Ci sono gli Emirati dietro gli eccidi e la pulizia etnica in Sudan
di Marco Santopadre
Mentre proseguono i combattimenti tra l’esercito e le cosiddette “Forze di Supporto rapido” (RSF) e altre milizie in diverse zone del paese, le notizie che provengono dal Sudan sono sempre più terribili.
Un’organizzazione medica locale ha accusato le milizie di aver portato avanti un “tentativo disperato” di nascondere le prove delle uccisioni di massa nel Darfur bruciando i corpi delle vittime o seppellendoli in fosse comuni.
La “Sudan Doctors Network” ha dichiarato che i paramilitari stanno raccogliendo “centinaia di corpi” dalle strade di el-Fasher, la città della regione occidentale del Darfur conquistata dalle RSF il 26 ottobre. «Ciò che è accaduto a el-Fasher non è un episodio isolato, ma un altro capitolo di un vero e proprio genocidio perpetrato dalle Forze di Supporto Rapido» scrive l’associazione.
Si ritiene che molti residenti siano ancora intrappolati in alcune zone della città. Altre persone in fuga da el-Fasher verso il nord sarebbero morte, secondo Al Jazeera, «perché non avevano cibo né acqua, o perché avevano riportato ferite a causa degli spari».
Molti civili fuggiti da el-Fasher hanno raccontato agli operatori di “Medici senza frontiere” di essere stati «presi di mira a causa del colore della loro pelle» dai miliziani appartenenti per lo più alle componenti arabe o arabizzate della società sudanese.
Gli Zaghawa, il gruppo etnico dominante a el-Fasher, all’inizio sono rimasti neutrali, ma hanno deciso di combattere a fianco dell’esercito alla fine del 2023, dopo che le RSF hanno compiuto i primi massacri contro la tribù Masalit nella capitale del Darfur occidentale, el-Geneina, uccidendo 15.000 persone.
L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) stima che 82.000 dei 260.000 abitanti totali di el-Fasher siano fuggiti dopo che le RSF hanno conquistato l’ultima roccaforte dell’esercito sudanese nella regione, denunciando uccisioni di massa, stupri e torture.
Sono gli stessi video realizzati e diffusi da membri delle RSF a mostrare i crimini compiuti dalla milizia composta dai cosiddetti “Janjaweed” (letteralmente “demoni a cavallo”) che da decenni è impegnata in una brutale pulizia etnica ai danni delle popolazioni africane del Darfur e di altre regioni limitrofe.
Tra il 2003 e il 2008, si stima che i Janjaweed abbiano ucciso circa 300.000 persone e che altre 2,7 milioni siano state costrette a sfollare a causa delle violenze etniche. I massacri sono ripresi nell’aprile del 2023, dopo la rottura tra il presidente golpista Abdel Fattah al-Burhan (a capo dell’esercito) e le Forze di Supporto Rapido comandate da Mohamed Hamdan Dagalo, che ha provocato l’inizio di una sanguinosa guerra civile. Finora il conflitto ha provocato almeno 150 mila vittime, 13 milioni di sfollati e una gravissima emergenza umanitaria.

Turchia, Egitto e Arabia Saudita incrementano gli aiuti al governo
Nei giorni scorsi i comandi dell’esercito sudanese hanno respinto la proposta degli Stati Uniti di un cessate il fuoco, preparandosi a lanciare un’offensiva contro le RSF dopo che, grazie ad un ponte aereo, la Turchia ha rifornito le truppe di droni e sistemi di difesa aerea. Sostegno finanziario e militare è giunto al governo di Port Sudan (sede provvisoria del governo sudanese) anche dall’Arabia Saudita e dall’Egitto.
L’esercito al comando di al-Burhan avrebbe siglato un importante accordo con il Pakistan per la fornitura di armi finanziata da Riadh, che garantirebbe al Sudan un certo numero di motori per i caccia, sistemi di difesa aerea, missili terra-aria e droni da ricognizione e da bombardamento.
