L’Unione europea come progetto di classe e strategia imperialista
di Panagiotis Sotiris e Spyros Sakellaropoulos
Gli interrogativi circa il carattere dell’Unione europea, intesa come progetto di classe, non hanno ricevuto la dovuta attenzione nei dibatti marxisti, e ciò malgrado alcuni importanti interventi, proprio da parte parte marxista, miranti a una teorizzazione dell'”integrazione europea” [1]. In contrasto rispetto alla tendenza a concepire teoricamente tale processo quale evoluzione di una federazione o confederazione, ci concentreremo sulle strategie di classe in esso inscritte. Un simile approccio dimostrerà come non ci si trovi di fronte ad una forma statale sovranazionale, bensì ad un’avanzata forma assunta dalla coordinazione e integrazione gerarchiche (e necessariamente contraddittorie) del progetto delle classi e stati capitalisti europei, in cui la riduzione della sovranità statale consente una strategia di intensificato sfruttamento capitalistico. Un approccio dal quale scaturiscono conseguenze di natura non solo analitica, ma anche politica, additando la continua rilevanza, per le classi subalterne, di una strategia finalizzata alla rottura del processo di integrazione europea.
Tenteremo dunque di analizzare il carattere di classe dell’Unione europea nella sua evoluzione storica, e le modalità della sua incorporazione all’interno del sistema imperialista. Su queste basi, cercheremo di valutare le dinamiche di integrazione e l’attuale crisi del “progetto europeo”.
I primi passi dell’integrazione europea
Le ricostruzioni storiche ufficiali dell’integrazione europea tendono a presentarla come un processo emergente dal desiderio di cooperazione pacifica dei popoli europei. Tuttavia, l’integrazione ha costituito un processo ben più complesso.
L’istituzione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), nel 1951, non fu il prodotto di spontanee tendenze alla collaborazione tra stati europei, ma parte di una più ampia strategia USA mirante a contenere l’influenza sovietica, nel contesto della Guerra fredda, tramite il potenziamento dello sviluppo economico di un’Europa occidentale capitalista. Tenendo conto del fatto che le economie europee affrontavano ancora enormi problemi a seguito della Seconda guerra mondiale, nonché della presenza di grandi partiti comunisti in paesi come Francia e Italia, appariva ovvio, da parte degli Stati Uniti, fornire non solo forme di assistenza economica come il Piano Marshall (Piano per la ripresa europea), ma anche sostegno a progetti di integrazione economica e politica. Il che era evidente nel requisito, per i paesi beneficiari, di partecipare a istituti di gestione collettiva dell’assistenza economica e a elaborare programmi per la ricostruzione europea [2].
Il contributo degli Stati Uniti a tale processo spiccava nel ruolo svolto da Jean Monnet durante le prime fasi della Comunità economica europea (CEE), ma anche nelle diverse forme di sostegno al rafforzamento e stabilizzazione delle economie capitaliste europee [3]. Tutto ciò configurava il tentativo da parte degli Stati Uniti di emergere come potenza egemonica, non solo nel senso di forza superiore, ma anche in quello di garante degli interessi capitalisti globali contro il pericolo rappresentato dall’URSS, da forti partiti comunisti e sindacati, anche laddove significasse aiuto economico ai propri concorrenti potenziali, o il supporto a progetti, come quello di integrazione europea, i quali avrebbero potuto agevolare la posizione di questi stessi competitori [4].
Un processo che, insieme alla necessità di integrare la Germania occidentale condusse alla formazione della CECA, istituita nel 1951 da Francia, Germania, Italia, Olanda, Belgio e Lussemburgo (“i sei”). Fondazione, quella della CECA, che facilitava la risoluzione di tutta una serie di questioni: la tendenza verso la collaborazione economica tra paesi capitalisti europei; la gestione del problema Germania; l’attenzione a due parametri fondamentali della produzione industriale, ovvero, il carbone e l’acciaio; l’operatività di un mercato libero.
Si stabiliva anche un modello di cooperazione franco-tedesca che sarebbe stato funzionale all’intero processo di integrazione. Nonostante il successo nella fondazione della CECA, gli esordi della NATO nell’assicurare l’alleanza militare occidentale, l’ingresso nella stessa della Repubblica federale tedesca nel 1954, le fasi iniziali dell’integrazione europea non furono esattamente un trionfo. Nel 1954, l’Assemblea nazionale francese rigettò le proposte di Comunità europea di difesa e unione politica. Tuttavia, la debacle di Suez, e il fatto che gli Stati Uniti rendessero manifesto il proprio ruolo di forza guida del “mondo occidentale”, in contrasto con le vecchie potenze coloniali e imperiali, portò nel 1957 al Trattato di Roma [5]. Eppure, in questo frangente, i firmatari del trattato, il quale istituiva la CEEE, non andavano oltre i sei già citati. Il progetto “rivale” di Associazione europea di libero scambio (AELS), la quale rifletteva un approccio più classico, era anch’esso attivo, sebbene mancasse della tensione verso l’integrazione politica riscontrabile nella CEE. La crescente importanza dell’economia tedesca, esemplificata dal rapido incremento del commercio con gli altri paesi europei, faceva della Germania uno snodo rilevante e, gradualmente, i paesi AELS decisero di aderire alla CEE [6].
