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Imperialismo contro Bolivarismo

di Gaetano Colonna

Bolivar 2025 e1762097742529.jpgNella storia dell’Occidente anglosassone vi è un peccato originale: la congiunzione fra capitalismo e imperialismo. Così come il capitalismo non si può comprendere senza l’espansione coloniale e mercantile inglese, così non si può dimenticare che nella Gran Bretagna di fine XIX secolo si è cominciato a giustificare il dominio sui popoli del mondo intero con la difesa della ricchezza accumulata dall’oligarchia britannica.

Questo peccato originale si è trasfuso, attraverso le guerre del XX secolo, nella potenza americana – fatto questo che spiega in ultima analisi perché nessuna delle amministrazioni Usa, indipendentemente dalle colorazioni di partito, può rinunciare a una politica imperialista.

Non sappiamo in questo momento se l’amministrazione Trump attaccherà o meno militarmente il Venezuela, ma quanto avvenuto da decenni nei rapporti fra lo strapotere nordamericano e il Venezuela è una delle più chiare testimonianze storiche di quanto appena detto.

La colpa del Venezuela, agli occhi delle varie amministrazione succedutesi alla Casa Bianca in questi decenni, è una sola: aver cercato di sottrarsi al dominio imperiale che gli Usa esercitano sul continente latino-americano dalla fine del XIX secolo.

 

Repubblica bolivarista

Hugo Chávez, il militare venezuelano che ha guidato il Paese dal 1999 al 2013, sostenuto per tutto questo non breve periodo da un indiscutibile e indiscusso sostegno popolare, oltre ad aver dato forma ad un sistema politico in qualche modo alternativo al modello ultra-liberista dilagante in Sud America (e non solo…), ha cercato anche di costituire una propria base ideologica, che rimane ancora il riferimento per il suo successore Nicolás Maduro.

La si può riassumere nei termini del Libro Azul, pubblicato dallo stesso Chávez nel 1991: riprendendo il pensiero e l’azione sviluppatasi da “tre radici”, le figure chiave della lotta per l’indipendenza del Venezuela contro il dominio coloniale europeo (Simón Bolívar, Simón Rodríguez, Ezequiel Zamora), il bolivarismo propone un modello ideale specifico per il mondo latinoamericano. Afferma una visione libertario-solidaristica della società, organizzata nelle sue tre componenti fondamentali, politica, economica e culturale – il cui presupposto è che «la società esiste per aprire all’umanità la strada verso l’espressione delle sue forze interiori, in modo tale che esca dal mero individualismo, al fine di migliorare la capacità di pensare, inventare e creare i propri modi di esistere, in costante interazione e solidarietà degli esseri umani con i propri simili».

In concreto, il regime bolivarista venezuelano ha agito difendendo il proprio patrimonio economico, con la creazione della compagnia nazionale Petroleos de Venezuela (PDVSA) e la statalizzazione del Banco de Venezuela (BDV), per sviluppare con queste risorse una politica sociale che ha ottenuto successi notevoli in particolare in ambito scolastico-educativo e dei servizi sociali.

 

La posta in gioco

Questa importazione, nell’era del turbo-capitalismo non poteva essere certo gradita agli Stati Uniti, soprattutto da parte di un paese, come il Venezuela, che è il maggior detentore di riserve petrolifere a livello mondiale: esse, stimate in ben 303 miliardi di barili, persino superiori a quelle dell’Arabia Saudita (267,2), sono principalmente concentrate nella cosiddetta Orinoco Belt, un’area di circa 55mila km2 nella zona centro-orientale del Paese.

L’esigenza di abbattere il regime bolivarista venezuelano è quindi strettamente legata alla lotta per il controllo delle materie prime strategiche a livello globale, una logica che Trump ha così felicemente riassunto: «Noi compriamo dal Venezuela il petrolio, non potremmo andarcelo a prendere?».

Trump in realtà è solo l’ultimo dei sostenitori di una politica aggressiva nei confronti del Paese latino-americano. Infatti il sistema sanzionatorio che ha prodotto il progressivo strangolamento dell’economia venezuelana, data da assai prima. Fu infatti il democratico Barack Obama ad applicare le prime sanzioni economiche, nel 2015. Riprese da Trump, hanno permesso di sottrarre al Venezuela tra l’altro 1,5 miliardi di euro da parte della portoghese Novo Banco; 453 milioni di euro da parte di Clearstream, facente parte del gruppo Cedel-Deutsche Börse Group; 1,3 miliardi di sterline, valore delle 31 tonnellate di oro venezuelano detenuto presso Bank of England, da essa tranquillamente incamerate.

