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La Terza guerra mondiale e il fondamentalismo islamico, di Domenico Moro

Consigli (o sconsigli) per gli acquisti

di Militant

Ormai da quasi un anno è disponibile in libreria l’ultima fatica di Domenico Moro, un autore (e compagno) che apprezziamo particolarmente per la semplicità con cui associa al rigore analitico marxista un’attitudine alla divulgazione fuori dalla norma. Prova ne è il capitolo che l’Autore dedica all’analisi materialistica dei fenomeni migratori, poche pagine che però andrebbero lette e imparate a memoria anche da quei (troppi) compagni che nell’affrontare la questione non riescono quasi mai ad emanciparsi da un approccio esclusivamente caritatevole.

La terza guerra mondiale e il fondamentalismo islamico, questo il titolo del libro edito dai tipi della Imprimatur, mette a fuoco fin dalle prime pagine la stretta correlazione tra la diffusione del radicalismo islamico e il processo di destabilizzazione dell’area mediorientale e nordafricana operato dalle potenze dominanti e più in generale della tendenza alla guerra che caratterizza la nuova fase imperialista. Moro ricorda ai lettori meno attenti come anche l’Italia, al tempo, non abbia disdegnato finanziare ed addestrare le milizie islamiste di Akbar Maghreb per sostituire il presidente Bourghiba con il generale ed ex capo dei servizi segreti Ben Alì, sottraendo così la Tunisia all’influenza francese. Di esempi del genere se ne potrebbero fare decine e nel libro l’autore ne passa in rassegna diversi, dimostrando con i fatti l’ipocrisia di fondo che anima di chi oggi vorrebbe porsi alla testa della guerra al terrore.

Del resto, come sottolinea lo studioso di geopolitica delle religioni Manlio Graziano, uno dei paradossi della storia recente è che il jihad di maggior successo del XX secolo sia stato proclamato da un cattolico americano di origine polacca. Nel gennaio del 1980, fu infatti il consigliere per la sicurezza di Jimmy Carter, Zbigniew Brzezinski, arrivato al passo Khyber, tra Afghanistan e Pakistan, a sancire di fronte ad un piccolo gruppo di mujaheddin il carattere sacro della guerra contro i sovietici: la vostra causa è giusta e Dio è dalla vostra parte. Interrogato anni dopo sulle conseguenze del sostegno statunitense a quella che oggi viene indicata come la prima generazione jihadista Brzezinski rispose candidamente: che cos’è più importante rispetto alla storia del mondo? I talebani o la caduta dell’impero sovietico? Un pugno di esaltati islamisti o la liberazione dell’Europa centrale e la fine della guerra fredda?

L’Autore però si guarda bene dal sostenere che il radicalismo islamico o lo jihadismo siano stati creati in laboratorio dai servizi segreti occidentali, una tesi, quella del complotto imperialista, che invece ha trovato non pochi proseliti anche a sinistra. Probabilmente perché permette di non fare i conti con il peso dei propri limiti e delle proprie sconfitte. Al contrario, al netto delle ingerenze straniere, sostiene Moro, alla base di questi fenomeni c’è invece un insieme complesso di fattori sociali, economici, culturali e politici interni e internazionali che va indagato a fondo. E proprio all’analisi del processo di desecolarizzazione della società e al ritorno prepotente della religione nella sfera pubblica l’Autore dedica alcune delle pagine più dense del suo saggio. Quale sono state le ragioni di questo “ritorno del sacro”? E e perché questo ritorno alla religione si presenta spesso sotto la forma del fondamentalismo? Moro prova ad articolare alcune risposte tornando al giovane Marx e alla critica al materialismo meccanicistico che caratterizzò i suoi primi scritti. Ma l’uomo, scriveva Marx, non è un’entità astratta posta al di fuori del mondo. L’uomo è il mondo dell’uomo, lo Stato, la società. Questo Stato, questa società producono la religione, una coscienza capovolta del mondo, perché essi sono il mondo capovolto. Se è così, suggerisce l’Autore, allora i processi di desecolarizzazione non possono che essere letti alla luce delle trasformazioni imposte dalla vittoria del neoliberismo, e non è dunque un caso che questo fenomeno prenda avvio a metà degli anni Settanta, con l’esaurimento del ciclo fordista-keynesiano e con la crisi irreversibile del welfare state che gli aveva fatto da impalcatura istituzionale. Nel momento in cui si incrina il rapporto tra masse e politica e queste vengono ridotte ad una condizione di passività, viene dunque ricostituito un terreno favorevole alla religione che torna ad essere, sempre per dirla con Marx “l’espressione della miseria materiale e la protesta contro la miseria materiale”. Un fenomeno che ha coinvolti tanto i paesi del centro quanto quelli della periferia, e che in questi ultimi è stato accelerato dai processi massicci di esodo rurale e di urbanizzazione, dalla svolta neoliberista abbracciata negli anni 80-90 e dal fallimento delle ideologia del nazionalismo laico e da quello degli Stati che erano fuoriusciti dal processo di decolonizzazione e che erano stati costruiti ricalcando il modello occidentale. In questo quadro, sostiene Moro, la religione, specie quella musulmana, è diventata sia il mezzo di difesa del legame con le proprie tradizioni per milioni di contadini sradicati dalle certezze della vita precedente, sia una risposta concreta alla miseria in cui erano stati scaraventati gli stessi, attraverso il welfare religioso, e una risposta spirituale alla crisi delle ideologie nazionaliste.