L’obiettivo fondamentale del Trattato di Roma, con l’istituzione della CEE e della Comunità europea dell’energia atomica (CEEA), consisteva nel creare un quadro comune fra i membri della Comunità in materia di diritto, amministrazione e fisco, nonché nel ristrutturare della produzione attraverso direttive comuni e accordi sulle specializzazioni. La fondazione della CEE coincise con l’emergere di tre differenti discorsi teorici, a segnare il terreno degli approcci mainstream all’integrazione: il federalismo, il funzionalismo e la cooperazione intergovernativa. Sebbene tutti e tre, dal punto di vista teorico, siano inadeguati a spiegare le dinamiche del’integrazione, forniscono comunque una mistura della sua ideologia ed un effettiva descrizione di diverse tendenze. Il “federalismo” può essere considerato un riferimento “metonimico” alla crescente importanza politica dell’integrazione europea; la fiducia nei cosiddetti “effetti di ricaduta” (principio cardine della scuola funzionalista) è stata la forza motrice dietro alcuni aspetti, dal ruolo della Corte europea all’unione monetaria; la cooperazione intergovernativa, infine, (per quanto in modo conflittuale e gerarchico) è rimasta il tipo di processo decisionale centrale (come indicato dall’intergovernamentalismo liberale) [7]. Al di là della mera descrizione, tuttavia, la questione teorica sul come concettualizzare al meglio l’integrazione rimane aperta e inevasa.
Contraddizioni nelle fasi iniziali dell’integrazione
Molte storie dell’integrazione europea tendono a presentarne il primo periodo come segnato, in gran parte, da fallimenti, dagli infiniti negoziati per l’istituzione della Politica agricola comune a episodi come la “crisi della sedia vuota”. Si trattava degli esiti di vecchi antagonismi, esemplificati dall’ambizione francese di rimanere forza guida dell’Unione europea, sfociata nel veto della Francia alla partecipazione della Gran Bretagna alla CEE. Ciò nonostante, possiamo già vedere all’opera la tendenza graduale all’integrazione, specialmente nei lavori delle istituzioni comunitarie, le quali iniziavano, progressivamente, a creare un “aquis comunitario“, a partire dall’operare della Corte europea, in particolare nel momento in cui quest’ultima iniziava a decidere della supremazia del diritto comunitario rispetto alla legislazione nazionale, ma anche nel caso della Commissione, sopratutto dopo il Trattato di fusione nel 1967. Sin dall’inizio vi era un certo impulso verso ciò che, in seguito, sarebbe stato definito “neoliberismo” [8]. Già nel 1939, Friedrich von Hayek difendeva l’idea di una federazione e dell’abrogazione della sovranità nazionale, quali mezzi utili a implementare la sua concezione di società di mercato. Secondo il pensatore austriaco, “l’abrogazione delle sovranità nazionali, e la creazione di un efficace ordinamento legislativo internazionale, costituiscono il necessario complemento e il logico compimento del programma liberale” [9]. Tale particolare variante delle politiche liberali e favorevoli al mercato, espressa dalla hayekiana Mont Pélerin Society, ha svolto un ruolo di primo piano nell’evoluzione della CEE e dell’UE. Ruolo altrettanto importante, quello giocato dalla tradizione del cosiddetto “ordoliberalismo” tedesco, ovvero un insieme di politiche economiche che hanno prevalso nella Germania ovest postbellica, rimanendo a tutt’oggi il retroterra teorico delle politiche fiscali tedesche e dell’UE. Esattamente la tradizione discussa da Michel Foucault in Nascita della biopolitica come esempio dell’emergente “neoliberismo”, nonché parte della formazione di una specifica governamentalità capitalistica [10]. Come sottolineato da John Gillingham, questi contenuti ideologici sono stati istituzionalizzati tramite il progetto di integrazione:
La Mont Pèlerin Society, della quale egli [Hayek] fu cofondatore nel 1947, servì come centro di diffusione non solo dei suoi propri punti di vista, ma anche di quelli delle scuole correlate e da essa influenzate, come il monetarismo, la teoria della scelta pubblica e l’istituzionalismo. […] La Direzione generale della concorrenza (DG IV), la branca più influente nella labirintica burocrazia della Commissione, ne divenne la sede [11].