La “generosità” saudita, secondo alcune fonti, mirerebbe non solo a contenere l’espansione dei propri competitori regionali, ma anche a convincere il governo sudanese a rinunciare al sostegno iraniano e a impedire così a Teheran di rafforzare la sua influenza sulla sponda africana del Mar Rosso.
Da parte sua l’Egitto, che ha avviato un’inedita cooperazione con i rivali turchi, intenderebbe istituire una forza di comando congiunta con Port Sudan e i sauditi per impedire alle milizie di Dagalo di avvicinarsi ai propri confini meridionali, ora maggiormente presidiati e pattugliati dalle forze armate del Cairo.
La caduta di el-Fasher e la previsione di un imminente attacco su grande scala delle RSF per riprendersi Omdurman, città gemella a nord di Khartum, ha coinvolto i paesi che sostengono il “governo legittimo” sudanese ad aumentare i propri sforzi mentre le immagini dei miliziani che, supportati da mercenari provenienti da altri paesi, si dedicano a trucidare migliaia di persone indifese, hanno acceso i riflettori dei media internazionali sulla spesso dimenticata tragedia sudanese.
Le responsabilità degli Emirati Arabi Uniti
Sul fronte opposto, è sempre più evidente che il rafforzamento delle RSF – che ha permesso alle milizie di lanciare negli ultimi mesi un’efficace offensiva – è conseguenza soprattutto del massiccio sostegno degli Emirati Arabi Uniti, che paradossalmente fanno parte della rosa di quattro paesi scelta nel 2023 dalle Nazioni Unite e dall’Unione Africana per tentare di mettere fine alla guerra civile
Sebbene Abu Dhabi continui a negare, ormai esiste un’ampia documentazione – tra immagini satellitari, dati di tracciamento di voli e navi, riprese video e prove sulla provenienza delle armi in uso alle milizie – che dimostrano il pieno coinvolgimento del piccolo ma potente stato. Le responsabilità emiratine emergono con sempre maggiore evidenza da numerosi rapporti delle Nazioni Unite, oltre che di varie organizzazioni internazionali ed istituti di ricerca.
Negli ultimi anni Abu Dhabi ha creato un network di soggetti politico-militari a carattere regionale – che spazia dalle Forze della Cintura di Sicurezza (Sbf) dello Yemen alle Forze Armate del Somaliland, dall’Esercito Nazionale Libico alle Forze di polizia marittima del Puntland in Somalia – sostenuto da un esteso arcipelago di reti commerciali, finanziarie e logistiche che amplificano il potere degli Emirati su una vasta area e lo rendono una potenza regionale sempre più influente, in competizione principalmente con il Qatar e la Turchia oltre che con gli altri attori attivi nell’Africa nord-orientale e in Medio Oriente.
I legami tra gli Emirati e le milizie di Dagalo risalgono al 2015 quando le RSF, con il consenso dell’allora dittatore Omar al Bashir, hanno inviato circa 40 mila combattenti in Yemen a sostegno della coalizione sunnita schierata dalle petromonarchie contro gli Houthi sciiti. Negli anni successivi gli Emirati ritirarono il sostegno e i finanziamenti al regime sudanese, ritenuto troppo vicino alla Fratellanza Musulmana che Abu Dhabi considera una minaccia ai propri interessi e al proprio modello, ma rafforzarono quello a Dagalo e alle sue milizie.
Dagalo, che ha accumulato un enorme patrimonio – stimato in 7 miliardi di dollari – detiene ingenti investimenti negli Emirati, principalmente in oro, che rappresenta una delle principali ricchezze del paese dopo che nel 2011, dopo decenni di guerra civile strisciante o aperta, Khartum ha perso il sud del paese. L’indipendenza del Sudan del Sud sottrasse a Khartum il 75% delle riserve di petrolio, aumentando la propria dipendenza da quelle aurifere, un terzo delle quali sono concentrate proprio nel Darfur.
