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sollevazione

Apologia del protezionismo

di Moreno Pasquinelli

PHOTO 2025 07 15 10 42 10.jpg«La libertà di pensiero ce l’abbiamo. Adesso ci vorrebbe il pensiero». Karl Kraus

La buona notizia

Bullo, giocatore d’azzardo, erratico, collerico, narcisista impulsivo, nazionalista, matto…

Questi sono solo alcuni degli epiteti che i nostalgici della globalizzazione neoliberista, calpestando le sottigliezze formali del politicamente corretto, appioppano a Donald Trump. Insulti che tradiscono lo stato confusionale in cui sono caduti. Erano caduti nel criosonno della fine della storia e si trovano alle prese con le leniniane contraddizioni inter-imperialistiche.

La vetusta bagascia del capitalismo europeo, sedotta e abbandonata dal suo giovane amante americano, vive una crisi esistenziale perché non riesce a darsi ragione di questo tradimento, che non sembra affatto un voltafaccia estemporaneo ma lungamente meditato e programmato. Fanno i finti tonti: com’è possibile che Trump dimentichi i dogmi liberoscambisti e rinneghi l’Abc della ricardiana Teoria dei costi comparati che regolerebbero il commercio internazionale?

La verità è che, sgomenti, i nostalgici condannano Trump per quello che considerano il più grave dei crimini:

«Una politica che non è motivata da un’ideologia politica, non già da un pensiero economico. Con Trump, il determinismo economico che ha orientato la fase neoliberale (è l’economia che determina la politica) è stato sostituito dall’autoritarismo politico (è la politica che determina l’economia». [1]  

[Notare la chicca e il tranello semantico: la chicca per cui ogni determinazione politica dell’economia è squalificata come “autoritaria” e l’imbroglio per cui la finanza predatoria è chiamata “mercato”].

Incapaci di fuoriuscire dalla loro gabbia concettuale liberal globalista — il cui motto è: “mai mettersi contro il mercato che ha sempre ragione anche quando ha torto”—, i censori di Trump, dopo aver affermato che “una bilancia commerciale in passivo ha i suoi grandi vantaggi”,  si consolano prevedendo sfracelli per l’economia americana.

Sarà così? Ricordiamo loro il fulminante giudizio di John Kennet Galbraith: «L’unica funzione delle previsioni economiche è di far sembrare rispettabile l’astrologia». [2]

Intanto Trump risponde con una sonora pernacchia:

«A giugno il bilancio degli Stati Uniti ha avuto un surplus di 27 miliardi di dollari. A maggio c’era stato un deficit di 316 miliardi. I dazi doganali hanno raggiunto un totale di 27 miliardi a giugno, con un incremento rispetto ai 23 di maggio e con un aumento del 301% rispetto al giugno 2024». [3]

Tra i diversi fattori che annunciano il definitivo passaggio ad una fase post-globalista c’è dunque quello che la politica torna al posto di comando proprio nel paese che primo aveva conosciuto la vittoria del neoliberismo celebrando come salvifico lo spodestamento della politica.

Buona o cattiva notizia? Buona!

 

Con buona pace di Ricardo

Come spiegare che questo cambio di paradigma, dopo i casi più recenti della Cina di Xi Jinping e la Russia di Putin, si sia fatto strada anche nella principale potenza imperialista? Certo per un concorso di cause (economiche, sociali, geopolitiche, ideologiche) ma in prima battuta c’è il dato di fatto che la Teoria dei costi comparati o dei vantaggi comparati — per cui, valga come esempio: al paese industrializzato converrebbe importare prodotti agricoli ed esportare prodotti industriali; mentre per quello agricolo sarebbe di converso vantaggioso esportare prodotti agricoli ed importare prodotti industriali —; si è rivelata fallace alla prova dei fatti. Dopo il caso di scuola della Russia dopo la Rivoluzione, numerosi paesi un tempo agricoli, a dispetto di Ricardo e dei suoi epigoni e messa la politica al posto di comando, hanno deciso di avviare potenti processi di industrializzazione spezzando così le catene della divisione colonialista e imperialista del lavoro. L’ultimo e dirompente caso è quello della Cina. Che dire di questa epocale sovversione della teoria economica borghese e della gerarchia tra potenze? Come segnalava il grande economista Claudio Napoleoni:

«Tale comportamento non è negativo perché contrario a quella che sarebbe una corretta divisione del lavoro in base alla data dotazione di risorse, giacché è appunto tale dotazione che la politica di industrializzazione intende modificare».[4]

Si capisce come mai questa svolta di paradigma rappresenti un vero e proprio trauma per i nostalgici del liberal-globalismo. E’ stato fatto a pezzi nella pratica il pilastro ideologico provvidenzialistico su cui si appoggia la fede liberoscambista, quello della smithiana “mano invisibile” per cui il capitale, lasciato completamente a sé stesso, libero da ogni interferenza interventista dello Stato, avrebbe raggiunto un equilibrio ottimale, allocato nel modo migliore risorse e ricchezza sociale, evitato crisi generali.

Prigionieri delle loro astruse fantasie dottrinarie, sordi al principio di realtà, i furfanti liberal-globalisti si asserragliano nell’ultimo rifugio: “il libero scambismo porta pace, il protezionismo porta guerre”. Tirano così in ballo un altro dei cattivi maestri del liberismo, Fréderic Bastiat che sentenziò: «Dove non passano le merci, passano gli eserciti». [5] In verità il mondo non ha mai visto tanti conflitti armati quanti ce ne sono stati dopo l’implosione dell’URSS, evento considerato come quello che aprì le porte alla globalizzazione neoliberista dispiegata e che secondo Fukuyama avrebbe posto fine alla storia.

Riguardo a simili furfanti calza a pennello una massima proprio di Bastiat: «La cosa peggiore che possa accadere a una buona causa, non è di essere attaccata con destrezza, ma di essere maldestramente difesa». Che questa massima sia tenuta a mente anche da chi, soprattutto nel campo di certa sinistra che si considera antiliberista, davanti al terremoto Trump, tende ad usare criteri sgangherati e superficiali e, senza accorgersene, finisce per utilizzare non solo le medesime categorie politiche dei neoliberisti ma addirittura lo stesso apparato concettuale: protezionismo uguale sovranismo, uguale nazionalismo, uguale fascismo.

 

Apologia del protezionismo

Non scopriamo adesso la pervasività dell’intossicazione ideologica, antistorica e antiscientifica, dei neoliberisti. Siamo giunti al punto che protezionismo (che non equivale ad autarchia) è diventato concetto raccapricciante, spregevole, un insulto allo scibile umano e alla buona creanza. Vecchia polemica quella sul protezionismo. Rimandiamo a quella che divise i Friedrich List e Karl Marx, dove Marx, detto per inciso, come i fatti storici dimostreranno, ebbe torto — il rispetto deferente verso Ricardo giocò a Marx brutti scherzi; vedi il saggio di Sergio Cesaratto pubblicato proprio su SOLLEVAZIONE.

Sarebbe esecrabile il protezionismo se il mondo fosse un paradiso terrestre, governato dalla confuciana armonia sempre invocata da Xi Jinping. Esso è invece pienamente colonizzato dal sistema capitalistico, che se per sua natura produce diseguaglianze sociali e correlativi conflitti di classe, genera anche squilibri e asimmetrie tra nazioni e aree interne alle nazioni; con la globalizzazione neoliberista le diseguaglianze e gli squilibri sono saliti a livelli di tensione mai visti prima.

E dunque il protezionismo, ovvero, estrema semplificazione: la politica economica di quei paesi che, per ottenere l’equilibrio della propria bilancia commerciale e per tutelare gli interessi delle attività economiche nazionali, e assicurarsi l’ottenimento di risorse finanziarie, ostacolano le importazioni. Solo gli imbecilli neoliberisti (di cui la sinistra transgenica e le destre pseudo-sovranare), avendo scambiato le loro fantasticherie cosmopolitiche per realtà, possono considerare illegittimo proteggere e tutelare gli interessi nazionali.