Dopo la formazione della Politica agricola comune, i passi successivi verso l’integrazione e la politica del “Mercato comune” coincisero col modello di crescita economica postbellico, fatto che condusse all’allargamento dell’UE con l’adesione di Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca. Inoltre, la Politica agricola comune, risultato di un tentativo congiunto mirante a creare un’alleanza sociale con gli agricoltori (in particolare quelli medi e grandi), oltreché a garantire un flusso cotante di prodotti agricoli, rappresentò a suo modo un successo [12].
Dietro il crescente richiamo esercitato dall’UE vi erano anche considerazioni di natura politica. Per quanto riguarda i paesi dell’Europa del sud, l’adesione alla CEE, specialmente in seguito alla caduta delle dittature, era vista come una forma di rafforzamento delle istituzioni democratiche, ma anche come da una condizione “periferica”, con “l’Europa” identificata quale punto di riferimento simbolico ed ideologico. Si tratta del processo che ha portato all’ingresso di Grecia, Spagna e Portogallo. Ancora, negli anni Settanta il percorso di integrazione europea iniziò a ricevere il sostegno di settori della sinistra, specie quella euro-comunista, la quale presentava l’Europa come terreno di lotte comuni, insistendo sulla possibilità che “un’Europa unita” potesse costituire un contrappeso democratico all’antagonismo tra Stati Uniti e Unione Sovietica [13].
Tra gli anni Sessanta e Settanta, la questione dell’unione economica e monetaria iniziava ad emergere. Il punto di svolta viene generalmente indicato nel Vertice dell’Aia svoltosi nel 1969, durante il quale vennero fissati nuovi obiettivi finalizzati all’allargamento e approfondimento dell’integrazione. Sebbene tale processo ebbe inizio prima del collasso del sistema di Bretton-Woods, e della piena esplosione della crisi strutturale capitalista degli anni Settanta, la decisione di accelerare l’integrazione fu una reazione sia alle crescenti contraddizioni del regime postbellico di accumulazione “fordista”, sia al radicalismo politico e sociale espresso tanto dall’attivismo degli studenti che dei luoghi di lavoro negli anni Sessanta. L’Unione monetaria, dunque, era concepita come modo per accrescere la coordinazione tra economie europee. Tuttavia, ci si trovava a fronteggiare il fatto per cui i tassi di cambio, e i loro movimenti, riflettevano differenziali di produttività e competitività, e non esclusivamente flussi commerciali. La “correzione” garantita dai tassi di cambio, infatti, agiva non solo quale barriera protettiva per i capitali meno produttivi, ma anche come stimolo agli investimenti diretti esteri. La revoca di tale meccanismo richiedeva, oltre al coordinamento in termini di inflazione, anche un’armonizzazione dei livelli di produttività, al fine di evitare squilibri destabilizzanti. L’inizio della crisi capitalistica rese le cose ancor più difficili [14].
Dall’Atto unico europeo all’Euro: l’integrazione come strategia neoliberista
Malgrado le vittorie di partiti socialdemocratici con programmi relativamente radicali in Francia e Grecia nel 1981, l’ascesa di Margaret Thatcher in Gran Bretagna (1979) e di Helmuth Khol in Germania ovest (1982), insieme all’abbandono da parte del governo francese, nel 1983, degli aspetti più radicali del suo programma, nonché all’emergere su scala globale del neoliberismo (elezione di Ronald Reagan ecc.), portarono ad importanti cambiamenti negli orientamenti della CEE.
La strategia del Mercato europeo comune emerse come strumento per accrescere la competitività delle economie capitaliste europee. L’idea di fondo implicava che la rimozione degli ostacoli al libero flusso di merci e capitali avrebbe creato economie di scala, rafforzato la concorrenza e incrementato gli investimenti. L’Atto unico europeo (UAE), adottato nel 1986, fu un punto di svolta cruciale. Appariva ovvio che l’emergente “Unione europea” sarebbe stata caratterizzata da politiche neoliberiste, privatizzazioni ed erosione dei diritti sociali.
L’Atto unico europeo non costituì solo uno strumento mirante ad aumentare la portata degli scambi intracomunitari e dei flussi di capitale; eliminare le barriere protettive significava esporre i settori meno produttivi e competitivi a crescenti pressioni concorrenziali. Pressioni legate, oltreché alla necessità di introdurre nuove tecnologie, anche a quella di liquidare i diritti sociali passibili di ridurre la competitività (livelli salariali, accordi collettivi e protezioni sociali). Il carattere di classe di tale strategia è evidente se prendiamo in considerazione il ruolo centrale svolto dalla Tavola rotonda europea degli industriali (ERT), la quale agiva in rappresentanza dei segmenti più aggressivi del capitale, è fu determinante nella formazione delle politiche del Mercato europeo comune [15]. Inoltre, con l’introduzione del voto a maggioranza riguardo alle questioni di mercato interno, l’Atto unico europeo intensificava la pressione sugli stati membri, rafforzando l’espansione di un aquis comunitario neoliberista [16].
