Print Friendly, PDF & Email
e l

Il decennio perduto dell’ Unione europea

Antonio Lettieri

Si mette in discussione la stessa esistenza della moneta unica, che pure era nata al culmine di un momento di magnificenza per l’Europa. Bisognerebbe invece riconoscere che la crescita anemica e l’attuale crisi sono il frutto di politiche radicalmente sbagliate

La crisi greca ha rilanciato il dibattito sulla natura dell'Unione economica monetaria, la sua origine e i rischi di disintegrazione. Per alcuni commentatori si tratta di una crisi annunciata e inevitabile. L'unione monetaria – è la tesi - non può funzionare senza istituzioni politiche. Oppure, traducendo la questione in termini economici: un'area valutaria è destinata al fallimento senza il verificarsi d quelle che il premio Nobel Robert Mundell descrisse, nel secolo scorso, come condizioni "ottimali", tra le quali la piena mobilità del lavoro e la flessibilità di prezzi e salari. Coloro che condividono il primo o il secondo di questi punti di vista (o entrambi) traggono dalla  crisi greca – e dall’insieme degli squilibri che agitano l’Unione - una prognosi sfavorevole per il destino della moneta unica. In breve, l'Unione monetaria sarebbe destinata alla disintegrazione.

L’euro al tornante del secolo

Considerato il futuro incerto, quando non una crisi fatale, è giusto partire da una domanda preliminare. Era la moneta unica una costruzione utopica, priva di un reale fondamento? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo tornare al volgere del secolo scorso, quando l'euro prese corpo. Erano anni nei quali l'Unione europea stava vivendo un momento di magnificenza. Al culmine di un decennio, che era iniziato con la caduta del muro di Berlino e la riunificazione tedesca, l’Unione era finalmente indirizzata su un percorso di crescita e di motivato ottimismo. È in questo quadro che, nella primavera del 2000, un vertice straordinario dei capi di Stato e di governo dell’Unione si tenne a Lisbona per delineare la strategia europea per il nuovo decennio. Il vertice si concluse con l’affermazione di una serie di obiettivi, tra i quali ne spiccavano reciprocamente collegati: la piena occupazione - un obiettivo a lungo rimasto fuori dall’agenda politica - e, strettamente collegato al primo, l’obiettivo di una crescita media del prodotto interno lordo del tre per cento all'anno.

Si trattava di obiettivi troppo ambiziosi e infondati? È un dato di fatto che essi apparivano del tutto realistici. Alla fine degli anni novanta, l'UE aveva realizzato una crescita economica appunto dell’ordine del tre per cento, mentre erano stati creati dieci milioni di posti di lavoro, con un tasso di crescita superiore a quello degli Stati Uniti. A conferma di questa tendenza l'anno 2000 si chiuse con una crescita media UE del 3,5 per cento. L'ottimismo per il nuovo secolo che si apriva sembrava fondato. E la Commissione europea, simulando l'agenda di Lisbona, calcolò per i quindici paesi della vecchia Europa un livello medio di disoccupazione nell’ordine del tre per cento entro il 2010. In breve, la moneta unica nasceva sotto i migliori auspici.

Sfortunatamente, dieci anni dopo, nessuno di questi obiettivi è stato raggiunto. La crescita media nell'UE è risultata poco sopra l'1 per cento l'anno. Il tasso di disoccupazione è tornato al 10 per cento, come nei primi anni novanta. In altri termini, un decennio perduto. Cosa è successo? Cosa è andato storto?