Gli oltre 930 provvedimenti sanzionatori applicati dagli Usa, ma anche da altri attori internazionali fra cui l’Unione Europea, ha fatto sì che, in otto anni (2015-2023), il reddito in valuta estera del Venezuela si è ridotto del 90%. Dal 2015, l’industria petrolifera nazionale, che nel 2000 produceva 3 mln di barili, nel 2020 ne ha prodotti 440mila. Il calo del prodotto interno lordo è stato di 642 miliardi di dollari. Inoltre, le sanzioni hanno provocato il congelamento di risorse nel sistema finanziario e nelle organizzazioni finanziarie multilaterali per oltre 22 miliardi di dollari. La più importante risorsa del Venezuela all’estero, la Citgo Petroleum Corporation, la settima raffineria più grande nel mercato statunitense, è bloccata e minacciata di esproprio giudiziario in base alle sanzioni imposte dagli Stati Uniti.

Infatti, Trump nel gennaio 2019 ha imposto l’embargo totale contro il paese sudamericano, con un ordine esecutivo nel quale si legge: «Tutte le proprietà del governo del Venezuela che si trovano negli Stati Uniti sono bloccate e non possono essere trasferite, pagate, esportate, ritirate o trattate», adducendo, come al solito, come motivi della decisione la «continua usurpazione del potere di Nicolás Maduro e delle persone affiliate a lui, nonché le violazioni dei diritti umani».

Per difendere le proprie materie prime, il governo Maduro si è allora svincolato dal dollaro creando il petro, una cripto-valuta che ha come base economica i giacimenti di petrolio, diamanti, gas e oro, materie prima di cui il Venezuela è ricco, il cui controllo costituisce quindi con ogni evidenza la posta in gioco della partita.

 

Guerra politica

A questa vera e propria guerra economica contro il Venezuela, si sono via via susseguiti nel tempo anche ripetuti tentativi di rovesciare il regime bolivarista, anche dopo la morte di Chávez (2013) e l’arrivo alla presidenza del Paese di Maduro.

Come sappiamo, da ultimo, il 16 ottobre 2025 scorso, Donald Trump ha dato il via a un’aggressiva campagna contro il Venezuela, dando via libera a operazioni segrete della CIA, dispiegando 4.000 marine e cacciabombardieri F-35 nei Caraibi, schierando numerose unità navali in prossimità delle coste venezuelane, lanciando attacchi contro imbarcazioni civili, che hanno ucciso almeno 60 persone, imponendo agli staterelli caraibici più prossimi al Venezuela di mettere a disposizione porti e basi aeree. Nei prossimi giorni, a questo spiegamento militare si unirà anche la maggiore portaerei statunitense, la USS Gerald R. Ford (CVN-78), che fino a pochi giorni fa stazionava intorno alle coste italiane.

Per capire cosa sta in realtà accadendo, serve fare un passo indietro, precisamente al 2019, primo mandato di Trump: il presidente Usa aveva già deciso in quella occasione di invadere il Venezuela. Il suo consigliere John Bolton spinse con forza per un cambio di regime nel Paese retto da una presidenza erede di Hugo Chávez, contro il quale già avevano operato le amministrazioni Usa: Bolton aveva tranquillamente ammesso di aver pianificato colpi di stato in tutto il mondo, incluso quello in Venezuela. Lo stesso 16 ottobre, potenza delle coincidenze, Bolton è stato incriminato da una giuria del Maryland per 18 capi d’accusa relativi alla divulgazione o alla detenzione di documenti in materia di difesa nazionale…

Un’invasione avrebbe tuttavia violato la Carta delle Nazioni Unite, che vieta l’uso della forza contro stati sovrani senza l’approvazione del Consiglio di Sicurezza: ma in quella sede gli alleati di Maduro, Russia e Cina, gli Stati cosiddetti revisionisti, avrebbero probabilmente opposto il loro veto.