Sin dai tempi della dittatura di al Bashir, caduta sotto l’onda delle proteste popolari nel 2019 e poi rimpiazzata da un governo golpista guidato da al Burhan, Dagalo e le sue RSF – così come l’ex “compagnia militare russa” Wagner, anche se la Russia dopo aver sostenuto inizialmente le milizie ribelli è passata poi dalla parte di Port Sudan – possono contare sul monopolio delle esportazioni illegali dell’oro del Darfur, inviato principalmente negli Emirati, divenuti uno dei principali hub internazionali del commercio del metallo prezioso. Anche il fratello minore del leader delle milizie, Algoney Dagalo, è a capo di ingenti attività economiche e fondiarie basate negli Emirati.
Attualmente l’oro rappresenta quasi il 50% delle esportazioni del Sudan e la compagnia statale Sudanese Mineral Resources Company ha dichiarato a febbraio che la produzione di metallo giallo nelle aree controllate dall’esercito regolare ha raggiunto le 74 tonnellate nel 2024, esportata per il 97% ad Abu Dhabi. Le esportazioni ufficiali rappresentano però solo una piccola frazione della produzione totale, che per il 90% – per un valore di circa 13,5 miliardi di dollari – viene contrabbandata attraverso rotte che attraversano Ciad, Egitto, Etiopia, Uganda e Sud Sudan prima di raggiungere gli Emirati.
In cambio del sostegno ricevuto, il petro-stato sunnita ha ottenuto dalle RSF la possibilità di proiettare il proprio potere economico e politico sul Mar Rosso e sull’Africa orientale. Inoltre la International Holding Company, la più grande società quotata in borsa degli Emirati Arabi Uniti, e la Jenaan Investment Group coltivano più di 50.000 ettari di terreni in Sudan, mentre la DP World, l’operatore portuale statale emiratino, ha esteso il controllo sulle coste del Sudan sul Mar Rosso, area strategica dove transita un terzo del traffico mondiale di container.
Utilizzando varie rotte che includono il porto di Bosaso, nella regione somala del Puntland, le basi nella Libia sudorientale sotto il controllo del generale Khalifa Haftar, il Ciad, la Repubblica Centrafricana e le basi aeree in Uganda, gli Emirati sono riusciti a trasportare ingenti rifornimenti in due basi all’interno del Sudan, Nyala nel Darfur meridionale e Al Malha, a 200 chilometri da el-Fasher. Altre armi raggiungono il Fezzan, la regione più meridionale della Libia, per poi essere trasportate in Sudan via terra da alcune milizie fondamentaliste.
Nel maggio scorso, ad esempio, Amnesty International ha denunciato che gli Emirati Arabi Uniti stavano inviando nel Darfur armi cinesi all’avanguardia, come droni, bombe teleguidate e obici fabbricati dal gruppo statale cinese Norinco.
Periodicamente il presidente degli Emirati Arabi Uniti, Mohammed bin Zayed Al Nahyan, lancia accorati appelli alla pace e alla stabilità in Sudan, continuando però a foraggiare le milizie stragiste e a finanziare il dispiegamento al loro fianco di mercenari stranieri, principalmente colombiani.
Il regime sudanese ha provato a convincere le istituzioni internazionali a operare pressioni sugli Emirati, ad esempio portando Abu Dhabi davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, che però nel maggio scorso ha rigettato l’istanza per assenza di giurisdizione.
Dal canto loro invece le pressioni degli Emirati sui loro alleati hanno prodotto vari risultati, come quando il governo britannico intimò lo scorso anno ai diplomatici sudanesi di non insistere sulle responsabilità di Abu Dhabi nella guerra civile. Nell’aprile scorso invece si è tenuta a Londra una conferenza internazionale sulla crisi sudanese, alla quale sono stati invitati i delegati emiratini ma paradossalmente non quelli del governo di Port Sudan.







































Comments
il Sudan non sta crollando da solo: è in fase di smantellamento.
E dietro ogni titolo sulla "guerra civile" si nasconde una storia di impero, avidità e tradimento da parte degli Stati Uniti.
Mentre i titoli dei giornali indicano gli Emirati Arabi Uniti come i colpevoli del disastro umanitario in Sudan, la verità è molto più profonda e sinistra.
