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losguardo

Trincia, Umanesimo europeo. Sigmund Freud e Thomas Mann

di Stefano Virgilio

Francesco Saverio Trincia: Umanesimo europeo. Sigmund Freud e Thomas Mann, Scholè, 2019

9788828400370 0 0 573 75Umanesimo europeo. Sigmund Freud e Thomas Mann, ultimo lavoro di Francesco Saverio Trincia, uscito nei tipi di Morcelliana/Scholè (2019), è un denso e interessante tentativo di riscoprire alcuni tratti della portata filosofica (termine particolarmente significativo, considerando la diffidenza di Freud nei confronti della filosofia) della psicoanalisi freudiana alla luce del filtro interpretativo di Thomas Mann. Parallelo a tale riscoperta è il proposito di fare chiarezza e di reinterpretare alcuni aspetti del pensiero freudiano in modo tale che, senza facili sensazionalismi o avventurismi ermeneutici, vi si possano accostare categorie apparentemente lontane, attraverso un metodo che procede senza contrapporre elementi opposti (ad esempio “razionalità e irrazionalità”, “progresso e regresso”), bensì mostrando “hegelianamente” una loro reciproca implicazione ossimorica.

Sotto questo punto di vista, degno di interesse è già il titolo, che associa il concetto di “umanesimo” al padre della psicoanalisi. Tale nesso, infatti, non appare affatto immediato, e non è un caso che l’autore dedichi al «senso del problema» l’intero primo capitolo, nel quale illustra gli scopi del lavoro e il percorso attraverso il quale si propone di raggiungerli. Trincia cerca di mettere a fuoco il modo in cui si può parlare di “umanesimo” all’interno del pensiero freudiano e, va detto, si tratta di un’impresa non facile, non foss’altro per il fatto che «Freud non definisce se stesso mai “umanista”. Nessuna dottrina e tanto più nessuna retorica o ideologia dell’uomo è presente nel suo universo concettuale e clinico» (p. 12).

Siamo quindi di fronte a un primo apparente paradosso: ricercare un umanesimo che “non c’è”. Trincia affronta la sfida col supporto essenziale di due saggi di Thomas Mann (uno dedicato direttamente a Freud e uno su Nietzsche), di cui si serve per individuare la presenza di un progetto umanistico all’interno del pensiero di Freud.

Tale sfida richiede, in virtù di quanto appena detto, non solo un notevole lavoro esegetico, ma anche e soprattutto un metodo di ricerca particolare, che

scopra la presenza dell’umanesimo analizzandone l’assenza. In altri termini, poiché non si può rintracciare in Freud una qualche compiuta “antropologia psicoanalitica”, Trincia si propone di ricavare le risposte indirette alla questione sull’uomo attraverso silenzi, negazioni e appunto assenze: la sua convinzione è che, se in effetti non esiste un umanesimo di Freud in Freud, è vero anche che una declinazione freudiana della categoria di umanesimo può emergere lavorando sull’ipotesi che esso sia «una sorta di inconscio che ne condiziona dall’interno il vario configurarsi» (p. 14). Lo stesso vale per la ricerca di un’assiologia freudiana: Trincia ne ricerca le tracce nonostante il fatto che neanche ai valori Freud abbia dedicato una diretta attenzione tematica.