E del resto, quando mai è sparito il protezionismo? Mai, infatti! Proprio i paesi campioni del liberoscambismo, in particolare euro-unionisti e cinesi, non hanno mai rinunciato ad adottare misure protezionistiche. Si scagliano contro Trump considerato un Nerone, ma l’imperatore ha ragione da vendere quando li accusa di essere mendaci. Gli euro-unionisti tuonano fuoco e fiamme contri i dazi trumpiani, come se i dazi doganali fossero la sola forma di protezionismo.

Pur senza ricorrere ai dazi doganali, ovvero dietro a questa foglia di fico, questi campioni del liberoscambismo hanno fatto e fanno sistematico ricorso ad una vera e propria sofisticatissima panoplia di barriere commerciali non tariffarie che producono effetti non minori dei dazi doganali. Parliamo di ostacoli tecnici di svariato tipo, contingentamenti (restrizioni quantitative stabilite da un paese all’importazione di una determinata merce), sovvenzioni pubbliche alle imprese, limitazioni alle licenze ed alle gare d’appalto internazionali, prescrizioni di tipo sanitario, interventi pubblici come sovvenzioni e sussidi in favore delle esportazioni, procedure burocratiche. Si potrebbe continuare senza dimenticare che un altro tipo di efficace misura protezionistica è la svalutazione della propria moneta. La lista non sarebbe completa se non considerassimo barriere protezionistiche di ordine squisitamente politico quali sono ad esempio le sanzioni, come quelle che vengono applicate per strangolare paesi come Russia e Iran. Casi esemplari di barriera protezionistica sono quelli adottati, negli USA e in Unione Europea contro i giganti cinesi di Huawey e TikTok col motivo della sicurezza o la decisione italiana di uscire, forse anzitutto per ragioni geopolitiche, dal progetto cinese BRI o Nuova Via della Seta.

Chiediamoci: la Cina e prima ancora le cosiddette Tigri Asiatiche, l’India, i cosiddetti Paesi Emergenti), avrebbero potuto diventare le potenze industriali che sono se non fossero ricorsi a capillari misure protezionistiche? Certo che no!

Gli eurocrati, quelli che considerano l’Unione il regno del liberoscambismo, sanno benissimo che la UE adotta verso paesi esterni, tra cui gli Stati Uniti, una miriade di misure protezionistiche per limitare le importazioni mentre attua gigantesche sovvenzioni ad aziende europee proprio allo scopo di fregare i competitori extra Unione. Né l’Unione rinuncia ai “maledetti” dazi doganali, vedi la Tariffa Esterna Comune (TEC), tariffa doganale unica applicata da tutti gli stati membri alle merci provenienti da paesi terzi, Stati Uniti inclusi.

Del resto, siccome parliamo della Bilancia Commerciale, della relazione tra il valore delle esportazioni e delle importazioni in un periodo dato, l’Unione Europea, al netto degli altri fattori, ha utilizzato e continua ad utilizzare un’arma ben più letale dei dazi doganali per accrescere le esportazioni e diminuire le importazioni. Stiamo parlando delle politiche di austerity in nome della competitività, dei tagli alla spesa pubblica, della deflazione salariale, in buona sostanza della recessione programmata. È intuitivo che ciò produce sulla Bilancia Commerciale un effetto multiplo e combinato: chi sia in fase di austerity, a causa della diminuzione dei salari e del reddito disponibile, mentre accresce la sua potenza concorrenziale, importa meno merci da quei paesi che nel periodo dato conoscessero una fase di crescita dei salari e dei consumi. E’ esattamente ciò che è accaduto nelle relazioni commerciali tra Unione Europea e Stati Uniti dopo la grande crisi dei subprime.

