da un sostegno mediatico compatto e irriducibile, nell’assenza di voci critiche radicali.

Bene constatare che oggi, quando i buoi sono scappati dalle stalle, si levino petizioni e preoccupazioni diffuse. Noi sosterremo queste posizioni, benché tardive e parziali, perché crediamo sempre che ogni costruzione umana e ogni fede, persino quella nei test Invalsi, siano in realtà profondamente politiche, e quindi modificabili.

Nel frattempo, attendiamo la pronuncia del Garante della Privacy e invitiamo i primi 500 mila fortunati studenti (e rispettive famiglie) che si troveranno nel curriculum misteriosi punteggi Invalsi a fare richiesta formale di accesso e spiegazione dell’esito che gli verrà automaticamente attribuito.

Dinanzi a un esercizio di potere opaco che etichetta con un giudizio imperscrutabile, possiamo ancora invocare il Diritto.

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