La proposta interpretativa di Trincia ha comunque alcuni autorevoli precedenti. Si pensi per esempio a quei “lumi oscuri” di cui parlano Adorno e Horkheimer in Dialettica dell’Illuminismo: il riferimento può sembrare banale, dal momento che si tratta di un’opera in cui Freud è largamente presente, ma Trincia non si limita a far notare che anche Freud, pur demolendo l’idealità del progresso di stampo illuminista, «combatte l’alienazione per indicare all’uomo la via della ragione e dell’intelletto» (p. 21). Invece, sottolinea che a questa duplicità ambigua di spinta verso il progresso e di critica dell’idea di progresso fa da contraltare una duplicità fondamentale insita nell’uomo stesso, nel quale le pulsioni tendenzialmente divergenti danno vita a un “intreccio assiologico” che, pur tra ostacoli e resistenze, sta alla base di un significativo anelito morale alla trasformazione, che è uno dei concetti portanti dell’intero lavoro. Tale intreccio evidenzia infatti tutte le peculiarità di un umanesimo, quello freudiano, che appunto si fonda su una “trama” amara e antieroica, così che, se in un certo senso vale per Freud il rimbaudiano “Io è un altro”, questa descrizione dell’io non preclude affatto all’emergere di un umano, sebbene lacerato e mai compatto (e anche per questo caratterizzato, come detto, da una nascostezza che lambisce l’assenza). In altri termini, sebbene l’uomo si configuri essenzialmente come Spaltung, è proprio nel contrasto che egli trova la spinta per superare se stesso, e che i suoi valori si scoprono insiti in pulsioni che, proprio per questo, hanno una dimensione assiologica.

Prova ne sia che, in quest’io lacerato, l’istanza morale non scompare. Naturalmente essa si configura in modo diverso rispetto all’istanza morale per antonomasia, ovvero quella rappresentata dal Sollen kantiano; conseguentemente, di normativismo morale tout court in Freud non si può parlare. Tuttavia, si può parlare, secondo Trincia, di «atmosfera normativa», sebbene avente caratteristiche che a Freud stesso sembrano sfuggire1. Trincia parte dalla negazione da parte di

Freud dell’originarietà della coscienza morale, che è elemento centrale dell’etica kantiana e che invece per Freud è un prodotto derivato dalla reazione alla colpa (il Super-io gioca in questo passaggio, evidentemente, un ruolo determinante). A partire da questa negazione, desumibile in maniera netta dai testi freudiani, Trincia giunge a sostenere che l’impostazione freudiana apre, in un certo senso più di quella di Kant, lo spazio per un elemento importante sul piano dell’umanesimo morale, e cioè, come visto, proprio l’attitudine trasformativa, «una preoccupazione nei confronti di ciò che l’uomo è, deve essere, deve fare, deve creativamente produrre per trasformare il mondo a partire dalla profondità complessa della propria psiche» (p. 26), laddove invece, paradossalmente, l’istanza morale kantiana si impone mentre resta autonoma. Si tratta di un punto fondamentale, che merita una ricostruzione complessiva, anche per meglio cogliere il suo legame col problema dell’assiologia freudiana.

Trincia sottolinea che, essendo indiscutibile il fatto che non si parla di etica solo a partire da una presunta capacità intrinseca all’essere umano, che illumini l’esperienza morale attraverso categorie razionali, è possibile ricollegare anche al resoconto freudiano una riflessione su un nesso problematico come quello tra “morale” e “verità”. In questa operazione gioca un ruolo importante il già citato “filtro” di Mann, specie del suo saggio del 1929, La posizione di Freud nella storia dello spirito moderno. Secondo Mann, infatti, in Freud (che ha ribadito in più occasioni il fatto che, come scienza, la psicoanalisi non può non porsi l’obiettivo di una verità) coesistono da un lato il coraggio di affrontare il problema della verità e dall’altro la discesa nell’inconscio irrazionale, senza che vengano inopinatamente gettate via le possibili soluzioni al problema nel momento in cui si riconosce la centralità dell’inconscio anche nell’esperienza etica umana (e mostrando invece un “rispetto anti-kantiano” per l’uomo come complessità “misteriosa e demonica”). Si tratta, come si vede, di una piccola “rivoluzione” che meglio si comprende tenendo presente il legame che Freud ha non solo con Schopenhauer (è innegabile che la linea Schopenhauer - Nietzsche gli fornisca suggestioni fondamentali) ma anche, per non limitarsi al campo filosofico, con Ibsen (e se è superfluo sottolineare la centralità del concetto di “verità” in Ibsen, lo è forse un po’ meno ricordare l’interesse di Freud per certi personaggi ibseniani, in particolare la Rebekka di Rosmersholm).