A livello nazionale, poi, la Risoluzione sui Poteri di Guerra richiedeva il consenso del Congresso Usa per impegnare il Paese in un conflitto, in assenza di una minaccia imminente contro gli Stati Uniti, che il Venezuela certo non rappresentava e non rappresenta.

Inoltre, gli alleati regionali dell’Organizzazione per l’America del Sud e del Gruppo di Lima, che raggruppano la maggior parte degli Stati latino-americani, si opposero all’azione militare, temendo ondate di rifugiati e reazioni anti-americane. Il sostegno pubblico era debole anche negli Usa, dove solo il 30% degli americani sosteneva l’intervento, per cui Trump, in vista della rielezione nel 2020, non poteva correre in quel momento il rischio di impantanarsi in un nuovo Iraq: i consiglieri militari statunitensi avevano evidenziato gli incubi logistici che avrebbe provocato il territorio accidentato del Venezuela, nonché la possibile resistenza delle milizie fedeli a Maduro, che, contando più di quattro milioni di persone, rischiavano di trasformare l’aggressione militare nordamericana in una prolungata guerra di guerriglia.

La fallita rivolta nel 2020 di Juan Guaidó, debole leader dell’opposizione, è stato poi un elemento decisivo per dissuadere Trump da un’azione di forza, in quel momento: personaggio pressoché sconosciuto, privo di carisma o legittimità elettorale, auto-proclamatosi presidente, Guaidó in ben tre tentativi di colpo di stato non è riuscito a portare dalla sua parte né il popolo né le forze armate venezuelane. A nulla è servito nemmeno il proclama con cui Guaidó proclamava, il 7 maggio 2019, che l’Assemblea Nazionale (AN) in ribellione avrebbe approvato il ritorno del Venezuela al Trattato Inter-Americano di Assistenza Reciproca (TIAR)[1], misura che, dichiarava, cerca di “rafforzare la cooperazione con i rimanenti 17 paesi membri del continente e aumentare le pressioni” contro il governo costituzionale di Nicolás Maduro.

Un nuovo tentativo di rovesciare la repubblica bolivarista venezuelana avviene in occasione della rielezione di Maduro nel 2024: giudicata corretta da 910 osservatori internazionali con garanzie biometriche e il 54% di controlli automatici, viene però liquidata come una frode. Ma questa contestazione, come in altri recenti contesti europei, fornisce soltanto una copertura propagandistica per provocare scioperi volti a indebolire il governo.

Ecco tornare sulla breccia in questo momento un altro personaggio buono per tutte le stagioni: María Corina Machado, premio Nobel 2025, che promette la privatizzazione delle risorse nazionali, garantendo ad aziende statunitensi come Chevron, da sempre operante col petrolio venezuelano, «milioni di barili». Il suo Nobel è quindi il premio per promuovere in Venezuela un programma neoliberista gradito a Washington, lo stesso tipo di programma che ha garantito il sostegno statunitense al presidente argentino Javier Milei: privatizzare la PDVSA, riconsegnando i trilioni di dollari della Cintura dell’Orinoco a giganti americani come ExxonMobil e Chevron, appunto.

La Machado ha ripetutamente dichiarato in interviste ai media nordamericani che «le aziende statunitensi guadagneranno un sacco di soldi», promettendo di «privatizzare tutta la nostra industria» e di scambiare il debito con gli investimenti, ipotecando di fatto il futuro economico-finanziario del Venezuela presso Wall Street.

Finanziata dalla National Endowment for Democracy think-tank da sempre legato alle strategie anticomuniste e conservatrici statunitensi – la Machado aveva co-fondato Súmate nel 2002 per estromettere Chávez, ottenendo importanti sovvenzioni dal mondo politico nordamericano, sempre in nome della “democrazia”. Si è poi avvicinata a Bush, Rubio e Trump, dedicando il suo Nobel al presidente degli Stati Uniti, nel bel mezzo della mobilitazione militare da questi voluta nei Caraibi.