Il successivo e decisivo passo fu il Trattato di Maastricht (1991), col quale si gettavano le basi per l’Unione monetaria e l’Euro come moneta comune. L’introduzione di tassi di cambio fissi, e quindi della moneta comune, in un’area segnata da divergenze di produttività, sarebbe sfociata in una grande pressione a incrementare lo sfruttamento capitalistico. In un contesto di unione monetaria, come sottolineato da Guglielmo Carchedi, “i ritardatari in campo tecnologico hanno dovuto rinunciare a inflazione e svalutazione, [e] i loro capitali si sono trovati a competere tramite giornate (o settimane) lavorative più lunghe, nonché maggiore intensità del lavoro, ossia, imponendo tassi di plusvalore più alti in fase di produzione” [17]. Invece di una strategia utile ad affrontare simili divergenze, il che avrebbe significato una crescente redistribuzione dal centro europeo alla periferia, insieme a trasferimenti di tecnologia e know-how, il Trattato di Maastricht (così come quelli successivi) includeva principalmente parametri inflattivi e fiscali (massimali per deficit, debito e inflazione), i quali avrebbero potuto condurre solo all’austerità, allo smantellamento dello stato sociale e all’introduzione di forme di governance neoliberista in tutta Europa. Politiche salariali restrittive, tagli alla spesa pubblica e successive ondate di riforme pensionistiche, miranti a ridurre i deficit dei sistemi previdenziali (aumento dell’età pensionabile minima, riduzione dell’ammontare delle pensioni, introduzione forzata di fondi previdenziali privati, ecc.) sono divenuti gradualmente la norma nel vecchio continente. Al contempo, le politiche del Mercato europeo comune, negli anni Novanta, hanno consentito ulteriori privatizzazioni per mezzo dell’apertura forzata dei mercati delle telecomunicazioni, dell’energia e degli appalti pubblici.
Malgrado le battute d’arresto dell’unione economica e monetaria, coincidenti con un più ampio quadro di intense contraddizioni caratteristiche dei regimi di cambio fissi, esemplificate dalla decisione della Gran Bretagna di abbandonare il meccanismo dei tassi di cambio, l’Euro entrò comunque in vigore [18]. Più che con un’effettiva convergenza economica di tipo “strutturale”, tutto ciò ha avuto maggiormente a che fare con una convergenza nei tassi di inflazione, insieme a una dinamica dell’accumulazione relativamente favorevole.
Per i paesi del centro europeo, in particolare la Germania, la quale già vi intratteneva relazioni, l’allargamento dell’UE e l’inclusione dei paesi ex-socialisti rappresentava una strategia imperialista, aprendo nuovi mercati e prefigurando inedite opportunità di investimento – tanto più se si considera che quest’area offriva una mano d’opera esperta e altamente qualificata, basso costo del lavoro e una storia di industria e infrastrutture, nonché anticomunismo istituzionale e legislazione neoliberista e favorevole alle imprese. Le emergenti élite est europee, da parte loro, ritenevano che l’ingresso nell’UE avrebbe potuto proteggere i loro paesi dai pericoli comportati dalla rottura post-sovietica, garantendo, allo stesso tempo, opportunità ai settori più competitivi delle loro economie e attirando investimenti esteri.
Tuttavia, anche l’introduzione dell’Euro non ha portato a un’incremento della produttività. La cosiddetta “Strategia di Lisbona”, lanciata nel 2000, mirava a fare dell’UE “l’economia della conoscenza più competitiva e dinamica al mondo, in grado di raggiungere la crescita economica insieme a migliori opportunità di impiego e maggiore coesione sociale” [19]. A meta degli anni Duemila, ciononostante, il suo insuccesso era ormai ovvio [20]. Ma questa non era una tendenza uniforme, e alcuni paesi del nucleo europeo, in particolare la Germania, manifestavano una maggiore competitività, specialmente al’interno dell’Unione europea.
Esiste una tendenza verso uno stato federale europeo unito?
Per quanto ben pochi oggi sarebbero disposti a identificare l’UE come una federazione, mancandovi un demos comune e il tipo di coerenza politica che potrebbe condurre in quella direzione, la questione sull’orientamento dell’integrazione rimane aperta [21].