L’analisi freudiana, dice Mann, apre dunque a un senso della “verità”, una verità inaudita, in cui a recitare un ruolo fondamentale sono anche il mito (la «vita mitica modellata dall’inconscio») e il gusto, a tal punto che ad essa non accede solo «l’uomo del vero» - lo scienziato - ma anche, appunto, l’uomo del gusto, ovvero il poeta (non casuale è il riferimento a Novalis, poeta e pensatore che anticipa “inconsciamente” Freud nel delineare quella che, come si vedrà a breve, può essere chiamata «filosofia della consapevolezza»2). D’altronde, connesso al valore e al senso dell’impresa per la verità, vi è un legame con la sofferenza (e la malattia) che è elemento centrale della capacità creativa, sia scientifica che poetica, come Nietzsche sapeva più di ogni altro (suona quindi particolarmente appropriata nei suoi riguardi l’espressione di Mann «amarezze della verità»): Mann definisce Nietzsche un genio «a cui sfugge, a motivo della sua genialità, la conoscenza di sé e della propria, costitutiva malattia» (perché la genialità, sana o malata che sia, non è mai riflessiva) (p. 177).

Si configura quindi (coerentemente col modus operandi di Trincia) un’interessante compenetrazione reciproca tra “consapevolezza” e “modestia”, intesa non remissivamente come rinuncia alla grandezza dell’uomo in quanto padrone di sé, bensì in un senso più vicino all’etimologia originaria della parola (Bescheidenheit viene da Bescheidwissen, cioè “giudicare rettamente”, e solo successivamente diventa moderatio): l’inconscio, per così dire, segna il limite tracciato dalla ragione-non-solo-cosciente, un limite che tocca l’inconscio, ma non lo riduce a sé né vuole tradurlo nel suo vocabolario, e per di più, per i motivi già detti, mostra importanti potenzialità proprio in quanto limite. Si tratta di una riflessione densissima di conseguenze e che fa leva su posizioni filosofiche di grande rilievo: si potrebbero riconoscere al suo interno almeno tre echi fondamentali, ovvero quello kantiano della delimitazione-fondazione, quello hegeliano della compenetrazione autocosciente del sé e dell’altro-da-sé (come Hegel spiega magistralmente nelle lezioni su Platone, ciò che è debole soccombe quando sovviene l’Altro, mentre il forte - lo spirituale - «può sopportare la suprema contraddizione»), e infine quello della metafora nietzscheana dell’albero nello Zarathustra, secondo cui solo se le radici affondano in basso, i rami possono essere slanciati verso l’alto.

Per questi motivi, e venendo a una delle tesi centrali del libro, Trincia non contesta lo status di Freud come pensatore genericamente anti-razionalista (e sarebbe del resto difficile farlo, se ci atteniamo alla definizione tradizionale di razionalismo): tuttavia, egli segue Mann nel sostenere che tale anti­razionalismo va inquadrato in una prospettiva nuova, perché è caratterizzato da una “consapevolezza razionale”. Infatti, è vero che Trincia parla di una talvolta affiorante «forzatura di Freud da parte di Mann in senso umanistico», ma è di primaria importanza che Freud, per Mann, rende (e questo è umanesimo) l’umanità più conscia della sua libertà proprio attraverso gli ostacoli dell’inconscio, tanto che (ed è un punto da sottolineare con veemenza) il traguardo futuro gli pare possa essere «la vittoria della ragione e dello spirito». Infatti, così come si può dire, superficialmente, che la pulsione prevale sull’intelletto, in realtà va anche sottolineato come «la voce dell’intelletto è debole, ma non tace finché non si è fatta ascoltare» (p. 47): in altre parole, si potrebbe dire che essa perde le battaglie ma può vincere la guerra.