Nel 2014 e nel 2017 era già stata tra le promotrici della Operacion La Salida, con le cosiddette guarimbas, proteste violente facenti parte di una strategia di destabilizzazione del Paese, battezzata swarming dai tecnici dei conflitti non convenzionali: una tattica di guerra asimmetrica che uno studio della Rand Corporation ha definito nel 2000 «un modo strategico, coordinato e apparentemente amorfo, ma deliberatamente strutturato, di condurre attacchi militari da tutte le direzioni». L’obiettivo finale, secondo gli autori dello studio, Juan Arquilla e David Ronfeldt, è massimizzare la saturazione del bersaglio e, quindi, sopraffarne o violarne le difese. All’epoca, ne sottolinearono l’importanza quale «dottrina definitiva che avrebbe abbracciato e guidato sia la guerra informatica che quella di rete». Il saldo di questa applicazione dello swarming al caso Venezuela è stato 43 morti, 486 feriti e 1.854 arrestati.

Nessuno ha parlato di quanti nelle garimbas sono stati bruciati vivi per essere o apparire chavisti, come Orlando Figuera, un giovane accoltellato e bruciato vivo dai manifestanti dell’opposizione quando lo fermarono mentre tornava a casa dal lavoro a Chacao, perché era nero e chavista.

Il neo-premio Nobel non disdegna del resto altre autorevoli alleanze internazionali, come quella con il partito Likud israeliano. Il partito della Machado, Vente Venezuela, ha infatti stabilito un gemellaggio col partito di Beniamin Netanyahu, cui ha chiesto di intervenire militarmente in Venezuela, promettendogli di spostare l’ambasciata venezuelana a Gerusalemme in caso di sua vittoria elettorale: la richiesta non ha avuto al momento esito, per quanto ne sappiamo, probabilmente perché il premier israeliano era già in altre faccende affaccendato.

Da ultimo, gli statunitensi hanno accentuato, proprio come richiesto da questi democratici oppositori, la pressione, con strumenti storicamente ben noti. Ne sono testimonianza, nel 2020, l’avventuroso sbarco di mercenari nella Operación Gedeón che ha dato modo a Maduro di esibire i passaporti americani di alcuni di questi eredi della Baia dei Porci cubana; negli ultimi mesi ecco poi il clamoroso progetto, affidato agli immancabili estremisti di destra, di compiere un attentato false flag contro l’ambasciata Usa a Caracas, per altro chiusa – progetto, necessario e sufficiente a provocare un attacco armato nordamericano, fortunatamente sventato per tempo dal governo bolivarista.

 

Accuse al Venezuela

L’operazione attuale viene motivata mediaticamente come parte della lotta proclamata da Trump contro il traffico di droga e l’immigrazione clandestina verso gli Usa: per questa ragione Nicolás Maduro viene presentato come la mente di bande di narcotrafficanti come Tren de Aragua (TdA). L’immigrazione venezuelana e le bande del TdA, sono quindi descritte quali minacce dirette alla sicurezza nazionale statunitense.

Oltre otto milioni di venezuelani hanno abbandonato il Paese dal 2014, certamente anche a causa dello strangolamento voluto dalle amministrazioni Usa, e molti di loro sono entrati negli Stati Uniti. Quanto al fatto che Trump definisca Maduro come il capo supremo della gang TdA, affibbiandogli l’etichetta di terrorista e una taglia di 50 milioni di dollari, è il caso di ricordare che, nel settembre 2023, Maduro ha schierato 11mila soldati per fare irruzione nel carcere di Tocorón, divenuto una roccaforte del TdA, dotata persino di zoo e discoteca…

Le forze venezuelane hanno ucciso alcuni dei narcos in questo attacco e in altri successivi, dimostrando in tal modo di vedere nel TdA non proprio un alleato, ma semmai un elemento destabilizzante per il regime bolivarista: cosa comprensibile, stante il fatto che, sempre un’amministrazione nordamericana, in questo caso quella Biden, dopo aver proclamato che i TdA sono un’organizzazione terroristica, ne ha poi rilasciato alcuni esponenti…

È poi documentato che il National Drug Threat Assessment del 2024 della Drug Enforcement Administration (DEA) statunitense non fa alcuna menzione del Venezuela. E un rapporto classificato del National Intelligence Council statunitense ha certificato che Maduro non controllava alcuna organizzazione dedita al narcotraffico. Non si può negare che ci sia transito di droga attraverso il Venezuela, ma il volume è marginale rispetto alla cocaina che attualmente viaggia lungo le rotte della costa pacifica del Sud America. E il Venezuela non ha alcun ruolo nella produzione e nell’esportazione di droghe sintetiche come il fentanyl, né nella più ampia diffusione degli oppioidi negli Stati Uniti. In parole povere, se l’amministrazione Trump avesse effettivamente intenzione di combattere il narcotraffico, il Venezuela avrebbe poco senso come obiettivo.