Per oltre due decenni, la politica ufficiale di Washington è stata quella di trasformare il Sudan nello stato fallito che vediamo oggi, parte di una nuova Guerra Fredda contro Cina, Russia e Iran e di una campagna per distruggere qualsiasi nazione che osi schierarsi a favore della liberazione palestinese.
Ciò che sta accadendo in Sudan non è un'altra tragedia africana, ma un disegno architettonico dell'imperialismo statunitense in cui la fame, gli sfollamenti e il genocidio sono gli strumenti della politica di Washington.
In Sudan, intere città sono state rase al suolo.
Ospedali bombardati. Donne violentate e giustiziate davanti alle telecamere.
Le famiglie muoiono di fame mentre l'oro del Sudan viene estratto e trasportato in aereo a Dubai.
Un tempo il Sudan era il cuore dell'Asse della Resistenza: un ponte tra Iran, Palestina e Libano; una linea di trasporto logistica per le armi verso Gaza e il Libano meridionale; e un alleato strategico sul Mar Rosso.
Quella sfida ne segnò il destino.
Come la Libia e l'Iraq prima di lui, il Sudan è stato preso di mira e distrutto, punito per la sua indipendenza e la sua solidarietà con la Palestina.
E al centro di questo assalto ci sono due dei rappresentanti più affidabili di Washington: Israele e gli Emirati Arabi Uniti.
Sono stati schierati da Washington per fare ciò che l'impero non può più fare apertamente: scatenare guerre per procura, impossessarsi delle risorse e schiacciare la Resistenza dall'interno.
Israele fornisce intelligence e strategia.
Gli Emirati Arabi Uniti forniscono denaro, armi e copertura.
Insieme, portano avanti il lavoro sporco dell'impero.
Il Sudan si trova su una faglia che collega il Mar Rosso, il Sahel e il Corno d'Africa, regioni centrali per l'iniziativa cinese Belt and Road e per le reti commerciali della Russia.
I suoi porti potrebbero collegare la ricchezza mineraria dell'Africa a una nuova economia multipolare, non più dipendente dal dollaro statunitense.
Per Washington si tratta di una minaccia esistenziale.
La Belt and Road initiative della Cina offre a nazioni come il Sudan una via di fuga dal FMI, dalla Banca Mondiale e dal sistema del petrodollaro che hanno intrappolato il Sud del mondo nel debito per decenni.
Se il Sudan si unisse a questa rete, potrebbe collegare l'oro, il petrolio e le ricchezze minerarie dell'Africa direttamente a Pechino, aggirando completamente il controllo occidentale.
Questo è ciò che Washington teme di più.
Con il crollo del Sudan, si indeboliscono sia l'Asse della Resistenza sia la Belt and Road Initiative, impedendo a Pechino, Mosca e Teheran di mettere piede in Africa.
È la stessa logica della Guerra Fredda che ha distrutto la Libia, la Siria e lo Yemen: lo stesso progetto imperiale:
Se una nazione rifiuta il capitale occidentale e cerca l'indipendenza, deve essere destabilizzata, divisa e ridotta alla fame fino alla sottomissione.
E Israele e gli Emirati Arabi Uniti, schierati da Washington, sono diventati gli esecutori regionali dell'impero, controllando il Mar Rosso, isolando l'Iran e saccheggiando l'oro e il petrolio del Sudan sotto la bandiera della "stabilità".
La distruzione del Sudan non è iniziata ieri.
Tutto è iniziato decenni fa, con una lunga campagna per rendere il Sudan ingovernabile.
Nel 2019, dopo anni di sanzioni, isolamento e interferenze della CIA, Washington e i suoi alleati del Golfo hanno orchestrato la caduta di Omar al-Bashir con l'illusione di una "riforma democratica".
Negli ultimi anni della sua vita, Bashir ha cercato di ottenere l'approvazione dell'Occidente, commettendo lo stesso errore fatale di Muammar Gheddafi.