D’altronde, in una prospettiva ancora evidentemente ossimorica, per Mann le categorie stesse di “progresso” e “reazione” si implicano a vicenda, dal momento che nessun periodo storico è segnato da pura progressività o pura reazione. Quindi, nel momento stesso in cui si accetta la possibile distruzione di un ordine razionale da parte dell’azione psicoanalitica, si mette in gioco il problema di una prassi umana che sia - di nuovo - migliorativa, in quanto fondata sulla coscienza e su una caratteristica della psicoanalisi che risulta qui decisiva: la capacità di mantenere il passato nel e come presente, cancellando lo schema movimento-arresto-restaurazione e scardinando il consueto rapporto tra progresso e regressività. Per questo, la scienza dell’inconscio può essere vista come terapia: perché è una cultura trasformativa dell’intera umanità attraverso il riconoscimento non dell’impotenza della ragione, ma della concezione di una ragione “altra” che non sia timorosa (anzi, tornando a quanto detto sopra, abbia il coraggio) di accettare la potenza dell’irrazionale.

Non v’è dubbio che ci sia Nietzsche, sullo sfondo di questa riflessione, come Trincia spiega nel capitolo dedicato al filosofo tedesco, tradizionalmente considerato un anticipatore di Freud (che, ricordiamolo, lo stimava più di quanto facesse con la quasi totalità dei filosofi, ma che comunque e coerentemente soprattutto lo criticava). In realtà, ciò è vero in questo caso non tanto perché entrambi respingono anti-kantianamente l’altruismo morale (visto anche il fatto che, Trincia lo scrive in una nota di grande rilievo, neanche la morale di Kant è altruista) (p. 156), e nemmeno principalmente per via del ruolo dell’Ts, bensì soprattutto in considerazione di due fattori: innanzitutto, entrambi accettano il compito (che va definito “morale”) di andare oltre la cosiddetta «nausea della conoscenza», una nausea che scuote una connessione consolidata in filosofia, quella tra “sapere” e “desiderio di sapere”; in secondo luogo, in nessuno dei due la rottura della trasparenza della coscienza razionale equivale a un accecamento dell’intelletto.

Ma proprio con riferimento a questo secondo punto le strade di Nietzsche e Freud si separano, con conseguenze davvero notevoli: per dirla con Mann, Freud riesce dove Nietzsche fallisce. Entrambi, infatti, hanno preso le mosse dall’estetismo antiborghese, ma Nietzsche ci è rimasto immerso fino alla fine, così che la sua prospettiva, nonostante appunto non scada in un generico e ingenuo irrazionalismo, si arresta a una romantica “esaltazione” del male, che rischia comunque di trascinare la ragione in un fondo oscurantista, conseguenza che, invece, la concezione di humanitas di Freud riesce a evitare. Secondo Mann (che comunque definisce il filosofo tedesco «il più grande critico e psicologo della morale che la storia della cultura conosca») la psicoanalisi freudiana presenta quindi, rispetto al “martello” nietzscheano, un vantaggio decisivo sotto almeno tre punti di vista (che nel lavoro di Trincia si intrecciano continuamente).

In primo luogo, quello (per nulla secondario) relativo alla malattia e alla sofferenza: la scienza di Freud riesce infatti a oggettivarsi di fronte al suo creatore, laddove Nietzsche, nel quale volontà di farsi spirito libero e missione filosofica fanno tutt’uno, si sobbarca pesi a cui non è in grado di fare fronte e che di fatto lo portano all’auto-crocifissione. I due temi sono assolutamente legati, perché l’autoesaltazione nietzscheana dello Zarathustra, tragica conseguenza del suo insegnamento secondo cui la filosofia non è astrazione, ma sacrificio per l’umanità, non è solo effetto di una malattia, ma anche causa di uno smarrimento della ragione che ha conseguenze morali (e dunque per Mann non è lecito). Zarathustra diventa così per Mann (forse eccessivamente severo nella conclusione, ma coerente nel trarre le conseguenze delle sue premesse di partenza) un “fantasma” falsamente grande.