A nostro modo di vedere, l’UE non costituisce una forma statale sovranazionale. Resta semmai una forma di coordinamento multi-livello, necessariamente e contraddittoriamente gerarchica, tra capitali sociali totali e la loro rappresentanza politica come stati capitalisti, una forma in cui si articolano strategie di classe. Ciò assume l’aspetto di numerose e intricate reti di interconnessioni sociali (economiche, politiche, ideologiche) che includono, a differenti livelli e stadi, meccanismi sovranazionali, stati nazione, amministrazioni regionali, multinazionali e gruppi di interesse dalla portata internazionale. Tuttavia, alla base di tali complessi processi, troviamo da una parte gli interessi dell’impresa capitalista, dall’altra, gli sforzi degli stati nazione finalizzati alla salvaguardia delle condizioni di riproduzione di questi capitali, in congiunzione con la specifica posizione gerarchica di ciascun paese all’interno dell’Unione europea. In tal senso, si può parlare della manifestazione di una tendenza più ampia all’internazionalizzazione dei rapporti sociali capitalistici, nonché delle forme di produzione, e dunque l’aspetto principale dell’imperialismo moderno.
Tuttavia, a nostro modo di vedere, questo processo non porta alla creazione di un superstato, o ad un nuovo tipo di stato ibrido o semi-stato, bensì alla coordinazione di strategie e progetti di classe. A fronte dell’intensificarsi della competizione internazionale, oltreché delle pressioni esercitate dalle dinamiche della lotta di classe all’interno di ciascuna formazione sociale, le borghesie europee hanno puntato sulla coordinazione delle rispettive strategie di classe. L’UE costituisce dunque la forma politica e internazionale assunta da tale complesso e ineguale coordinamento, segnato trasversalmente tanto dall’antagonismo tra capitali quanto dalle lotte di classe. Le sempre più complesse forme dell’internazionalizzazione dei capitali, in congiunzione alla costante espansione geografica dell’UE, hanno generato la necessità di una potente organizzazione burocratica, capace di dar corso a tale strategia.
L’espansione della burocrazia UE non è semplicemente una negazione dello stato-nazione. Il processo di integrazione compie effettivamente una cessione di sovranità, erodendo gli aspetti di quest’ultima che potrebbero essere utilizzati a beneficio delle classi subalterne. Viceversa, gli aspetti centrali della sovranità, inerenti il rafforzamento del potere capitalista, rimangano in vigore. Non si tratta di un’eliminazione dello stato-nazione, ma di una profonda trasformazione che lo rende sempre più prossimo alla dittatura della borghesia, immunizzandola da qualsiasi pressione derivante dalle lotte di classe e dalle rivendicazioni delle classi subalterne.
Inoltre, la coordinazione non preclude l’antagonismo. E su scala globale quest’ultimo si manifesta in diverse forme tra stati capitalistici. Sottostimare tali elementi di contrasto comporta il rischio di ricadere in qualcosa di analogo alla nozione kautskyana di ultra-imperialismo [22]. In effetti, le contraddizioni teoriche e analitiche del concetto di ultra-imperialismo sono simili a quelle contenute nelle teorie “sovranazionali” dell’integrazione europea, in particolare laddove tendono a sopravalutarne un aspetto, ovvero il rafforzamento delle istituzioni dell’UE e l’espansione della sua burocrazia, sottovalutando al contempo la persistente importanza ed efficacia di antagonismi e conflitti interni all’Unione europea. Pertanto, è necessario insistere sul fatto che il processo di integrazione europea è un progetto imperialista, tanto nel senso delle relazioni fra UE e resto della catena imperialista, nonché degli antagonismi ad essa interni, quanto dentro l’UE in riferimento ai rapporti ineguali tra i differenti paesi.
Le discussioni sul carattere “sovranazionale” dell’UE trascurano il fatto che lo stato non ha solo funzioni economiche, nel senso più ampio del termine. Le sue funzioni includono la politica estera, l’istruzione, i sistemi sanitari, l’assistenza nella vita quotidiana dei cittadini, ecc. Molto di ciò rimane essenzialmente fuori dalla portata dell’integrazione sovranazionale, malgrado l’esistenza di “strategie europee”. Vi sono certo delle convergenze (un esempio e l’istruzione superiore a seguito del Processo di Bologna), ma permangono enormi divergenze. Il che è ancor più evidente nell’assenza di una politica estera e di difesa comune all’UE, esemplificata nelle differenti, quando non opposte, posizioni riguardo alla guerra in Iraq o al riconoscimento del Kosovo.
Ancora, il fatto che un paese come la Gran Bretagna abbia avuto la capacità di decidere la propria uscita dall’UE giustifica, a nostro modo di vedere, la nostra posizione, secondo la quale si è ben lontani dall’assistere all’emergere di un “super-stato” europeo, per quanto profondamente il processo di integrazione abbia potuto trasformare gli stati membri.
L’integrazione europea come progetto di classe
Il chiarimento teorico appena fornito non dovrebbe essere inteso come una sottovalutazione degli effetti dell’integrazione europea. Al contrario, tendiamo a considerarla come un percorso estremamente originale, il quale offre importanti spunti circa il carattere di classe dei processi contemporanei di internazionalizzazione del capitale.
