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Il mercato alla base della crisi irlandese

di Domenico Moro

La difficile situazione dell’eurozona, con l’estensione della crisi del debito sovrano all’Irlanda e potenzialmente a Portogallo e Spagna, è il prodotto di quattro tipi di contraddizioni, che si approfondiscono e si intrecciano tra loro.

La prima è interna ai rapporti di mercato. Il debito sovrano è figlio del modo in cui si è tentato dei risolvere la crisi del 2001, attraverso il sostegno artificiale alla domanda. Il costo del denaro, a partire dagli Usa, è stato ridotto quasi a zero, inondando di liquidità i mercati finanziari [1] e spingendo le banche a concedere mutui immobiliari con grande facilità. Il mercato e i prezzi delle case sono lievitati, creando una bolla e permettendo alle famiglie, grazie ai rifinanziamenti dei mutui, di acquistare a credito. In questo modo, si è sostenuta artificialmente la crescita dell’economia di Usa, Spagna, Portogallo e Irlanda, e indirettamente dei grandi paesi esportatori. Con lo scoppio della bolla immobiliare, che ha fatto crollare i prezzi delle case al di sotto dell’indebitamento, le famiglie sono diventate insolventi e, di conseguenza, le banche hanno accusato perdite enormi. Per scongiurare una possibile catena di fallimenti bancari è intervenuto lo Stato, il cui debito è cresciuto repentinamente.

È esattamente ciò che è avvenuto in Irlanda, dove il debito pubblico netto, nel 2007 appena il 12% del Pil (in Germania era il 50%), è schizzato in alto quando lo Stato è intervenuto a garantire obbligazioni bancarie pari al 30% del Pil.[2] Dunque, a saltare in Irlanda non è stato il pubblico, ma il privato, cioè il tanto decantato mercato. Inoltre, la liquidità concessa a bassi tassi d’interesse (1%) alle banche in crisi è stata da queste reinvestita, con grandi profitti, in titoli di stato a interessi superiori (4-5%). In questo modo, si sono ricreate le premesse di una nuova bolla, che non può reggere, perché le banche in crisi sono troppe e il debito sovrano non è più considerato un investimento sicuro.[3]

Tuttavia, il debito pubblico di Irlanda (65,5% del Pil), e Spagna (53,2%) non è ancora altissimo se confrontato con il 200% del debito giapponese e con il quasi 100% di quello Usa[4]. Perché allora l’effetto dell’aumento del debito sovrano è così devastante in Eurolandia? Perché Giappone e Usa hanno una banca centrale che può acquistare titoli direttamente dallo Stato, stampando dollari o yen, nel caso in cui i mercati rifiutino di farlo. La Bce non può farlo, potendo intervenire solo sui mercati secondari e in modo molto ridotto. E così siamo arrivati alla seconda contraddizione: l’euro è in sé una anomalia, essendo una moneta senza Stato, ovvero una unione monetaria senza unione politica. Il debito in scadenza diventa insostenibile perché non esistono né il pilastro su cui si regge la stabilità del debito sovrano, la banca centrale, né, accanto ad essa, politiche fiscali e di bilancio comuni.

C’è, poi, un altro problema. A differenza di quanto accade in Giappone (e in Italia), in Irlanda il 75% del debito sovrano e il 50% del debito delle banche sono controllati dall’estero. Fino a gennaio 2010, il debito bancario irlandese era per il 62% in mani estere: solo 38 miliardi erano in mani locali, 14 in mani europee e ben 47 in mani extraeuropee. In una situazione simile sono anche Grecia e Portogallo. Di conseguenza, è più facile che gli investitori si ritirino e che gli anelli deboli della catena euro siano presi nel mirino di azioni speculative, magari tese ad indebolire l’euro. A questo proposito, va considerato che il debito sovrano è assicurato tramite credit default swap, un massa enorme di denaro che, a livello mondiale, è per il 72% in mano delle prime cinque banche Usa, JP Morgan, Bank of America, Goldman, Morgan Stanley e Citigroup.[5]