  

Tre diverse filosofie


Citerò, per cominciare, alcuni ricordi personali. Come consigliere per gli affari europei del ministro del Lavoro, ebbi in quegli anni l’occasione di partecipare alle discussioni con i governi dei maggiori paesi dell'Unione europea, finalizzate alla preparazione della piattaforma di Lisbona. Nessuno dei governi si mostrava contrario agli obiettivi elaborati per il vertice di Lisbona con al centro i temi della crescita e dell’occupazione. Ma vi erano differenze di accento. Il cancelliere socialdemocratico tedesco, Gerhard Schroeder, enfatizzava la necessità della stabilità monetaria, sotto il controllo della Banca centrale europea  - costruita a immagine della Bundesbank - come la questione  essenziale per realizzare una crescita “sostenibile”. D'altra parte, il governo britannico, che aveva rifiutato di aderire all'euro, metteva in primo piano le "riforme strutturali": in altre parole, le liberalizzazioni del mercato, a partire dalla deregolamentazione del mercato del lavoro. Un atteggiamento diverso caratterizzava la posizione del governo francese  - assunta anche in un memorandum congiunto con il governo italiano - che sottolineava l’esigenza di una  politica economica “attiva” da parte delle istituzioni europee. Una posizione, quest'ultima, che per molti aspetti riecheggiava  le posizioni di Jacques Delors e del suo Libro bianco su "Crescita, competitività e occupazione".

Le differenze politiche e ideologiche tra i grandi paesi dell'UE non erano sorprendenti. Tre anni prima, nel 1997, quando era stato varato il Trattato di Amsterdam, che aggiornava quello di Maastricht, Lionel Jospin aveva ottenuto che il nuovo patto, inizialmente limitato alla "stabilità", fosse definito: "Patto di stabilità e crescita". Un’aggiunta che poteva essere considerata puramente cosmetica, ma che. di fatto, rifletteva due divergenti, se non opposte, concezioni della politica economica e sociale europea. Così, il consenso sulla strategia di Lisbona risultava, fin dall'inizio, intrappolato in tre filosofie diverse sul ruolo economico e sociale delle istituzioni europee. Paradossalmente, anche se apparentemente lontani, l'ossessione tedesca per la stabilità monetaria  finiva con lo sposare il fondamentalismo di mercato di origine anglosassone.

 
Lo slittamento di sovranità

Dodici Stati UE avevano rinunciato alla loro sovranità monetaria e del tasso di cambio per dare vita alla moneta unica, con un duplice obiettivo. Il primo era un obiettivo difensivo: utilizzare l'euro come uno scudo comune contro gli attacchi della speculazione finanziaria, come quelli che un certo numero di paesi europei aveva sperimentato all'inizio degli anni novanta. Il secondo obiettivo mirava a unire gli sforzi per facilitare una crescita sostenuta, e acquisire una maggiore competitività di fronte al processo di globalizzazione. Possiamo osservare che l'obiettivo difensivo è stato raggiunto (almeno, fino alla crisi greca). Ma, dopo aver rinunciato, sin dai primi anni del nuovo decennio a una significativa politica di sviluppo, la zona euro si è condannata a una crescente marginalizzazione all'interno della nuova mappa della globalizzazione.
 
La filosofia economica dell'UE, interpretata dalla Bce e dalla Commissione europea - l'asse Francoforte-Bruxelles -  ha rapidamente manifestato tutta la sua inefficacia. Quando nel 2001-02 gli Stati Uniti furono colpiti dalla recessione, nata dalla scoppio della bolla finanziaria, la zona euro, con un mercato unico dello stesso ordine di grandezza di quello americano, avrebbe dovuto assumere il ruolo di locomotiva della crescita. Ma è successo il contrario. La Bce, nella convinzione che un tasso medio di inflazione pari al 2,3 per cento costituisse un'intollerabile violazione della frontiera del due per cento che (arbitrariamente) si era fissata, avviò una fase di ripetuti aumenti del tasso d’interesse, contribuendo al blocco della crescita nella stessa fase in cui la Federal Reserve reagiva alla crisi degli Stati Uniti tagliando i tassi fino a renderli negativi in termini reali.
Il risultato fu il dimezzamento del tasso di crescita della zona euro dal 3,5 nel 2000 al’1,5 per cento nel 2001. Ma questo fu solo l'inizio. Nel 2002 la crescita media della zona euro scese sotto l'1 per cento, mentre la Germania, in linea di principio il principale motore dell'economia europea, entrava in recessione. La conseguenza della stagnazione fu un aumento automatico del disavanzo del bilancio pubblico, oltre la liturgica soglia di Maastricht del tre per cento, in diversi paesi europei, tra i quali la Francia e la stessa "virtuosa" Germania. E la tecnocrazia di Bruxelles non esitò a denunciarli alla Corte di giustizia europea per violazione del Patto di stabilità.

