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La stagflazione colpisce ancora. Chi?

di Roberto Tamborini   

I maggiori paesi industrializzati mostrano chiari sintomi di rallentamento dell'attività economica e di accelerazione dell'inflazione. In una parola: stagflazione. Il peggiore dei mondi possibili per le autorità di politica economica, che non si era più materializzato dopo la crisi petrolifera dei primi anni '70. La Bce ha assunto una posizione restrittiva in linea con l'impegno di ricondurre l'inflazione al 2% annuo nel medio periodo. Il Dpef presentato dal governo indica una "inflazione programmata" per i rinnovi contrattuali dell' 1,7% (ossia meno della metà di quella tendenziale).

I sindacati hanno protestato per il palese irrealismo. La Confindustria ha apprezzato il rigore salariale indicato dal Dpef. Ci sono tutte le premesse per un ritorno del clima di confusione e di conflitto che caratterizzò gli anni '70. Può giovare cercare di fare un po' di chiarezza.

Sui libri di testo di economia la stagflazione compare come esempio del peggiore dei mondi possibili. Appena essa è riapparsa dall'archivio dei bui anni '70, si è immediatamente ricreato il medesimo clima di disorientamento, d'incertezza e di conflitto, anche se accelerazione dell'inflazione e rallentamento produttivo sono, in media, molto meno intensi di allora. Le autorità monetarie sulle due sponde dell'Atlantico hanno assunto chiaramente posizioni diverse (nei fatti e, forse, persino a parole).

Negli Stati Uniti, i tassi reali a breve termine sono negativi e quelli a lungo sono zero o appena positivi, segno di una politica monetaria ancora moderatamente espansiva. Nella Unione monetaria europea, al contrario, tutta la scala dei tassi reali è positiva e probabilmente in aumento, dopo la decisione della Bce di aumentare il tasso di rifinanziamento ufficiale al 4,25%. Decisione che ribadisce l'intenzione del governatore di Francoforte di attenersi al proprio mandato dando priorità al controllo dell'inflazione. Naturalmente la publica opinione, e di conseguenza i governi dell'Unione non condividono.

Il nostro ministro dell'Economia, che possiamo annoverare tra coloro che non amano sottomettersi ai tecnocrati dell'Unione, questa volta non ha preso posizione. Anzi, apparentemente si è mosso in sintonia con Trichet, inserendo nel Dpef una "inflazione programmata" dell' 1,7%, ossia meno della metà di quella tendenziale. Come noto, tal numero dovrebbe fornire la base di riferimento per i rinnovi contrattuali dei salari monetari. Dinanzi alle vibrate proteste sindacali per il palese irrealismo, il ministro si è limitato alla consueta exit strategy: le cattive notizie sono colpa altrui, lo vuole la Bce (fornendo anche il numero di telefono). La Confindustria, per bocca della sua neo-presidente, ha apprezzato il rigore salariale indicato dal Dpef, sia per non avviare la spirale prezzi-salari, sia per ribadire il principio che gli aumenti dei salari devono essere legati alla produttività. Cerchiamo di fare un po' di chiarezza, anche memori dell'esperienza.


1. L' "inflazione programmata" indicata nel Dpef è una reliquia del passato che non ha più ragione di esistere. Fu introdotta dopo gli accordi del 1992, quando in Italia c'era la lira quotata sui mercati internazionali, un'inflazione due-tre volte quella odierna, e una banca centrale pienamente responsabile del valore interno ed esterno della moneta. La ragione di quel dispositivo è che esso dà un "ancoraggio" alla dinamica dei salari monetari compatibile con l'obiettivo d'inflazione della banca centrale. Se ciò avviene, i lavoratori diventano i migliori alleati della politica di stabilità dei prezzi e, viceversa, essa diventa la guardiana del potere d'acquisto dei salari. La vicenda italiana mostra che le cose sono andate, grosso modo, proprio così. Ovviamente fino al 31 dicembre 1998. Dopo la qual data, l'unica "inflazione programmata" che conta in Italia e in Europa è quella della Bce. La quale, come noto, s'impegna a mantere l'inflazione entro il 2% nel medio periodo e per l'intera area euro. E' vero che la Bce conosce e applica la teoria di cui sopra, da mesi va annunciando che non farà sconti sull'inflazione, e che dunque i rinnovi contrattuali potranno e dovranno attenersi all' "inflazione programmata" per evitare la spirale prezzi-salari (cfr. L. Bini Smaghi sul Corriere del 7 giugno). Ma, appunto, stiamo parlando del 2% medio europeo e in un orizzonte non immediato. Quindi non ha senso attribuire ad alcuna istituzione europea, né ha senso che da essa provenga, l'indicazione di un tasso d'inflazione puntuale, per un singolo anno e per un singolo paese.
 