L’ipocrisia raggiunge il culmine, quando è invece un dato di fatto conclamato che sono proprio banche statunitensi a riciclare miliardi di dollari in contanti provenienti dai cartelli della droga. Ricordiamo: multa di 3 miliardi di dollari inflitta alla TD Bank nel 2024, per 470 milioni di dollari di profitti derivanti dal fentanyl; multa da 160 milioni di dollari a Wachovia per riciclaggio di 390 miliardi di dollari per i cartelli messicani; multa da 1,9 miliardi di dollari a HSBC che ha riciclato 881 milioni di dollari per il cartello di Sinaloa. La malavita organizzata cinese ha poi convogliato 312 miliardi di dollari attraverso le banche statunitensi, a favore dei cartelli del narcotraffico dal 2020 al 2024. Le multe colpiscono le istituzioni finanziarie in quanto aziende, per cui nessun singolo dirigente rischia personalmente il carcere.

Il business quindi può continuare. Esso è funzionale alle strategie delle amministrazioni Usa: le banche traggono profitto dalla droga in patria, al tempo stesso l’emergenza droga serve per motivare interventi militari all’estero. Lo stesso vale per l’immigrazione: le sanzioni (assai più di Maduro) hanno spinto l’immigrazione, e anch’essa diviene pretesto per un’aggressione contro uno Stato sovrano.

 

Il futuro latinoamericano

Chi credeva e sperava che Donald Trump avrebbe determinato una svolta epocale nella politica interna ed internazionale nordamericana crediamo sia oramai obbligato, se in buona fede, a ricredersi.

Nulla resta del movimento populista, nato negli Stati Uniti sul finire del XIX secolo contro i grandi monopoli e il predominio della valuta in oro della grande finanza su quella popolare in argento. Un movimento faticosamente sopravvissuto fino al periodo fra le due grandi guerre mondiali, fino ai tentativi cioè di Huey Long e Charles Lindbergh, per fare i nomi più noti. Tentativi falliti a opera dei sostenitori dell’interventismo democratico, il braccio politico-militare supportato dai più attivi ambienti della finanza internazionale di quell’imperialismo liberale che si era affermato a fine Ottocento nei circoli anglosassoni protagonisti dell’espansione imperiale, in nome del Destino Manifesto.

Oggi, non possiamo quindi che augurare alla repubblica bolivarista di sopravvivere ancora a lungo al disegno di potenza statunitense, come esempio concreto, per il continente latino-americano, di una possibile alternativa, pur con tutti i suoi limiti, alla schiavitù del debito e delle oligarchie appoggiate dagli Stati Uniti.

Una speranza che ha radici nelle parole pronunciate, sulla collinetta di Montesacro allora compresa nell’agro romano, il 15 agosto 1805, da Simón Bolívar:

«Giuro sul mio onore e giuro sulla mia Patria che non darò riposo al mio braccio né pace alla mia anima fino a che non avrò spezzato le catene che ci opprimono per volontà del potere spagnolo».

Giuramento che El Libertador seppe indubbiamente mantenere, a gloria dei popoli sudamericani. Anche se quelle catene da allora hanno indubbiamente cambiato padrone, quella volontà non deve mai spegnersi, né in America Latina né altrove.


NOTE
  1. Il Trattato Inter-Americano di Assistenza Reciproca (TIAR), detto anche Trattato di Rio, dalla città brasiliana dove fu originariamente firmato il 2 settembre 1947, include l’impegno della difesa collettiva di fronte a qualsiasi attacco armato da parte di uno Stato contro una delle nazioni firmatarie. L’area geografica di azione del trattato comprende l’America e 300 miglia a partire dalla costa, compresa la regione tra Alaska, Groenlandia, al nord, e nella zona artica, fino alle isole Aleutine. Nel sud comprende la regione antartica e gli isolotti di San Pedro e San Pablo, oltre l’isola di Trinidad.
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