In sostanza, l'asse Francoforte-Bruxelles reinterpretava la strategia di Lisbona sulla falsariga dell '"economia dell'offerta", basata, tra le altre caratteristiche, sulla deregolamentazione del mercato del lavoro, il contenimento dei salari e la riduzione della spesa sociale. Cruciale, in questo scenario, era il patto di stabilità che Romano Prodi, presidente della Commissione europea, in un impeto di audace sincerità, definì "stupido". In altri termini, gli Stati membri che avevano ceduto pezzi importanti di sovranità, come la politica monetaria e dei tassi di cambio, scoprivano che  erano stati requisiti da una oligarchia tecnocratica, ispirata alla ideologia dominante del neo-liberalismo. Con la riduzione dei principi della politica economica europea al ridimensionamento delle funzioni statali e all’auto-regolamentazione dei mercati. In questo quadro, l’UE è ha finito col diventare un'arena per una implicita deflazione competitiva, basata su molteplici forme di dumping fiscale e sociale, come inequivocabilmente dimostrava la politica di allargamento dell'UE verso i paesi dell'Europa centrale e orientale (si veda, A. Supiot, www.insightweb.it) .


Il primo annuncio del fallimento

E alla fine della prima metà del decennio, il fallimento degli obiettivi si era già consumato. Il fallimento non poteva essere attribuito alla mancanza di potere decisionale e di coordinamento da parte delle istituzioni europee, come spesso si afferma, ma agli orientamenti economici che guidavano l’asse Francoforte Bruxelles nell’impiego delle risorse politiche che gli Stati membri avevano trasferito a livello europeo. Alla fine, la crescita media della zona euro nei primi cinque anni del decennio (2001-05) risultò  dell’1,5 per cento annuo, mentre il tasso di disoccupazione era aumentato fino al 9 per cento. Ma il risultato più sconcertante era proprio quello della Germania che ha fatto registrare nell'arco di cinque anni una crescita media dello 0,6 per cento - dovuto principalmente alle esportazioni con un saldo delle partite correnti passato da meno 1,7 nel 2000 a più 5,1 per cento del PIL nel 2005 – mentre il tasso di disoccupazione era cresciuto dal 6,8 al 9,1 per cento. In sostanza, una politica di deflazione della domanda interna e un forte aumento della disoccupazione come contropartita di una straordinaria crescita del saldo delle partite correnti, soprattutto in virtù delle esportazioni all'interno dell'area dell'euro (M. De Cecco, www.insightweb.it).

 La Germania, presunto motore di crescita della zona euro, faceva deragliare l'Unione monetaria lungo un percorso di stagnazione economica e di aumento della disoccupazione. L'agenda di Lisbona era stata già bruciata a metà del nuovo decennio. In altri termini, la miscela di stabilità monetaria e di "riforme strutturali", che sintetizzava la dottrina dell 'asse Francoforte-Bruxelles aveva messo in crisi la zona euro già a metà del decennio.

  
All'inizio della seconda metà del decennio, l’ UEM, favorita dalla ripresa americana, fece registrare, per un paio d'anni, una ripresa della crescita. Ma non ebbe lunga vita. L’ossessione per l’inflazione della BCE tornò a colpire. Il forte aumento mondiale dei prezzi del petrolio e dei prodotti alimentari provocò all'interno della zona dell'euro un aumento del tasso di inflazione. Era un’inflazione importata, non dipendente da un eccesso di domanda interna. Ma la BCE, era decisa a frenare le rivendicazioni sindacali, in particolare in Germania, dopo anni di stagnazione dei salari. Il risultato fu un raddoppio dei tassi di interesse, progressivamente elevati dal 2 al 4,5 per cento tra la fine del 2005 e l'inizio del 2007. Un aumento con un impatto negativo non solo sulla domanda interna, ma destinato ad accrescere il servizio del debito degli Stati membri.