2. Il richiamo ai lavoratori ad indicizzare i salari monetari all' "inflazione programmata" anziché a quella tendenziale è razionale solo se la prima è un promessa credibile con un grado di approssimazione, ed entro un orizzonte temporale, tali da comportare perdite di potere d'aquisto modeste e transitorie. Un aumento dei salari monetari italiani dell'1,7% nel contesto attuale apre due scenari. Il primo è che il governo italiano s'impegni a realizzare un'inflazione inferiore al resto dell'Unione, cosa che probabilmente richiederebbe un supplemento di politica restrittiva per via fiscale in aggiunta a quella per via monetaria della Bce. Il secondo scenario, molto più probabile, è semplicemente una riduzione dei salari reali nel medio periodo. E' questo che intende Confindustria sottoscrivendo l'inflazione programmata del Dpef e facendo confusione (voluta?) tra dinamica monetaria (spirale prezzi-salari) e reale (produttività) dei salari? E' francamente stupefacente che si voglia tentare la strada della riduzione inflazionistica dei salari reali con un annuncio programmaticamente non credibile.
 

3. Torniamo all'unica istituzione che può fare promesse credibili ai lavoratori per scongiurare la spirale prezzi-salari, cioè la Bce. Il problema, oggi, è proprio se la promessa del ritorno al 2% d'inflazione sia credibile. Un punto complicato di tutta la vicenda è che gli shock inflazionistici non sono tutti uguali. Dipende se partono da salari/prezzi interni o da prezzi internazionali. Dipende se gli aumenti dei prezzi sono temporanei o permanenti. Ci sono pochi dubbi sul fatto che oggi la spinta inflazionistica proviene dai prezzi internazionali. E qualche settimana fa Trichet ha dichiarato che questa inflazione ha "caratteristiche strutturali", ossia, probabilmente, l'aumento del prezzo del petrolio (se e dove si fermerà …) avrà carattere permanente. Questo scenario, un aumento permanente dei prezzi importati, rende molto problematico il patto tra la banca centrale e i lavoratori. Per due ragioni.

La prima, e più evidente, è che la politica restrittiva della Bce ha effetto su domanda e inflazione interna, ma, tolto l'effetto calmiere dell'apprezzamento dell'euro, ne ha poco o nessuno sulla dinamica dei prezzi internazionali alla fonte (soprattutto in quanto il resto del mondo non sta attuando manovre altrettanto restrittive). Allora, come ha spiegato Bini Smaghi, se l'inflazione importata supera il 2%, l'inflazione domestica va ridotta al di sotto del 2%. Bene. Osserviamo la tabella 1, che riporta la scomposizione dell'inflazione dei prezzi al consumo della Bce (HICP) per le sue componenti.

Tabella 1. Tasso d'inflazione annuale e sue componenti

 

2007

2007:12

2008:1

2008:2

2008:3

2008:4

2008:5

Pesi

Media

2007:12-2008:5

Indice HICP

2.1

3.1

3.2

3.3

3.6

3.3

3.6

100

3.3

Energia

2.6

9.2

10.6

10.4

10.2

10.8

12.0

9.8

1.0

Alimentari non lavorati

 

3.0

 

3.1

 

3.3

 

3.3

 

3.8

 

3.1

 

3.8

 

7.6

 

0.3

Alimentari lavorati

 

2.8

 

5.1

 

5.9

 

6.5

 

6.7

 

6.8

 

7.2

 

11.9

 

0.8

Prodotti industriali

 

1.0

 

1.0

 

0.7

 

0.8

 

0.9

 

0.8

 

1.0

 

29.8

 

0.3

Servizi

2.5

2.5

2.5

2.4

2.8

2.3

2.2

40.9

1.0

Fonte: BCE, Bollettino mensile, giugno 2008

Nel corso del 2007 l'inflazione annuale è stata pari a 2,1%; la media dei sei mesi successivi (2007:12-2008:5) ha raggiunto il 3,3%. La due componenti critiche che la Bce indica per l''inflazione importata sono alimentari non lavorati ed energia. Insieme contano per il 18% dell'indice. La loro accelerazione nel 2008 è evidente, tanto che esse valgono 1,3 punti d'inflazione (cioè quasi il 40% del totale). Sulla base di questi dati, l'obiettivo dell'inflazione HICP al 2% richiederebbe un'inflazione domestica dello 0,8%, a fronte del 2,1% realizzato negli ultimi sei mesi. Questo scarto indica grosso modo la pressione deflazionisitica che la Bce dovrebbe esercitare sulle economie europee nei prossimi mesi. Siccome la vera voce fuori linea è solo gli alimentari lavorati, cioè una componente tipica dei consumi famigliari in senso stretto, la manovra restrittiva dovrebbe concentrarsi su questa componente della domanda. Tralascio di esaminare se aumenti del tasso d'interesse siano lo strumento più adatto e necessario per raggiungere questo risultato, o se la riduzione del potere d'acquisto delle famiglie già in corso non sia strumento al tempo stesso più diretto e, soprattutto, sufficiente allo scopo.