In secondo luogo, quello della concezione del rapporto tra progresso e regressione: Freud infatti, a differenza di Nietzsche, non esalta il negativo, cioè la vita psichica, in opposizione a una dimensione “falsa” (in questo caso quella della coscienza). L’inconscio si configura quindi già nella vita, che si manifesta appunto come regressività-progressività, e non c’è più bisogno del filosofo trasvalutatore per tirare fuori questo negativo. Allo stesso modo, Freud non ha bisogno di elaborare una storia decostruttiva della cultura che a Nietzsche appare invece necessaria (almeno quanto il fatto che sia lui a compierla).

In terzo luogo, quello dello sguardo sulla dimensione non morale. Nel vitalismo di Nietzsche, la volontà di potenza cui questi guarda estasiato si presenta come immorale (ma forse bisognerebbe dire “amorale”), mentre Freud non solo sa evitare l’enfasi sull’immoralità, ma anche trascendere la dimensione biologico-vitale per poterla osservare criticamente. Inoltre, Nietzsche svaluta completamente l’etica (perché la contrappone alla “vita” in modo per così dire manicheo) mentre Freud le riconosce un ruolo utile proprio nel momento in cui descrive il disagio della civiltà.

Proprio a partire da questo terzo punto si può infine richiamare il tema, particolarmente importante per la costruzione (o piuttosto svelamento) dell’umanesimo freudiano, del rapporto tra Freud e il valore: Trincia sottolinea infatti come, all’interno di un’interpretazione della civiltà certamente di stampo realista, Freud operi una trasvalutazione non dei valori, ma del concetto stesso di valore.

Fondamentale è il fatto che sui valori dell’uomo lacerato e “scisso” descritto da Freud incombano innanzitutto la caducità e l’incombere della morte, che da un lato li mettono a rischio proprio in quanto valori, ma dall’altro sono la condizione “del loro permanere non usurabili” e quindi del loro sottrarsi alla distruzione, riaffermandosi su un piano che Freud non definirebbe “trascendente” ma che di fatto è tale: in altri termini, essi coincidono sì con la minaccia della morte, ma per superarla, restando al contempo valori al suo cospetto. Trincia parla di pietas per riferirsi all’ergersi della trascendenza, della continuità e della resistenza al declino e alla morte da parte della sfera morale e più propriamente assiologica dell’uomo. Tale resistenza, si badi bene, non si oppone all’inconscio; al contrario, è proprio quest’ultimo a indicare l’essenza antagonistica del valore rispetto alla fine naturale delle cose, ed è dunque l’inconscio stesso a contenere una forma di normativismo etico che si configura innanzitutto come resistenza alla consumazione e alla morte. Tale normativismo è alla base di un umanesimo inteso perciò anche come insieme dei valori che non soccombono alla morte, di cui è portatore appunto un «uomo della pietas» che sa sopportare l’inconscio e la caduta della centralità della coscienza proprio perché ciò permette l’apertura a quella che, suggestivamente, Trincia chiama «morte immortale»3.

Naturalmente, si tratta di una trascendenza da intendere in senso peculiare, allo stesso modo del suo rapporto col concetto di “valore”. Freud, come è noto, sottrae alla religione il ruolo di “presidio esclusivo” del valore, ma rispetto ai critici settecenteschi e ottocenteschi della religione (“grandi”, ma tra i quali non vuole essere annoverato proprio per la diversità del suo approccio) egli va oltre la sua “semplice” confutazione, perché si concentra sul suo senso, non sulla sua verità, e quindi tenta di superarla non cancellandola, ma, in puro stile psicoanalitico, trasformandola in discorso. Inoltre, il valore freudiano della Kultur, in particolar modo, non viene decostruito né distrutto, bensì “sfidato dall’interno”, nel momento in cui - di nuovo, ossimoricamente - ospita al suo interno il suo avversario (questo sì, “distruttivo”).