Quando, nel 2008, la nuova crisi finanziaria, nata negli Stati Uniti, gettò la sua ombra sull’economia mondiale, Jean-Claude Trichet, presidente della BCE, incredibilmente continuò a dichiarare che non la recessione, ma l'inflazione era la vera minaccia. Su questa base, la BCE lasciò invariati i tassi fino alla vigilia del crollo della Lehman.  All'inizio del 2009, mentre in tutto il mondo, dagli Stati Uniti alla Cina, si adottavano politiche di stimolo economico tendenti a evitare, o ridurre, l'impatto della crisi, la zona euro rimase in uno stato di letargia. Alla proposta francese di una politica coordinata di investimenti pubblici, la Germania reagì negativamente, preoccupata soltanto del salvataggio delle sue banche, pesantemente invischiate nella speculazione sui derivati speculativi di origine americana. Così, nel bel mezzo di una crisi globale, e dopo un decennio di politiche sbagliate con conseguenze negative per tutti, "Si salvi chi può” divenne la politica dell’eurozona.

 
I paradossi della crisi greca

La crisi finanziaria della Grecia 'è una storia di paradossi ampiamente raccontata. Ma vale la pena di tornarci. Quando, dopo una forte vittoria elettorale, George Papandreou tolse il velo che il precedente governo conservatore di Karamanlis, con la complicità delle autorità europee, aveva steso  sulla falsificazione del bilancio pubblico, Bruxelles avrebbe dovuto apprezzare la svolta del nuovo governo greco, che, da un lato, aveva svelato le malefatte delle amministrazioni passate, mentre, dall’altro, dichiarava la sua piena disponibilità a concordare un piano di austerità per riportare gradualmente la finanza pubblica su un percorso compatibile con le regole europee. Ma le cose non andarono in questo modo. L’UE, sotto la pressione di Berlino, assunse una linea irrazionalmente punitiva.

Di fronte al problema finanziario della Grecia il fattore decisivo era il tempo. Quanto tempo le autorità finanziarie europee avrebbero  consentito alla Grecia per ridurre il disavanzo? Ostinatamente, la richiesta fu un consolidamento fiscale dell’11 per cento del Pil, dal 13,6 al 3 per cento in tre anni, mentre, secondo le previsioni, il Pil avrebbe fatto registrare un vertiginoso declino cumulativo dell’ 8 per cento. Una medicina che, invece di curare la malattia, avrebbe ucciso il paziente. Non a torto si chiedeva Jean Paul Fitoussi: "Come può la Grecia rientrare dal disavanzo nel quadro della deflazione?".

In effetti, le autorità della zona euro aveva apertamente adottato un atteggiamento arrogante quanto irragionevole, diretto a punire in maniera esemplare la piccola Grecia. Al tempo stesso, i mercati finanziari, una volta messa con le spalle al muro la Grecia, e ottenuta la prova che l'euro non era  più uno scudo efficace contro la speculazione, come era stato previsto alla sua nascita, erano pronti ad assalire gli altri paesi: Irlanda, Portogallo, Spagna e, in prospettiva, l’Italia. Ma senza escludere la Gran Bretagna, dove il disavanzo pubblico è il doppio di quello dell’Italia e più elevato che in Portogallo e Spagna.