Passo invece alla seconda ragione di precarietà del patto Bce-lavoratori. La quale nasce dal fatto che anche per le imprese la dinamica dei costi monetari è il risultato di diverse componenti, almeno tre per semplificare: salari, beni intermedi domestici, energia e altre materie prime importate. La scomposizione dei costi di produzione non viene fornita dalla Bce, ma si può avere un'idea della dinamica delle componenti nella tabella 2.

Tabella 1. Variazioni dei prezzi alla produzione e alcune componenti

 

2007

2007:12

2008:1

2008:2

2008:3

2008:4

2008:5

Prezzi alla produzione

2.8

4.4

5

5.4

5.8

6.1

6.4

Petrolio (in euro)

52.8

62.8

62.4

64.1

66.1

69.8

80.1

Materie prime

9.2

1.4

10.4

15

10.3

5.8

6.0

Salari contrattuali (trim.)

2.1

..

..

..

2.7

   

Fonte: BCE, Bollettino mensile, giugno 2008

E' evidente che, mentre la dinamica dei salari monetari è in linea con l'inflazione domestica, quella dei costi importati è completamente fuori controllo. Il fatto conseguente è che se anche i salari monetari vengono indicizzati al 2% , e la Bce riesce a portare l'inflazione HICP al 2% (e con essa l'inflazione dei beni intermedi domestici), non è detto che il risultato complessivo sia neutrale sui costi reali della produzione (misurati rispetto ai prezzi di vendita HICP). Anzi sicuramente non lo sarà, perché un semplice calcolo suggerisce che si realizzerà comunque un aumento dei costi reali di produzione grosso modo pari alla differenza tra inflazione dei costi importati e HICP, pesata per l'incidenza di questi costi sul totale. Se prendiamo l'indice della produzione industriale come misura prossima della dinamica dei costi monetari, la tabella 2 ci suggerisce uno scarto attestato oltre i 4 punti percentuali. Il messaggio infausto è che, nella congiuntura attuale, il "patto del 2%" tra Bce e lavoratori non sarà in grado di risparmiare alle nostre economie quello che i macroeconomisti chiamano uno shock reale di offerta. Nella misura in cui tale shock sarà persistente (o permanente), l'economia tenderà a reagire in uno dei, o con una combinazione dei, modi seguenti: a) riduzione dei salari reali, b) riduzione dei profitti, c) riduzione dell'occupazione, d) riduzione del PIL potenziale. Tanto più piccolo sarà l'effetto a), tanto più grandi saranno gli effetti b), c) e d), e viceversa. Difficile che il patto del 2% non scontenti qualcuno.

D'altra parte, la quadratura del cerchio con ancoraggio della dinamica salariale nominale, protezione del potere d'acquisto, e neutralità sui costi reali di produzione, richiederebbe un' àncora inflazionistica meno pesante del 2%, ossia sostanzialmente in linea con la dinamica nominale dei costi importati (almeno fino al momento in cui essa si esaurirà). Stiamo parlando di un'inflazione obiettivo HICP che potrebbe collocarsi tra il 4% e il 5% (all'incirca il trend negli Stati Uniti). Ma su questo fronte, naturalmente, è la Bce ad opporsi in forza del proprio mandato.
 

4. L'amara verità è che un aumento permanente dei prezzi delle materie prime non costituisce semplicemente e puramente uno shock alla scala nominale dei prezzi, ma un mutamento dei prezzi relativi dei fattori produttivi. Se aumentano la scarsità e il prezzo del fattore "petrolio" (la rendita di chi ne possiede i giacimenti), salari e profitti reali non possono rimanere invariati, tenden-zialmente dovranno ridursi. Dietro al "velo" inflazionistico deve esserci un aggiustamento distributivo. La linea che (con entusiasmo e sollievo) i banchieri centrali perseguono è che questo non è affar loro; essi si preoccupano solo che il conflitto distributivo avvenga al minor livello inflazionistico possible.

Se è questa l'idea, essa andrebbe esposta con chiarezza e trasparenza da parte di tutti gli attori. Le autorità di politica economica si astengano dalla tentazione di dissimulare una riduzione dei salari reali dietro obiettivi inflazionistici non credibili. Non dimentichino il motto di Milton Friedman: "you can't fool them all the time". Questi espedienti producono tre gravi inconvenienti: a) minano la credibilità della banca centrale, b) inaspriscono i conflitti sindacali, c) nel lungo periodo non impediscono la spirale prezzi-salari che si vorrebbe evitare, mentre non apportano nessun beneficio duraturo a occupazione e crescita. Se Confindustria vuol ridurre i salari reali, in un momento in cui sono ai minimi storici, lo faccia con gli strumenti appropriati, cioè le trattative contrattuali. Se il governo vuole essere utile in questa partita lasci perdere l' "inflazione programmata" e si concentri su un serio e incisivo piano di sgravi fiscali sui redditi da lavoro, magari salvando il salvabile della Robin Hood Tax finalizzandola in questa direzione.

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