Gheddafi strinse la mano a Tony Blair e accettò il disarmo in cambio della sopravvivenza politica, ma l'Impero non poteva permettere che la Libia diventasse uno stato indipendente, mentre Gheddafi voleva creare una valuta africana aurea per unire il continente e abbandonare il dollaro statunitense.
La NATO invase il paese e Gheddafi fu eliminato in un batter d'occhio. Trascinato per le strade di Tripoli dopo essere stato sodomizzato con un machete.
E Omar AL-Bashir ha cercato di negoziare con gli Stati Uniti e si è rivolto all'Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti, accettando di tagliare i legami con l'Iran in cambio della sopravvivenza politica.
Lui fece tutto quello che gli avevano chiesto, e lo rovesciarono comunque.
Perché l'impero non perdona e non dimentica.
Volevano un Sudan compiacente, non sovrano.
E volevano assicurarsi che non si sarebbe mai più schierato con l'Iran, la Palestina, lo Yemen o il Libano.
Per giustificare tale risultato, l'impero dovette far apparire il Sudan come un mostro.
Negli anni 2000, Washington lo etichettò come “Stato sponsor del terrorismo”, non per la violenza, ma per le sue alleanze.
Poi è arrivato il Darfur, l'arma emotiva perfetta.
Il teatro umanitario che ha spianato la strada alla distruzione della Libia da parte della NATO è stato messo in scena per la prima volta in Sudan.
I think tank, le ONG e le agenzie di intelligence occidentali hanno trasformato un conflitto regionale in uno spettacolo globale.
Celebrità come George Clooney e Angelina Jolie sono diventate il fronte morale di una campagna imperialista, parlando di "genocidio" e di "salvataggio del Sudan", mentre i servizi segreti statunitensi e israeliani mappavano silenziosamente i giacimenti petroliferi e le riserve auree.
Mentre Clooney chiedeva l'intervento, la CIA armò i suoi agenti.
Mentre Jolie invocava i “diritti umani”, gli alleati occidentali e legati a Israele sostenevano i signori della guerra.
Da allora, perfino Jolie ha lasciato intendere che l'attivismo delle celebrità può essere manipolato per servire i programmi occidentali, trasformando la compassione in consenso alla guerra.
Quando Bashir cadde, il mondo aveva già accettato la menzogna secondo cui il Sudan era uno stato fallito: il suo popolo era pronto per una “salvezza” straniera e le sue risorse erano già destinate all’estrazione.
Con la partenza di Bashir, gli Emirati Arabi Uniti sono diventati i nuovi garanti di Washington e Tel Aviv.
Un tempo nota per i suoi grattacieli e centri commerciali, Abu Dhabi è diventata il fulcro delle guerre per procura, dove si finanziano colpi di stato, si armano milizie e si ricicla oro sporco sotto la bandiera della "lotta al terrorismo".
Attraverso gli Accordi di Abramo, Israele e gli Emirati Arabi Uniti hanno fuso il denaro degli Emirati, l'intelligence israeliana e le armi occidentali in un'unica macchina da guerra.
E il Sudan divenne il loro prossimo laboratorio.
Mentre la popolazione sudanese muore di fame, le sue risorse vengono ridotte al minimo.
Gli avvoltoi si stanno nutrendo.
Al Junaid Multi Activities, di proprietà della famiglia del comandante delle RSF Hemedti, ha sequestrato le miniere d'oro del Sudan, trasformando la terra intrisa di sangue nella sua fortuna privata.
Emiral e Alliance for Mining, sostenute dagli Emirati Arabi Uniti, hanno rilevato la miniera di Kush e hanno convogliato l'oro attraverso Dubai, cancellandone le origini prima che raggiungesse i mercati globali.
Il gigante petrolifero occidentale Schlumberger è tornato sotto le mentite spoglie della “ricostruzione”, mentre la carestia si diffondeva e le città si trasformavano in cenere.
L'economia del Sudan era spartita tra RSF e Forze armate sudanesi, che traevano profitto dalla guerra e dal contrabbando, mentre i civili morivano di fame.
La carestia non è una conseguenza, è un'arma.