Alla fine, quando i buoi erano ormai scappati dalla stalla, l’Unione ha deciso che, almeno in questa fase, la Grecia non poteva essere abbandonata al suo destino (di default e/o uscita dall'euro), perché il costo sarebbe stato pagato dalle banche europee - soprattutto francesi e tedesche - in possesso di almeno 120 miliardi di euro di debito greco. "Si tratta formalmente del salvataggio della Grecia, ma nel fondo si tratta del salvataggio delle banche" - ha scritto sul Financial Times  Martin Wolf. Un salvataggio, in ogni caso, dubbio e molto probabilmente destinato a non essere risolutivo. Essendo giunto con un assurdo e colpevole ritardo, sotto l’attacco della speculazione, la situazione finanziaria della Grecia si è talmente deteriorata, a causa degli elevati tassi d’interesse imposti dai mercati finanziari, da far apparire sempre più probabile una futura ristrutturazione del debito greco. Qualcosa che potrebbe accadere dopo che le fasce più deboli della popolazione saranno state costrette a sopportare enormi sacrifici, e a quel punto per di più inutili, in un quadro di destabilizzazione sociale e politica.
 
Non mancano le voci critiche sulla mancanza di solidarietà all'interno dell'Unione. Ma la critica rischia di essere fuorviante. La politica fallimentare della zona euro non trae origine da una generica mancanza di solidarietà, ma dalla caparbia perseveranza in una politica tanto sbagliata quanto controproducente. Si tratta di una sostanziale, anche se non dichiarata, adesione a un fondamentalismo di mercato, in palese contrasto con l'equilibrio che Jacques Delors aveva cercato di stabilire, nel corso dei dieci anni della sua presidenza della Commissione europea, tra l'apertura del mercato europeo e una politica di crescita e di equità sociale. Il decennio perduto è il triste risultato delle scelte ideologiche e politiche adottate dall’Unione economica e monetaria.


Dopo la Grecia

Quando ormai la crisi greca rischiava di contagiare molti altri paesi, con rischi per l’euro e le banche, le autorità comunitarie hanno deciso  creare un fondo di stabilizzazione di 750 miliardi con la partecipazione del Fondo monetario internazionale, a protezione dei paesi dell’eurozona. Ma la misura più innovativa ed efficace è l'intervento diretto da parte della BCE sui mercati per acquistare più o meno direttamente obbligazioni emesse dagli Stati sotto minaccia di attacco da parte dei mercati finanziari. Si tratta di un importante passo avanti, dopo mesi di inerzia. Ma è anche vero che questo meccanismo di stabilizzazione, destinato a risolvere i problemi immediati di liquidità, lascia irrisolti i problemi di solvibilità, in mancanza di una previsione di rientro del disavanzo compatibile con la situazione economica dei paesi in difficoltà. In altri termini, un Fondo monetario europeo, piuttosto che inutilmente limitarsi a ripetere le funzioni del FMI su scala regionale, avrebbe dovuto avere una funzione doppia di stabilizzazione e di rilancio economico per l’intera area e non solo come intervento di urgenza e di ultima istanza.

Ma non si tratta solo di questo. Il ricorso al Fondo di stabilizzazione potrebbe rivelarsi per i paesi che dovessero farvi ricorso un rimedio peggiore del male. L’intervento dl fondo sarà infatti vincolato a una dura politica eufemisticamente di austerità, in realtà, pesantemente deflazionistica. Non un aggiustamento flessibile del patto di stabilità per tener conto della condizione di crisi globale, ma un irrigidimento di quei criteri restrittivi che hanno già dimostrato il loro fallimento. In altri termini, un brusco consolidamento fiscale senza crescita, in un clima di generale stagnazione.