In questo contesto la forma predominante che assume il ritorno alla religione non può che essere quella “fondamentalista” perché quella che meglio si adatta alla globalizzazione. A fronte di un processo di “deculturizzazione”, cioè di erosione delle specificità culturali dei singoli Paesi, imposto dal Capitale, il “fondamentalismo” si presenta come una forma di standardizzazione della religione che ne recide i legami con il contesto storico e geografico. Per poter circolare liberamente sul mercato delle ideologie l’oggetto religioso deve apparire universale e non legato a una cultura specifica. Per questa ragione le religioni più adatte a trarre beneficio dalla globalizzazione sembrerebbero essere il cristianesimo e l’islam, in quanto religioni che si sono storicamente definite come religioni universali.

Arrivati a questo punto l’Autore approfondisce ulteriormente il suo ragionamento chiarendo un concetto che viene spesso mistificato ad arte dai media mainstream: il radicalismo islamico è un movimento politico che si serve della religione. “Islamismo e islam non coincidono. Pur non ponendosi necessariamente agli antipodi, tuttavia non sono insieme equivalenti. Poiché se il secondo rinvia al pluralismo delle identità musulmane, il primo rimanda ad un progetto preciso, dove possono cambiare di volta in volta gli attori, ma il fuoco dell’azione è dato comunemente dal problema della conquista e del controllo del potere.” (Claudio Vercelli). Ribaltando quell’equazione che faceva della religione un instrumento regnis potremmo dunque dire, seguendo le riflessioni dell’Autore, che in questo caso è la politica ad essere instrumento religionis.

Nell’ultimo capitolo Moro incastona questo ragionamento nel contesto della nuova fase imperialista caratterizzata dal declino relativo dei paesi centrali in rapporto all’affacciarsi di nuove potenze sul proscenio mondiale. Il fattore che in ultima istanza egli rintraccia alla radice di questa trasformazione è la stagnazione del modo di produzione capitalistico nei suoi punti più alti di sviluppo, dove si produce una tendenza al calo del saggio di profitto. Ciò conduce all’acuirsi della lotta per la conquista dei mercati di sbocco delle merci e dei capitali, per il controllo delle materie prime e dei loro prezzi, così come alla lotta per il controllo dei flussi finanziari. Si determina in questo modo un aumento della concorrenza tra aree economiche che coincidono con specifiche funzioni del capitale. Una concorrenza che non si combatte soltanto attraverso i meccanismi informali del mercato ma che si avvale della forza degli Stati e della loro capacità di intervento militare. Ed è quindi in queste frizioni che vanno cercate le cause profonde di quella tendenza alla guerra che oggi si manifesta nei diversi conflitti per procura che incendiano il pianeta. Il punto, sostiene Moro facendo leva sul pessimismo della ragione, è che le guerre attuali per quanto siano letali e distruttive per le popolazioni di molte aree mondiali, sono in grado di dare un sollievo limitato al capitale in crisi. E che soltanto una guerra dispiegata tra grandi potenze può condurre ad un incremento della spesa militari tale da poter permettere al modo di produzione capitalistico di uscire dalla crisi e di ristabilire le condizioni per la ripresa della crescita dell’accumulazione a livello mondiale mediante la distruzione su larga scala di capitale fisso e di infrastrutture. Questo ovviamente non significa, continua l’Autore, che ci troviamo alla vigilia di un conflitto planetario, le variabili in campo sono numerosissime. Tra queste però, è bene saperlo, c’è anche la guerra.


Domenico Moro, La terza guerra mondiale e il fondamentalismo islamico, Imprimatur, 14 euro

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