L’integrazione europea non è solo una serie di accordi comuni definenti l’insieme delle politiche all’interno dell’Unione europea. Né si tratta esclusivamente di una moneta comune e della revoca dei controlli sui flussi di capitali. Sopratutto, ci si trova di fronte ad una strategia di classe che esprime gli sforzi comuni delle classi capitaliste europee in risposta alla crisi economica globale, nonché a quella del “modello sociale” europeo, tramite una strategia offensiva neoliberista di ristrutturazione capitalista. Come sottolineato da Bastiaan van Apeldoorn, il neoliberismo dell’UE rende l’integrazione europea non solo un processo economico, ma un progetto egemonico da parte delle forze del capitale in Europa [23]. In una tale prospettiva, l’integrazione europea
può essere intesa nei termini di ciò che ho definito “neoliberismo embedded”, il quale riflette un progetto egemonico o quello che potremmo anche definire un concetto comprensivo di controllo articolato e diffuso da – riflettendone e mediandone gli interessi – forze politiche e sociali legate al capitale europeo transnazionale [24].
Sebbene nominalmente il processo di integrazione europea sia una combinazione di aspirazioni liberali, neo-mercantiliste e socialdemocratiche, indicanti differenti tradizioni politiche europee postbelliche, in definitiva è stato il neoliberismo ad emergere come posizione dominante [25]. In effetti, ciò ha significato che
la ristrutturazione neoliberista, avviata dal rilancio del progetto di integrazione europea, attraverso il programma del mercato interno e l’unione monetaria, rafforzata dalla spinta verso il mercato culminante nell’agenda per la “competitività” di Lisbona, e ulteriormente garantita dall’allargamento ad est, ha subordinato l’obiettivo della coesione sociale ad uno inscritto in una logica di mercificazione [26].
Le priorità di classe che hanno guidato tale progetto emergono dunque chiaramente.
Unione monetaria, sovranità limitata e neoliberismo
L’aspetto cruciale dell’intero processo di integrazione europea consiste nell’inedita cessione di aspetti importanti della sovranità alle istituzioni dell’Unione europea. Gli stati membri dell’eurozona non hanno controllo sulla politica monetaria, devono coordinare le loro pratiche relative ai prestiti, accettare rigorose norme di bilancio sotto minaccia di sanzioni “automatiche” comminate da istituzioni di vigilanza dell’UE, aprire completamente i propri mercati interni (inclusi gli appalti pubblici) e rispettare le normative in materia di libera circolazione dei cittadini europei, comprese quelle sull’equivalenza di titoli e qualifiche. Inoltre. la privatizzazione di infrastrutture fondamentali sono state rese obbligatorie già negli anni Novanta. Non vi sono forme di sussidio al di fuori di quelle previste dalla Politica agricola comune. Come sottolineano Drahokoupil, van Apeldoorn e Horn, “la governance europea è divenuta innanzitutto una forma di gestione neoliberista”, la quale ha condotto ad un trasferimento del processo decisionale relativo alle funzioni normative dagli stati membri alle istituzioni UE [27].
La moneta unica, l’Euro, è stata un aspetto importante in tale meccanismo di limitazione della sovranità. Inizialmente concepito quale congegno in grado di migliorare il mercato comune e creare un spazio economico unificato, che consentisse il libero flusso delle merci e dei capitali controbilanciano gli squilibri regionali, sin dall’inizio ha dovuto affrontare il problema di ampie divergenze di competitività e produttività. Ancora, sin dagli esordi incorporava la concezione, profondamente tedesca, della disciplina monetaria come per evitare l’inflazione con tutte le memorie traumatiche ad essa legate [28]. L’idea era che gli stati membri, compresi quelli della periferia, avrebbero ceduto sovranità, abbandonando i meccanismi di protezione cui erano abituatati, così da trarre vantaggio dalle pressioni concorrenziali indotte dall’esposizione alla concorrenza straniera. Ciò avrebbe promosso la ristrutturazione capitalistica e la riduzione del costo del lavoro, portando in tal modo, gradualmente, ad un’area monetaria più equilibrata, sostenuta da un maggiore accesso al credito. Come sostenuto da Sotiropoulos, Milios e Lapatsioras:
Le pressioni esercitate dal funzionamento dell’UEM [Unione economica e monetaria] sono concentrate sul nucleo dello sfruttamento capitalistico e creano le condizione per una ristrutturazione continua del lavoro. L’UEM mette in atto una variante estrema della strategia di esposizione alla concorrenza internazionale, la quale può continuare a esistere solo tramite un continuo “aggiustamento” del lavoro. Ne consegue che la strategia dell’UEM rappresenta una modalità specifica di organizzazione per il potere capitalista [29].