Questo ci introduce alla terza contraddizione, quella tra dollaro e euro. Il sistema finanziario mondiale è ancora oggi dominato dagli Usa e dal dollaro. Tuttavia, gli Usa hanno il debito sovrano più grande in termini assoluti e detenuto in gran parte da stranieri, cui si aggiunge il più grande debito commerciale con l’estero. La possibilità per gli Usa di rifinanziare entrambi è legata alla attrazione di liquidità dall’estero grazie alla centralità del loro sistema finanziario e soprattutto alla loro valuta, che continua a svolgere il ruolo di moneta mondiale. Senza bisogno di scomodare alcuna teoria del complotto, è ragionevole pensare che un dollaro troppo debole metta in difficoltà tale meccanismo.[6] Infatti, a partire dallo scoppio della crisi la Cina, il maggiore prestatore Usa, si è detta intenzionata a diversificare le sue riserve valutarie, che sono principalmente in dollari, e negli ultimi mesi ha offerto liquidità proprio alla Grecia e al Portogallo. Dunque, un euro troppo forte, considerato che l’Europa è l’unica area con un sistema finanziario al livello di quello Usa, è un pericolo per gli Usa. La forza dell’euro – almeno relativamente alla debolezza Usa -, è dimostrata dalla sua capacità, nonostante le molte e gravi fragilità, di recuperare terreno dopo la crisi greca, raggiungendo, con il cambio sul dollaro a 1,40, livelli vicini a quelli precedenti alla crisi greca.[7] Si ripete così quello che è accaduto circa un anno fa, quando, nel momento in cui l’euro raggiunse il cambio contro il dollaro di 1,50, ci fu l’attacco speculativo alla Grecia e la moneta unica crollò fino a 1,19. Oggi, il rafforzamento del dollaro, inoltre, non è avvenuto solo verso l’euro, ma anche verso lo yen e lo yuan, e si è verificato in concomitanza con la riapertura di scenari di guerra in Corea e con la partecipazione della flotta Usa alle manovre congiunte nel Mar Giallo, il giardino di casa della Cina. Come sempre, la riaffermazione della supremazia miliare Usa ha avuto un benefico effetto sul dollaro come valuta rifugio.

La quarta contraddizione riguarda il ruolo della Germania e il suo rapporto con gli altri paesi dell’eurozona. In primo luogo, se la Bce ha un ruolo limitato e i singoli paesi europei non possono ricorrere alla politica monetaria ciò è dovuto alla Germania che ha posto queste condizioni per mettere in comune moneta e banca centrale. In secondo luogo, l’aumento della liquidità nei Paesi periferici dell’eurozona è stato una manna per la bilancia commerciale tedesca, che presenta il maggiore saldo positivo a livello mondiale[8]. Infatti, l’aumento della liquidità in un paese, in assenza di adeguati aumenti produttivi, va a vantaggio dell’industria dei paesi da cui importa. Inoltre, si dà il caso che, a fronte di un forte dislivello di partenza tra l’apparato industriale tedesco e quello di gran parte d’Europa, negli ultimi dieci anni la produttività della Germania sia aumentata ancora mentre i salari tedeschi diminuivano dell’1% annuo. Normalmente, in un caso del genere, l’industria degli altri paesi avrebbe potuto difendersi dall’accresciuta competitività tedesca svalutando. Con l’introduzione dell’euro questo non è stato più possibile. In questo modo, mentre le famiglie di Portogallo, Spagna, Irlanda, Grecia si indebitavano, la bilancia commerciale dei loro paesi - soprattutto nei confronti della Germania - peggiorava. Ma non basta. Il forte surplus commerciale e la relativa scarsezza dei consumi interni, dovuta alla moderazione salariale, hanno accresciuto il risparmio tedesco che si è tradotto in investimenti di capitale all’estero. Oggi, la Germania e le sue banche sono i maggiori creditori di Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna. Quindi, oltre ad aver favorito l’indebitamento e aver beneficiato dei disavanzi commerciali altrui, oggi le banche tedesche sono le maggiori interessate ai “salvataggi”, che certamente non vengono concessi gratuitamente.[9] La Germania si ritrova in una situazione contraddittoria. Da una parte, ha ridotto gran parte dell’Europa a una condizione di subalternità economica. Dall’altra, questa preponderanza la mette in condizioni di difficoltà perché deve gestire il debito e gli squilibri degli altri paesi Ue, senza averne - per sua stessa responsabilità - gli strumenti. Tutto ciò mentre a livello mondiale si accentua la conflittualità tra aree valutarie e geostrategiche e l’Europa e la Germania, che ne è il cuore, mancano di esercitare una politica autonoma adeguata al loro peso economico.