ll patto di stabilità e crescita  continua nei fatti a rinnegare la componente relativa alla crescita. Ma c'è un punto importante. In linea di principio, le autorità finanziarie europee non negano l’obiettivo di un’accelerazione della ripresa economica. La divergenza è negli strumenti per realizzarla. Secondo la filosofia praticata negli ultimi dieci anni, la chiave della crescita dovrebbe essere nelle "riforme strutturali". In altre parole, un’ulteriore deregolamentazione del mercato del lavoro, il blocco dei salari a cominciare da quelli dei dipendenti pubblici, la riduzione della spesa sociale. La crisi utilizzata come un’ occasione  favorevole per attuare la politica neo-liberista nelle parti rimaste incompiute nel corso dell'ultimo decennio. Una linea, tuttavia, non facile da far passare senza un aggravamento delle tensioni sociali. "E' difficile - scrive il Financial Times – accettare una politica che può realizzarsi solo attraverso il taglio della spesa, i licenziamenti, il contenimento delle pensioni e altre misure di sacrificio”.
E’ possibile una diversa via d’uscita dalla crisi dell’eurozona? Una politica alternativa per l’euro è sempre esistita, anche se ripudiata. Sarebbe stata (e sarebbe) necessaria una politica coordinata di investimenti nei settori di punta dell’'industria e dei servizi, lungo un modello di sviluppo compatibile, indirizzato a rafforzare – non a deprimere - il potenziale di crescita europeo e la competitività. Nell’ambito di una crescita reale, l'occupazione e la produttività potrebbero aumentare contemporaneamente. Nel quadro della tendenza attuale, invece, queste e altre misure economiche sono resi impossibili. Da un lato, possibili investimenti privati a lungo termine non sono compatibili con uno scenario di stagnazione; dall’altro, quelli pubblici sono bloccati dai piani di drastica e indiscriminata riduzione della spesa pubblica.

Eppure, per attuare una tale politica non dovrebbe essere necessario attendere i messianici "Stati Uniti d'Europa". Una politica di coordinamento della crescita non pretende ulteriori particolari cessioni di sovranità da parte degli Stati membri, ma ragionevoli scelte politiche coordinate. Il primo obiettivo dovrebbe essere quello di liberare il Patto di stabilità e crescita dalla regola che, impropriamente, fa rientrare nelle soglie di compatibilità del bilancio la spesa corrente e gli investimenti pubblici. Il secondo dovrebbe essere l'emissione di obbligazioni europee per la realizzazione congiunta di investimenti aggiuntivi di carattere europeo, di interesse comune, nelle infrastrutture e nei settori di punta della tecnologia e della ricerca. Si tratterebbe di un impegno minimo ma coerente con una governance economica diretta al sostegno e allo sviluppo dell' euro-area. Per realizzarla non c’è bisogno di nuovi trattati, una sfida che nessun governo vuole affrontare dopo i travagli del Trattato di Lisbona. Ciò che serve è un cambiamento di filosofia politica e delle politiche. La Francia ha spesso proposto qualcosa di simile, non distante dalle vecchie proposte di Jacques Delors. Ma, la Germania è fondamentalmente ostile, temendo che una iniziativa dei governi europei potrebbe mettere a repentaglio l'indipendenza della BCE e la politica di stabilità. O, più sostanzialmente, interferire in aree, come i settori industriali rivolti all’esportazione nei quali la Germania detiene una posizione leader.

Ma la Germania dovrebbe anche sapere che, senza una prospettiva di crescita e di riequilibrio, la zona euro è destinata ad agonizzare e, infine, a disintegrarsi. Un certo numero di economisti tedeschi (cfr. J. Starbatty in Insight) suggeriscono l’istituzione di un euro “forte” limitato a Germania, Austria, Olanda, Finlandia e altri paesi piccoli. Ma si tratterebbe semplicemente di un marco allargato. Senza i paesi del Sud (e la Francia), non sarebbe una nuova eurolandia, ma la conferma del suo fallimento. Un fallimento non fatale, né predeterminato da una sorta di peccato originale. Il progetto euro, attuato al volgere del secolo, è stato compromesso da scelte politiche miopi, ispirate alla dominante ideologia neo-liberista, in contrasto con le tradizioni del variopinto ma, per molti aspetti, riconoscibile modello economico e sociale europeo. Il risultato è stato il fallimento delle speranze e ambizioni che avevano segnato la nascita dell’euro. Una schietta, sincera e imparziale analisi degli ultimi dieci anni dovrebbe contribuire a progettare un nuovo futuro per l'euro. La perseveranza negli errori del passato non ha senso. Purtroppo, non farebbe che confermare la vecchia massima secondo la quale "Dio acceca chi vuole perdere".

Add comment

Submit