Gli euroinomani, paladini del libero scambio, imprecano contro Trump ma nascondono che barriere commerciali, veri e propri dazi interni, esistono anche all’interno dell’Unione: numerose sono le barriere normative e amministrative, quelle tese ad impedire la libera circolazione dei servizi, quelle alla libera circolazione dei capitali e delle persone. [6]

Ove tutto questo mucchio di ostacoli non basta gli stati nazionali, in barba alla declamata area europea di libero scambio, ricorrono a misure protezionistiche direttamente politiche. Ricordiamo solo due casi che riguardano l’Italia: lo stop francese all’acquisizione di Stx da parte di Fincantieri, e l’attuale opposizione del governo tedesco all’acquisizione si Commerzbank da parte di Unicredit.

 

Conclusione

Immaginiamo che qualche stolto di fede liberale o sinistrato interpreterà la nostra apologia del protezionismo, ovvero il sacrosanto diritto di uno Stato sovrano a salvaguardare i propri interessi nazionali strategici e contingenti (ben oltre quindi l’affare della Bilancia Commerciale), come un elogio del trumpismo, cosa che non ci passa per la testa e che anzi denunciamo come fenomeno di boria imperialistica. È che costoro rifiutano di prendere atto del colossale processo in atto e di un loro non meno grande errore teorico.

Il processo in atto, questo sì globale, incrocia due fenomeni complementari. Il primo è il tramonto della globalizzazione neoliberale e la metamorfosi cybercapitalista, il secondo è che questo processo segnato da una nuova asperrima fase di competizione e conflitto tra grandi potenze imperiali. Come abbiamo recentemente scritto l’Unione europea ne uscirà con le ossa rotte a meno che il capitalismo europeo non decida di saldarsi con quello russo dando vita ad un polo imperiale euroasiatico, ciò che implica uno scontro frontale, che ad oggi appare altamente improbabile, con gli Stati Uniti.

Il secondo fenomeno è che gli aborriti stati nazione sono destinati a rioccupare un ruolo di protagonisti. La qual cosa fa venire l’orticaria all’intellighentia liberale e di sinistra. Esse hanno giurato e spergiurato che col congedo dal Secolo Breve le odiate nazioni fossero destinate a squagliarsi nel melting pot cosmopolitico. Solo pochi anni fa si poteva leggere questa corbelleria:

«Le nazioni in quanto “entità concrete” semplicemente non esistono e non hanno alcun contenuto politico fisso e predeterminato, sono comunità immaginate; mentre l’identità nazionale è sempre congiunturale e mai predeterminata».

Di qui l’accusa di rossobrunismo alla sinistra patriottica. [7]

Consigliamo ai lettori di leggere la nostra risposta a queste critiche, non fosse perché chiarimmo i concetti di nazione e di patriottismo. Una diatriba su Stato e Nazione che sembrava morta e sepolta che invece torna di grande attualità visto che la sinistra liberale torna all’attacco lanciando le solite confusionarie accuse: “protezionismo uguale sovranismo, uguale nazionalismo, uguale fascismo”. I nodi stanno definitivamente venendo al pettine.

Ah, dimenticavamo. Ci chiederete: “ma voi cosa fareste al posto della Meloni?” Semplice, da veri sovranisti e non da pseudo-sovranari, ci sganceremmo dall’Unione Europea e avvieremmo una trattativa diretta e immediata con la Casa Bianca. La tutela dell’interesse nazionale non passa da Bruxelles, Berlino o Parigi.


