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Potrebbe non ripetersi? 

di Domenico Delli Gatti e Mauro Gallegati   

DECRESCITADopo Northern Rock, Bear Sterns: l’estensione e la profondità della crisi colpisce. Si può comprendere lo sforzo delle autorità di rassicurare gli operatori per non incrinare la fiducia, già vacillante, nei mercati e nelle istituzioni finanziarie. Si capisce un po’ meno lo sforzo profuso da alcuni opinionisti nel cercare di persuadere il pubblico che non c’è nulla di cui preoccuparsi e che qualsiasi forma di intervento è manifestazione di un antico vizio keynesiano. Le cose non stanno così. Potremmo anzi sostenere che tale sforzo appare sospetto e dettato da una premessa – questa sì di tipo ideologico – anti-interventista e anti-regolatoria. Per evidenziarlo partiamo da una considerazione di fondo. L’innovazione finanziaria che ha consentito alle banche – mediante la cartolarizzazione del credito – di condividere il rischio ha accresciuto l’efficienza dei mercati finanziari?

La risposta è sì, nella misura in cui il rischio di credito è stato effettivamente parcellizzato e trasferito ad una platea di investitori consapevoli. Qui ci sono tre problemi. In primo luogo, la cartolarizzazione del credito riduce l’incentivo delle banche al "monitoring" dei debitori. In secondo luogo, talvolta il rischio di credito, cacciato dalla porta, è rientrato dalla finestra per le banche o istituzioni ad esse riconducibili che hanno riacquistati titoli strutturati come "pacchetti" di mutui. In terzo luogo, in molti casi il rischio è stato nascosto agli investitori. Ciò vale non solo per i debitori di mutui sub-prime – spesso descritti come finanziariamente analfabeti – ma anche per gli operatori più sofisticati. C’è un evidente deficit d’informazione e trasparenza in molte delle operazioni e degli strumenti che sono stati utilizzati nella recente ondata d’innovazione finanziaria.

Supponiamo pure che i costi, in termini di deficit d’informazione e trasparenza, siano stati inferiori ai benefici dell’innovazione finanziaria che ha consentito il risk sharing. I mercati sono diventati più spessi e in parte più liquidi ma gli operatori sono anche diventati finanziariamente più robusti? La risposta è no. Stiamo assistendo, in realtà, alla fase acuta di un fenomeno di crescente fragilità finanziaria di importanti operatori dei mercati finanziari -- a cominciare dal mercato dei mutui ipotecari -- le cui conseguenze potrebbero essere sistemiche. Per comprendere questo fenomeno non si può prescindere dalla teoria dell’instabilità finanziaria di Hyman Minsky, un economista quasi ignorato in vita, soprattutto dai suoi colleghi accademici, ma che è sempre stato una figura influente per la business community statunitense.

Secondo Minsky, quando le condizioni monetarie sono favorevoli, quando i tassi di interesse son relativamente bassi, gli operatori si indebitano massicciamente per acquisire attività finanziarie o reali e si entra in una fase di espansione, caratterizzata dall’incremento dei prezzi degli asset. In questa fase gli agenti assumono posizioni finanziarie sempre più rischiose. Più a lungo dura l’espansione, più numerose e finanziariamente consistenti sono le posizioni rischiose che vengono assunte. L’indebitamento può divenire insostenibile nel lungo periodo, soprattutto se cambia il segno della politica monetaria – ossia i tassi di interesse cominciano a salire. Se ci si indebita per acquisire un’attività finanziaria o reale e il flusso di cassa generato dall’attività non permette di servire il debito e in prospettiva di saldarlo, l’attività verrà liquidata "under distress" provocando una caduta del valore della stessa. Quando tale processo inizia a diffondersi, la domanda di liquidità aumenta e le vendite si fanno frenetiche: il "Minsky moment" arriva. Nel caso del mercato immobiliare e del mercato del credito statunitense si è verificato proprio questo.

Quando il Minsky moment arriva, ci si devono attendere effetti domino tra operatori e paesi. Dopo le rassicurazioni, ora si paventa la possibilità di una nuova Grande Depressione: A nostro parere le 2 crisi sono solo parzialmente simili; forse sarà utile richiamare l’analisi a suo tempo proposta da Irving Fisher per evidenziare come la azioni delle autorità di politica economica potranno evitare lo scatenarsi di una grande crisi, ma non una sensibile recessione. In un articolo apparso nel 1933 Fisher, presenta una sequenza di eventi che descrive l’origine e il corso della Grande Crisi. "Supponendo che ci sia uno stato di over-indebtness, esso darà luogo ad un tentativo di liquidazione del debito su iniziativa o dei debitori o dei creditori o di entrambi" che si sviluppa in nove passi. "1. La liquidazione del debito dà luogo a distress selling e a, 2. contrazione dei prestiti e depositi che causa, 3. una diminuzione del livello dei prezzi e (assumendo che non vi siano interventi di reflazione) si verificherà, 4. un’ ulteriore diminuzione del capitale netto delle imprese con bancarotte, 5. caduta dei profitti, 6. riduzione dell’output e dell’occupazione. Tutto ciò induce, 7. pessimismo e perdita di fiducia che si traducono in, 8. tesoreggiamento e ulteriore riduzione della velocità di circolazione della moneta, fino a, 9. cambiamenti complicati nei tassi di interesse, in particolare ... un aumento del tasso di interesse reale".

