Il campo largo che non regge e il liberismo che vince
di Michele Agagliate
Ma dai! Ma siamo seri?
Davvero qualcuno, a Santiago del Cile come nelle redazioni europee che parlano dell’America Latina con il tono riservato alle periferie dell’Impero — da lontano, con sufficienza — pensava che un’armata brancaleone politica tenuta insieme con lo scotch potesse risultare credibile come proposta di governo? Davvero si immaginava che una coalizione dove convivono comunisti storici, socialdemocratici smunti, progressisti “liberal”, sinistra cristiana, verdi, riformisti senza riforme e moderati senza popolo potesse trasmettere l’idea di stabilità, direzione, solidità? O anche solo di chiarezza?
Perché il punto non è nemmeno la sconfitta di Jeannette Jara, che pure c’è stata ed è stata netta. Il punto è l’ennesima riproposizione di un copione che la sinistra globale — non solo cilena — continua a recitare come se non fosse già stato fischiato dal pubblico decine di volte. Tutti insieme, tutti buoni, tutti responsabili, tutti “unitari”. Tutti, soprattutto, incomprensibili.
In Cile l’hanno chiamata Unidad por Chile, ma il nome è quasi una beffa involontaria. Dentro c’era di tutto: il Partito Comunista del Cile con la sua storia, i socialisti post-tutto, il Frente Amplio in versione governativa e spompata, i liberali progressisti, i cristiano-sociali, gli ecologisti istituzionalizzati. Un campo così largo che, a forza di allargarsi, ha smarrito il campo. E con esso il senso.
Ora, si può anche discutere — e va fatto — del profilo di José Antonio Kast senza cedere alla caricatura. Il riflesso pavloviano che lo vuole “nazista” per discendenza familiare o per posture simboliche è pigro, moralistico, e soprattutto inefficace. Non è così che si capisce perché ha vinto. Kast non ha vinto perché il Cile sarebbe improvvisamente diventato nostalgico di Pinochet, come raccontano certi editoriali europei scritti col pilota automatico della Guerra Fredda. Kast ha vinto perché ha parlato una lingua che, giusta o sbagliata che sia, è risultata decifrabile.
Ed è qui che la faccenda si fa più seria. Perché il vero problema di Kast non è Kast. È il liberismo. È l’ennesima declinazione latinoamericana di un modello economico che si ripresenta ogni volta con facce diverse e lo stesso copione: ordine, mercato, sicurezza, capitali rassicurati, diritti sociali rinviati a data da destinarsi. Milei in Argentina, Kast in Cile, Noboa in Ecuador: cambiano le biografie, non cambia la struttura.
La sinistra si presenta come un mosaico di identità che non riescono a fondersi in un progetto riconoscibile. Il liberismo si presenta per quello che è sempre stato: semplice, brutale, coerente. “Meno Stato, più mercato, più polizia, meno complessità.” Un messaggio discutibile, certo. Ma chiaro. E in tempi di incertezza cronica, la chiarezza — anche quando è tossica — vince quasi sempre sulla sofisticazione confusa.
Il paradosso è che Jeannette Jara, come figura politica, rappresentava tutt’altro che un salto nel buio. Ministra del Lavoro, artefice della riduzione dell’orario a 40 ore, della legge contro le molestie, dell’aumento del salario minimo, incarnava una sinistra concreta, riformista nel senso serio del termine, radicata nel lavoro e non nelle narrative. Ma è stata inghiottita da una coalizione che ha fatto di tutto per apparire rassicurante verso l’alto e ha finito per risultare opaca verso il basso.
Il popolo — parola ormai impronunciabile nei salotti progressisti se non con le pinze — non chiede sinfonie ideologiche. Chiede stabilità, direzione, durata. Non governi “responsabili” che durano un quarto d’ora e passano il tempo a mediare tra correnti, sensibilità, sigle, identità in competizione permanente. Chiede qualcuno che dia l’impressione, vera o illusoria, di sapere dove andare. E se quella direzione è sbagliata, la si combatte politicamente, non con l’esorcismo morale.