In sostanza, il lato difensivo della costrizione e della rinuncia può configurare - anche più esplicitamente di quanto sembri nel testo di Freud - un bastione, una “gabbia assiologica” che fa della Kultur stessa un blocco valoriale, pur nella sua ambivalenza. Potremmo quindi dire, traendo le conclusioni del discorso di Trincia, che il compromesso e la resistenza alla distruzione sono la cifra fondamentale di un’etica che può essere definita “anti-etica”, purché la seconda parte del termine composto abbia almeno tanto risalto quanto la prima, e non venga invece a essa sacrificata: la sfida del mantenimento dell’equilibrio psichico di fronte alle pulsioni all’interno del singolo individuo e al contempo all’interno della civiltà rende il valore della Kultur un valore desacralizzato, umano e ambivalente, ma in un contesto assolutamente etico, caratterizzato dall’intrecciarsi a livello personale e sociale di spinte contrapposte e coabitanti, nelle quali è impossibile individuare il polo positivo e quello negativo. In tal senso, seguendo la linea “stato di natura-civiltà-difesa-repressione”, ogni elemento si spiega solo nel rapporto con gli altri, e in base a tale rapporto acquisisce il suo valore, così che la rinuncia pulsionale, necessaria per la vita associata, è un valore sebbene sia una nevrosi, e la trasvalutazione della religione (più che la sua negazione) porta a un progresso nel senso di un genuino umanesimo proprio perché compiuto (nell’immanenza) nel momento stesso in cui l’uomo rinuncia alla sua onnipotenza terrena, non sostituendo alcuna religione nuova a quella trasvalutata.

In questo continuo richiamarsi di alcuni dei temi fondamentali dell’opera, spicca una conclusione (di nuovo assolutamente etica) particolarmente significativa e con essi del tutto coerente: non si parla più di un uomo che ha valori, ma che è valore, nel senso proprio dell’umanesimo nella sua versione freudiana. Una versione che, fondamentalmente, valorizza la sfida dell’essere umano a se stesso (un essere in cui la ragione non nega e non domina l’altro da sé) non nonostante si fondi su un’atavica debolezza dell’uomo e sulla sfiducia nel progresso come prospettiva di una vittoria di un qualche ordinamento morale (o, nietzscheanamente, extramorale) del mondo, ma proprio per questo. Uno sguardo realista e disincantato, quello di Freud, che però, come Trincia fa bene a ricordare, non preclude a uno sguardo sul futuro che porti in sé una speranza; di nuovo, non si tratta di essere progressisti (à la Kant) o pessimisti. Se ben interpretiamo la proposta umanistica di Freud, il progresso di cui egli parla è basato su un ultimo, decisivo ossimoro: comprendendosi come essere portatore di coesistenti contraddizioni e cercando il modo di conviverci costruttivamente, l’uomo fa un passo avanti solo nel momento in cui ne fa uno indietro.


Note
1 Trincia tocca qui un tema che gli è particolarmente caro, al quale ha dedicato un saggio spe­cifico (Kant dopo Freud) e di cui ha trattato alcuni aspetti anche in un altro lavoro sulla “morte” dell’etica in Freud. Si noti en passant che la parola “atmosfera” pare particolarmente calzante, visto che si tratta di un qualcosa che spesso percepiamo senza che propriamente siamo in grado di dire come l’abbiamo percepito, o che sentiamo un’atmosfera di un certo tipo senza che appa­rentemente ci siano degli elementi oggettivi che giustifichino la nostra percezione: appunto, un’assenza che “ci parla”.
2 Trincia, qui, segue Mann nel dichiarare che il freudismo, preceduto in modo appunto meno consapevole dal romanticismo, mira «non ad un aggiustamento compromissorio dei sintomi nevrotici dei singoli, ma all’istituzione di un ordine emanante da un superiore equilibrio vitale dell’umanità in quanto tale» (p. 58).
3 Nella trattazione della pietas si intrecciano due tematiche alle quali Trincia si è spesso inte­ressato, ovvero il problema della “trascendenza” dei valori, ricorrente nelle sue opere di etica (si pensi a Il governo della distanza), e il tema della caducità, affrontato da ultimo nel saggio Il pensiero come pietas, del 2016.

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