NOTE
[1] Sergio Fabbrini, IL SOLE 24 ORE del 6 aprile 2025
[2] John Kenneth Galbraith, in L’economia è una truffa, Rizzoli
[3] Paolo Zampolli, uomo di fiducia di Trump per le partnership globali. CORRIERE DELLA SERA del 14 luglio 2025
[4] Claudio Napoleoni, Elementi di Economia Politica, La Nuova Italia
[5] Fréderic Bastiat, Il mercato e la provvidenza. Pensieri liberali, Armando Editore
[6] Alcuni esempi di barriere commerciali interne all’UE: norme tecniche diverse, procedure di registrazione complesse, requisiti di etichettatura specifici per ogni paese, le quali possono rendere costoso e difficile per le aziende vendere i propri prodotti o servizi in altri paesi dell’UE. Mancanza di armonizzazione delle normative nel settore dei servizi che può ostacolare la libera prestazione transfrontaliera di servizi. Restrizioni alla circolazione dei capitali che possono impedire alle aziende di investire liberamente in altri paesi dell’UE o di finanziare le proprie attività transfrontaliere. Difficoltà nel riconoscimento delle qualifiche professionali, ostacoli amministrativi per il trasferimento di personale tra paesi, che possono limitare la libera circolazione della forza lavoro. Procedure di appalto complesse e poco trasparenti che favoriscono le aziende locali a scapito di quelle di altri paesi dell’UE.
[7] Jacopo Custodi, Populismo, populismo di sinistra e patriottismo,
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Comments