Le Forze di Supporto Rapido non sono apparse per caso: sono state create.
Nel 2015, durante la guerra in Yemen sostenuta dagli Stati Uniti, gli Emirati Arabi Uniti reclutarono migliaia di combattenti sudanesi, molti dei quali ex Janjaweed, come mercenari contro il movimento Ansarallah dello Yemen.
Hanno combattuto con finanziamenti emiratini e armi occidentali, con la silenziosa approvazione di Washington.
Quella guerra fornì alla RSF addestramento, finanziamenti e contatti globali, trasformandola in un esercito regionale a pagamento.
Ieri hanno combattuto la resistenza dello Yemen.
Oggi stanno massacrando civili a Khartoum, nel Darfur e altrove.
Villaggi rasi al suolo. Donne violentate. Ospedali bruciati.
Milioni di sfollati. Intere generazioni perse.
Questi non sono “scontri tribali”.
Questo è un genocidio, progettato e finanziato dagli stessi poteri che un tempo sostenevano di portare la “democrazia”.
Dal 2023, Israele e gli Emirati Arabi Uniti hanno armato e finanziato la RSF, assicurandosi il controllo sull'oro e sui porti del Sudan.
L'oro fluisce dal Darfur a Dubai, dove viene raffinato e venduto in tutto il mondo.
Una volta sciolto, le sue origini svaniscono, ma non il suo sangue.
Questa ricchezza circola attraverso banche, appaltatori della difesa e catene di fornitura tecnologica a Tel Aviv, Londra e New York.
Per Israele, il crollo del Sudan è strategico: indebolisce gli alleati dell'Iran, apre i mercati africani e protegge le rotte del Mar Rosso aggirando il blocco dello Yemen.
Mentre lo Yemen si sacrifica per bloccare le navi israeliane dirette a Gaza, gli Emirati Arabi Uniti e i loro alleati mantengono in vita silenziosamente il commercio con Israele.
È lo stesso schema imperiale: destabilizzare. Demonizzare. Poi dividere.
Ogni volta, il bersaglio è una nazione che sta dalla parte della Palestina, si allinea con la Cina o l'Iran e si rifiuta di cedere.
Ma non fatevi illusioni: questa non è solo una guerra contro la Resistenza. È una guerra contro il futuro stesso.
Il crollo del Sudan invia un messaggio a tutte le nazioni africane e asiatiche che osano collaborare con Pechino o Mosca: abbandonate il dollaro e noi distruggeremo il vostro paese.
La sofferenza del Sudan non è un danno collaterale, ma il costo della resistenza.
Mentre la carestia si diffonde e i bambini muoiono, l'oro continua a circolare, il petrolio continua a scorrere e l'impero continua a ricavare profitti.
La chiamano “stabilità”.
Ma ciò che hanno costruito è la schiavitù, mascherata dal linguaggio della democrazia.
Ogni nazione che oppone resistenza – Palestina, Yemen, Iran, Libano e ora Sudan – va incontro allo stesso destino: sanzioni, guerre per procura, fame e propaganda.
Questa è l'architettura dell'imperialismo statunitense.
L'esportazione della cosiddetta democrazia occidentale contro il Sud del mondo.
Il Sudan non è “un’altra tragedia africana”.
È una linea del fronte nella lotta dell'umanità per la libertà, tra l'Asse di Assistenza e l'Asse di Resistenza, tra un ordine occidentale morente e un mondo che lotta per liberarsi.
Ed è per questo che il Sudan è importante: è il luogo in cui convergono la guerra per una Palestina libera, la guerra contro l'Africa e la guerra contro le ambizioni multipolari della Cina.
Questo è il volto del colonialismo moderno.
Mnar Adley è una giornalista e redattrice pluripremiata, fondatrice e direttrice di MintPress News. È anche presidente e direttrice dell'organizzazione mediatica no-profit Behind the Headlines. Adley è anche co-conduttrice del podcast MintCast ed è produttrice e conduttrice della serie video Behind The Headlines. Contattate Mnar all'indirizzo mnar
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