Questo aspetto disciplinare dell’integrazione europea dà conto anche di un altro paradosso di tale processo: l’adesione dei paesi periferici, caratterizzati da gravi divergenze di produttività e competitività rispetto a quelli del centro, a questo aggressivo regime di accumulazione, nonché l’esposizione ad enormi e pervasive pressioni competitive. L’aspetto cruciale è il tentativo di utilizzare queste pressioni come mezzo per eliminare qualsiasi compromesso fatto, nel passato, con segmenti delle classi subalterne ricorrendo, al contempo, alla legittimazione fornita dall'”ideale europeo”. Così, tale aspetto disciplinare, sebbene presentato come via alla modernizzazione dell’intero tessuto sociale, di fatto ha preso di mira le classi subalterne, cercando di forzarle ad accettare un aggressivo regime di accumulazione neoliberista.
La logica alla base della moneta unica – con una Banca centrale indipendente e sovranazionale al posto di una semplice coordinazione monetaria, come nel caso delle prime fasi dell’UEM – era che un’area economica unificata richiedeva la stabilità monetaria al fine di facilitare i movimenti di capitali e beni, la cui rapidità era anche aumentata nel contesto del più ampio processo di finanziarizzazione degli anni Ottanta e Novanta. In tal senso, l’UEM rappresenta “un momento chiave della finanziarizzazione dell’Europa” [30]. L’idea era che una Banca centrale europea indipendente avrebbe garantito la salvaguardia contro attacchi valutari e costose difese, esemplificate dall’uscita forzata della Gran Bretagna dall’UEM dopo il 1992, nonché dalla crisi del Sud-Est asiatico nel 1997-98, la quale mostrava i pericoli dell’ancorare artificialmente le monete al dollaro allo scopo di incrementare gli investimenti [31]. Perché ciò funzionasse e per evitare tendenze inflazionistiche, venivano poste severe restrizioni riguardo a deficit, debito pubblico e inflazione. Tuttavia, considerare l’evoluzione dell’Euro semplicemente come lo sviluppo di approcci tecnocratici, o anche come un’ossessione per l’inflazione, sottovaluta le modalità con le quali ha funzionato come meccanismo di erosione della democrazia in Europa. Come argomentato da Wolfgang Streeck:
L’unione monetaria, inizialmente concepita quale esercizio tecnocratico – escludendo, dunque, le questioni fondamentali della sovranità nazionale e della democrazia che l’unione politica implicherebbe – sta ora trasformando rapidamente l’UE in un’entità federale, nella quale la sovranità e quindi la democrazia degli stati-nazione, sopratutto nel Mediterraneo, esiste solo sulla carta. L’integrazione, oramai, “trabocca” dalla politica monetaria a quella fiscale. Gli Sachzwänge dei mercati internazionali – in realtà un rafforzamento storico, e senza precedenti, dei profitti e delle garanzie per i proprietari di asset finanziari – sta forgiando un’integrazione mai ricercata tramite mezzi politico-democratici e che oggi, probabilmente, lo è ancor meno [32].
La formazione di una banca centrale indipendente, immune da qualsiasi interferenza da parte delle rivendicazioni sociali, o persino del processo elettorale, è stata anch’essa parte di una più ampia tendenza alla salvaguardia degli interessi strategici capitalistici, contro le rivendicazioni e aspirazioni delle classi subalterne. Come evidenziato da Demophanis Papadatos:
Le crisi inflazionistiche degli anni Settanta e Ottanta hanno rappresentato il fallimento nel difendere il credito. Tale fallimento ha avuto implicazioni sociali e politiche, quantomeno perché la rapida inflazione significò perdite per i creditori e la contrattazione salariale venne interrotta, nel momento in cui i lavoratori tentarono di ottenere aumenti compensativi dei salari monetari. L’adozione di obiettivi inflazionistici e l’indipendenza della banca centrale sonno stati un segno della capacità da parte della classe capitalista di imparare da questa esperienza [33].
In un certo modo, l’idea era che adottando robuste parametri inflazionistici, ovvero una riduzione della spesa pubblica, insieme alla revoca di ogni meccanismo protettivo contro importazioni a buon mercato, si andava a costruire un a”gabbia di ferro” per la modernizzazione capitalistica. Per le economie dei paesi meno produttivi, al fine di sopravvivere e crescere in una tale ambiente, fortemente competitivo, non vi era altra scelta che ridurre il costo del lavoro e aumentare la produttività attraverso una ristrutturazione capitalistica, agevolata da un acceso al credito relativamente meno costoso.