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FULVIO
Thursday, 24 July 2025 12:01
Al netto della perdonabile ostentazione di nomi illustri a supporto del proprio pensiero, stupisce che Moreno, con il suo trionfo del "protezionismo", che non è che il dominio unipolare e globale della superpotenza su miseri tentattivi si doprevvivenza dei minori, c'è la cantonata dell'acclamato "ritorno della politica" in questa fase.
Surreale,alla luce di un mondo occidentale totalmente assoggettato dall'affarismo economico e rispettive lobby, vedi Trump e UE, con la cupola degli Stati sorretti dalle industrie di armi o farmaci, con l'esempio definitivo delle città privatizzate alla Milano... Moreno, rifletti!
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FULVIO
Thursday, 24 July 2025 11:56
Al netto dell'ostentazione di nomi illustri, pedonabile, stupisce in un politico di lunga lena come Moreno la cantonata sesquipedale presa, non tantro sul presunto dominio universale del protezionismo (che è in effetti l'imperialismo globalista della superpotenza, quanto sul discorso del "ritorno della politica".
Questo, alla luce del tycoon immobiliarista che prende a schiaffi governi, istituzioni e leggi, comprese quelle del suo paese, con chiaro intendo di superdominio affaristico-economico-lobbista, alla luce del dettato alla politici, di industrie militari o farmaceutiche, nonchè alla luce nostrana delle privatizzazioni di città, ministeri, istituzioni, risorse, fa davvero ridere. Dajie, Moreno, riflettici.
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AlsOb
Wednesday, 23 July 2025 21:49
Queste considerazioni sul protezionismo, per quanto parzialmentee corrette, presentano un limite di tipo scolastico, perdendo un poco di vista la più sofisticata operazione di aggiustamento e tentativo di rafforzamento dell'imperialismo da parte dell'impero, che si muove in una ottica di sicurezza nazionale e preparazione di una eventuale grande guerra e che solo fino a un certo punto resta vittima di fantasie pubblicitarie.
Il paradigma neoliberale è basato su presupposti antiscientifici e pseudometafisici, dato che ciò che conta è la narrazione hollywoodiana e la strenua promozione dell’imperialismo e degli interessi dei dominanti: le mistificazioni sul protezionismo o sul controllo dei movimenti dei capitali speculativi, se si volesse aggiungere il tema, sono solo un elemento della fantasmagoria rivolta ai sottomessi.
Per quanto riguarda la sinistra neoliberale è notoriamente più fascista della destra storica, pertanto non vi sarebbe neanche da perdere tempo con le sceneggiate che allestisce.
Non vi fu una polemica diretta tra Marx e List.
Semplicemente Marx, che non era deferente nei confronti di Ricardo, ma di cui ammirava, giustamente, l’intelligenza, (come, ammirò, per certi versi, tra i pochi, anche quella di Malthus), scrisse nel 1845 alcuni appunti critici in preparazione di un eventuale articolo sul libro di List.
Il punto di vista ideologico che Marx assume e difende in quel momento è teologicamente coerente e rigoroso, per riflettere la sua convinzione sulla efficacia della teologia della gloria in rapporto al superamento del capitalismo e interpretare le posizioni di List, che avrebbe copiato da Ferrier, come una operazione esclusivamente capitalistica, funzionale agli interessi della borghesia tedesca, che non vorrebbe essere schiava di capitalisti stranieri, ma profittevolmente schiavizzatrice delle classi inferiori locali.
La fiducia nella teologia della gloria e nell’irrevocabile destino spirituale e rivoluzionario della classe sfruttata e schiavizzata del proletariato lo porta a criticare List per rappresentare una “vile” distrazione in rapporto al compimento della teologia della gloria e alla abolizione effettiva del valore di scambio, non solo in termini nominalistici, in quanto regolatore e strutturatore di un un modo di produzione schiavistico e disumanizzante.
Il piano del discorso è pertanto differente da quello adottato da List.
In termini pratici e tecnici, per la difesa di uno sviluppo capitalistico nazionale, Marx avrebbe anche potuto concordare con List e anzi offrire consigli più sofisticati.
Si noti che a un certo punto Marx curiosamente e ironicamente apostrofa List di “dissimulato comunista”, ancorché questi non ambisse a tale gratifica, per la contraddizione che, almeno nominalisticamente, fa emergere tra forze produttive e reali contro valore di scambio, come se quest'ultimo dovesse essere minimamente controllato nel processo di attuazione di una politica economica e di uno sviluppo nazionalistico.
Venuta meno l’idealistica visione della teologia della gloria, con Stalin e Mao Zedong diventa chiaro che la via al socialismo è inizialmente e principalmente nazionalistica.
È intrigante osservare come il successo dei capitalismi nazionali della golden age sia avvenuto per paura di Stalin e secondo un modello marxiano-kalekiano che ha necessariamente controllato il valore di scambio. A un certo punto la classe dominante ha ritenuto pericoloso tale esperimento e ha imposto il paradigma neoliberale fascista, nel quale strutture sovranazionali contribuiscono a accelerare la demolizione dello stato nazionale e approfondire la sconfitta e neoschiavizzazione dei lavoratori, che hanno perso rapidamente le conquiste della golden age.
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Michele Castaldo
Monday, 21 July 2025 09:37
Caro Moreno Pasquinelli,
la cosa peggiore per un idealista, di qualsiasi natura, è quella di ipotizzare se stesso al posto di.
Campa cavallo.
Se nel corso di oltre 200 anni - fissiamo come punto la rivoluzione industriale - l'idealismo non è riuscito a trarre un ragno dal buco, è perché è imbelle supponendo se stesso al posto di.
Quanto al determinismo storico, lascia perdere, non è materia alla tua portata tanto quanto non lo è per l'insieme della sinistra liberal o liberista.
Il modo di produzione capitalistico è un MOTO STORICO che il povero (ma grandissimo) Lenin fu costretto a capirlo hegelianamente - è non poteva essere altrimenti - alla fine, quando fu costretto ad ammettere "eravamo su un binario unico della storia e al suo senso obbligato".
Alla fine lo ha dovuto capire anche Putin e correggere finalmente il tiro.
Michele Castaldo
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Lorenzo
Sunday, 20 July 2025 19:33
«Le nazioni in quanto “entità concrete” semplicemente non esistono e non hanno alcun contenuto politico fisso e predeterminato, sono comunità immaginate; mentre l’identità nazionale è sempre congiunturale e mai predeterminata»

C'è un modo più semplice, incisivo e soprattutto veritiero di rispondere alla bestialità sopracitata: osservare che la comunità del genere umano è tanto inesistente, immaginata, congiunturale e priva di contenuti fissi e predeterminati quanto la nazione (o qualsiasi altra forma di umana associazione).

L'umanismo è un progetto immateriale che, servendo gl'interessi e la forma mentis di determinate élites e innestandosi negl'istinti gregari delle scimmie glabre, cerca di plasmare e indirizzare la natura del branco. Al pari d'ogni idea ordinativa che sia esistita nella storia.
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