Alla fine i punti principali sono tre. Il primo è che supremazia della politica vuol dire supremazia dello Stato. Ebbene, il fatto è che, quando è nato l’euro, ci si è affidati ai privati e alla autoregolazione dei mercati, smantellando il ruolo pubblico nell’economia e procedendo a liberalizzazioni e privatizzazioni in tutti i settori, a partire dalle banche, dalle reti e dalle infrastrutture. Il secondo, conseguente al primo, è che non ci si è posti la necessità di una qualche forma di unità politica da affiancare all’unità monetaria. Infine, oggi scontiamo le conseguenze della deregolamentazione del mercato del lavoro e della creazione di nuovi posti di lavoro in forme quasi esclusivamente precarie, come avvenuto in Spagna e in Italia, e la riduzione del potere d’acquisto dei salari in tutta l’Europa Occidentale a fronte di aumenti di produttività in molti casi fortissimi. In pratica, si è accentuata la divaricazione crescente tra aumento della produzione di merci e riduzione della capacità di assorbimento delle merci stesse da parte del mercato, che è tipica del capitalismo. E si è pensato illusoriamente di risolverla con l’economia a credito e scaricando all’estero la sovrapproduzione di merci e di capitali.

Il pericolo, almeno nell’immediato, forse non è tanto la fine dell’euro: il ritorno alle valute nazionali sarebbe complicato e pesantissimo da sostenere per i Paesi periferici e per la Germania stessa. Il pericolo immediato è la devastazione sociale dovuta alle politiche sociali draconiane che vengono imposte dai centri finanziari e economici dominanti europei e mondiali. La coperta è corta, tirarla da una parte o dall’altra non serve. Per questo va cambiata con una più larga: fuori il mercato autoregolato, dentro lo Stato.

NOTE

1. La Fed Usa ha immesso nel mercato del credito solo tra il 2001 e il 2006 2 trilioni di dollari e tra il 2008 e i primi mesi del 2009 un altro trilione e mezzo per salvare le banche. Vedi Luciano Gallino, Con i soldi degli altri, Einaudi, Torino 2009, p.90.

2. Guido Tabellini, “Senza politica fiscale addio Ue”, Il Sole 24 ore, 28 novembre 2010.

3. Vedi Marco Panara, “2011, la fine dell’euro dall’Italia alla Germania uno scenario da incubo”, in Affari & Finanza di la Repubblica, 29 novembre 2010.

4. Con il debito dei singoli stati in bancarotta (California, Alabama, ecc.) è oltre il 100% e considerando la nazionalizzazione degli istituti assicurativi Freddie Mac e Freddie Mae è al 140%. Inoltre il deficit statale Usa è il 9% del Pil, mentre quello greco è l’8,5% e quello spagnolo il 9,7%. Vedi The Economist, November 27th 2010.

5. Vedi Morya Longo, “Il debito di Mr O’Sullivan in poche mani straniere”, Il Sole 24 ore, 25 novembre 2010.

6. Chi sostiene che il dollaro debole aiuta le esportazioni Usa e quindi il riequilibrio della bilancia commerciale non considera il fatto che gli Usa non sono più da tempo una potenza industriale.

7. Giovedì 4 novembre 2010, appena una ventina di giorni prima della crisi irlandese, l’euro raggiunse il cambio di 1,42 sul dollaro, il massimo da gennaio.

8. Il saldo positivo della bilancia commerciale tedesca degli ultimi 12 mesi è di 210 miliardi di dollari, quello cinese è di 186 miliardi. Vedi The Economist, November 27th 2010.

9. I salvataggi della Ue consistono in prestiti cui si applicano tassi di interesse superiori al 5%. Carlo Bastasin, Berlino-Ue matrimonio d’interesse, Il Sole 24 ore, 25 novembre 2010.


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