Invece la sinistra cilena — come tante altre — ha preferito l’operazione campo largo: tutti dentro, nessuna frattura, nessun conflitto vero. Peccato che la democrazia non viva di consenso indistinto, ma di scelte. E le scelte escludono. Delimitano. Prendono posizione. Un’alleanza che pretende di rappresentare tutto finisce per non rappresentare niente, se non la propria sopravvivenza.
Nel frattempo, il Cile — paese laboratorio del neoliberismo fin dagli anni Settanta — viene raccontato come se stesse “scivolando a destra”, quando in realtà sta semplicemente restando dentro il perimetro occidentale così come oggi si configura: mercati aperti, sovranità economica compressa, sicurezza come feticcio politico, Washington come orizzonte implicito. Non una deviazione, ma una continuità. E Kast, in questo senso, non è un’anomalia: è un prodotto coerente.
Il dramma non è che il popolo si faccia “bindolare”, come si dice con un certo snobismo di ritorno. Il dramma è che dall’altra parte non ci sia più un’offerta capace di apparire solida, autonoma, non subalterna. Perché quando la sinistra smette di parlare di potere, di economia, di rapporti di forza, e si rifugia nel galateo istituzionale delle grandi coalizioni, lascia campo libero a chi il potere lo rivendica senza troppi giri di parole.
Kast passerà. Il liberismo, purtroppo, no — se non trova un antagonista che smetta di presentarsi come sommatoria di buone intenzioni e torni a essere progetto politico riconoscibile. Il Cile, come il resto dell’America Latina, non ha bisogno di governi “inermi ma inclusivi”. Ha bisogno di alternative che sappiano durare. E soprattutto, di essere prese sul serio.








































Comments
La rivolta in Cile del 2019, nota come Estallido Social, è iniziata con proteste contro un modesto aumento di 30 pesos (circa 4 centesimi di euro) del biglietto della metropolitana a Santiago, ma è rapidamente degenerata in un vasto movimento contro il costo della vita, la disuguaglianza e il sistema socio-economico...Ma il Governo Boric con ben 14 ministre neofemministe e un Draghi cileno al ministero dell'economia ha aperto la strada alla vittoria della Destra neopinochetista.
una pseudo sinistra che invece di implementare una politica redistributiva e di welfare promuove le politiche di genere che hanno conservato ( se non favorito )un aumento del disuguaglianze di redditi tra lavoratori e lavoratrici contro imprenditori e imprenditrici...
Il ministro dell'economia Mario Marcel Cullell ha avuto buon gioco implementando un politica neofemminista che puntando tutto sulla contrapposizione di genere non ha cambiato i rapporti sociali di classe, lasciando invariato il Coefficiente di Gini.
Fonte: World Bank Group https://share.google/rTc3ST0VLI6ED5rfl
Il coefficiente di Gini del Cile per il 2024 si stima intorno a 43.1, secondo una previsione della Banca Mondiale, indicando una disuguaglianza di reddito stabile rispetto agli anni precedenti (43 nel 2023 e 43.0 nel 2022), mostrando un livello di disuguaglianza relativamente elevato per l'America Latina.
, https://ilmanifesto.it/ecco-il-governo-boric-donne-clima-e-un-po-di-comunismo
la nomina più discussa e più applaudita dagli imprenditori: quella al ministero dell’Economia di Mario Marcel, già presidente della Banca centrale sotto i governi di Bachelet e Piñera e presente in tutti i governi della Concertación.
Di «grande decisione» ha non a caso parlato il multimilionario cileno Andrónico Luksic, che ha definito il neoministro «un economista serio, con esperienza internazionale, che ha dimostrato grande responsabilità alla guida della Banca centrale».
https://www.theguardian.com/global-development/2023/mar/16/chile-government-gabriel-boric-feminism?CMP
Il governo cileno si è impegnato a mettere in pratica il femminismo: ci è riuscito?