Considerando le somiglianze tra le due sequenze, notiamo che anche all’origine della Grande Crisi c’è un fenomeno di eccessivo indebitamento. Nel caso della crisi dei subprime il sovra indebitamento è limitato – almeno per il momento – al settore delle famiglie e induce un tentativo di liquidazione del debito attraverso l’acquisizione dell’immobile da parte della banca (repossession) e il connesso tentativo di rivenderlo.

Anche il distress selling citato al punto (1) della sequenza di Fisher accomuna la crisi dei subprime alla Grande Depressione. Nel caso della crisi dei subprime lo smobilizzo riguarda i titoli in portafoglio dei fondi di investimento. In assenza di un intervento delle autorità si verificherebbe anche nel nostro scenario una riduzione della quantità di moneta (punto 2) parallelo alla contrazione dell’indebitamento. Le autorità, dopo la lezione di Minsky, hanno prevenuto la contrazione dei mezzi di pagamento nell’economia mediante massicce iniezioni di liquidità che di fatto salvano le banche dal fallimento a prezzo di tensioni inflazionistiche. Un anello importante del meccanismo di trasmissione della crisi – ossia la deflazione in senso stretto relativa ai prezzi di beni e servizi (punto 3) – quindi non ci sarà.

L’unica deflazione che c’è e continuerà ad esserci è quella dei prezzi delle attività finanziarie e reali, a cominciare dai prezzi degli immobili. Inoltre, non abbiamo ancora assistito ad una contrazione del patrimonio netto delle imprese (punto 4). Naturalmente poiché si può ritenere altamente probabile che l’imminente recessione coinvolga anche le imprese, è ragionevole attendersi l’aumento della fragilità finanziaria di queste nel prossimo futuro. Tuttavia, è prevedibile che essa sarà limitata perché le autorità si impegneranno per impedire un rialzo dei tassi di interesse. In altri termini le autorità sono effettivamente intervenute con misure di "reflazione", vale a dire di aumento della liquidità e sostegno della domanda aggregata e di conseguenza non ci sono state le numerose bancarotte (anche bancarie) che caratterizzarono la Grande Crisi. Tuttavia vale la pena sottolineare che le insolvenze sui mutui e le perdite su titoli in portafoglio intaccano la solidità patrimoniale delle banche. Ciò potrebbe comportare un aumento endogeno dei tassi di interesse in futuro e rischi di compressione del patrimonio netto delle imprese debitrici.

Solo dunque i primi due passi della sequenza di Fisher si sono quindi manifestati nel corso della crisi attuale. Ciò non è dovuto, tuttavia, ad una differenza strutturale della crisi attuale rispetto alla Grande Crisi, quanto piuttosto al fatto che la crisi non ha ancora compiutamente dispiegato i suoi effetti e soprattutto al fatto che l’intervento delle autorità ne limiterà comunque il raggio di azione. Se gli USA entreranno effettivamente in recessione avremo la contrazione dei profitti e dell’occupazione citati ai punti 5 e 6 della sequenza di Fisher, ma in forma attenuata dall’intervento delle autorità monetarie e fiscali. I punti 7 e 8 sembrano invece caratterizzare anche la crisi attuale.

La ragione per cui la crisi in corso potrebbe non avere conseguenze profonde sull’attività produttiva non sta nella diffusione del risk sharing internazionale ma proprio nel fatto che le banche centrali hanno imparato la lezione del passato e rimediano alla crisi della liquidità "endogena" con dosi massicce di liquidità "esogena". Il rischio di tali operazioni è ben noto: di fatto le banche centrali finiscono per fornire una garanzia di salvataggio ad operatori che volessero intraprendere attività rischiose in futuro. Si porrebbero così le basi della prossima crisi finanziaria. Ma non c’è niente che si possa fare da questo punto di vista. La distinzione tra istituzioni in crisi illiquide e insolventi che dovrebbero guidare un’allocazione selettiva del prestito di ultima istanza diventa sottilissima e di fatto inapplicabile nel bel mezzo di una crisi.

Un ripensamento della regolazione dei mercati finanziari è auspicabile. Il crinale della regolamentazione è tortuoso ma deve necessariamente essere percorso per far emergere i rischi ed accrescere la trasparenza.

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