Il problema era che per i paesi periferici ciò poteva anche condurre ad una costante perdita di competitività, impossibile da contrastare aumentando la produttività. È in tale contesto che l’idea di una svalutazione interna, vale a dire una riduzione non solo dei salari reali, ma anche di quelli nominali, è stata introdotta da Olivier Blanchard, capo economista dell’FMI dal 2008 al 2015, al fine di favorire la competitività in are valutarie comuni come l’eurozona:
Considerata l’adesione del Portogallo all’Euro, la svalutazione non costituisce un’opzione (e ritengo che uscire unilateralmente dall’Euro comporterebbe costi di gran lunga superiori a qualsiasi guadagno in termini di competitività ottenuto in tal modo). Il medesimo risultato può essere ottenuto, almeno sulla carta, tramite una riduzione dei salari nominali e del prezzo dei beni non scambiabili, laddove il prezzo di quelli scambiabili rimane lo stesso. Ciò realizza chiaramente la stessa diminuzione dei salari reali, e lo stesso aumento nel prezzo relativo dei beni scambiabili [34].
È interessante notare come questa idea sia stata introdotta avendo in mente la situazione economica del Portogallo dopo l’introduzione dell’Euro. Tuttavia, una vera implementazione si è avuta solo in Grecia, come risposta alla crisi del paese.
Tale pressione verso forme di governance neoliberista sempre più aggressive, tanto per i paesi del centro quanto per quelli della periferia UE, non dovrebbe essere considerata come un processo “reciprocamente vantaggioso”, o quale semplice percorso di rafforzamento della posizione detenuta dalla borghesia europea in generale, nel più ampio, e antagonistico, contesto della catena imperialista. Essa è anche parte, invece, di una strategia e pratica imperialiste interne all’UE. Le dinamiche dell’accumulazione all’interno dell’eurozona sono ineguali e gerarchiche, e l’Euro ha portato a crescenti divergenze, evidenti nell’erosione della competitività nei paesi periferici dell’UE (e nei concomitanti benefici per paesi del nucleo UE come la Germania), ma anche ad un loro maggiore indebitamento [35].
Un’Europa autoritaria
Cédric Durand e Razmig Keucheyan hanno fornito una descrizione estremamente rivelatrice del carattere inerentemente autoritario e antidemocratico dell’integrazione europea, tramite la loro analisi analisi del “cesarismo burocratico” dell’UE. Si tratta di un “cesarismo non di tipo militare, bensì finanziario e burocratico. Entità politica con una sovranità frammentata, l’Europa può concepire la propria unità solo laddove garantita dalla burocrazia di Bruxelles, nonché dalla commistione della finanza internazionale nel suo funzionamento” [36]. Attraverso un uso creativo delle nozioni gramsciane, i due autori prendono in considerazione il ruolo della finanza come quello di un “blocco pseudo-storico”, il quale compensa la mancanza di qualsiasi effettiva unificazione politica [37]. Ed è proprio tale cesarismo burocratico europeo a potere rendere conto del sempre crescente carattere disciplinare degli interventi delle istituzioni europee, e del processo di de-democratizzazione in corso. Ecco quanto scrivono in proposito:
A partire dal 2011, il Patto “Euro Plus”, il Patto di stabilità e crescita e il “Semestre europeo” hanno aumentato i vincoli relativi a bilancio e politiche economiche: le sanzioni riguardanti i paesi recalcitranti sono ormai automatiche, le bozze di bilancio vengono esaminate a livello europeo anche prima della loro discussione nei parlamenti nazionali, le riforme dei sistemi pensionistici e la liberalizzazione del mercato del lavoro diventano obiettivi europei [38].
Tutto ciò può aiutarci a comprendere che, contrariamente alle apparenze, il meccanismo imposto alla Grecia dalla Troika non rappresenta un’eccezione. Di fatto, quella cui si è fatto ricorso è esattamente la condizione di sovranità limitata inscritta nel cuore del processo di integrazione europea. L’esperimento greco costituisce la prima e compiuta espressione della logica interna del progetto di integrazione europea, ma non è un’eccezione, bensì la nuova normalità.
Di particolare importanza, la modalità con cui l’integrazione europea rappresenta una forma di costituzionalismo neoliberista senza democrazia. Con ciò intendiamo che, sebbene vi sia un’insieme di istituzioni costituzionalizzate e indirizzi politici con un aggressivo orientamento neoliberista – una sorta di stato di diritto neoliberista europeo – questo non si combina ad alcun riferimento a un popolo europeo, a una società civile europea o persino a una politica europea. Le garanzie sovranazionali ultra-neoliberiste, in altre parole, non ricorrono a nessuna forma di decisione o legittimazione democratiche. A ciò dobbiamo aggiungere il principio di complementarità riguardo al rapporto tra legislazione europa e nazionale. Per quanto la legislazione europea non tocchi quello che si ritiene il nucleo culturale della nazione, come i contenuti dell’istruzione, tutti gli aspetti significativi della condizione socioeconomica sono delegati al primato della regolamentazione europea. Il che offre ai capitalisti europei, e ai loro rappresentanti politici, la possibilità di evitare processi di negoziazione e confronto con le classi subalterne, in nome della necessità di conformarsi alle linee guida europee in materia di privatizzazioni, riforma delle pensioni, nonché aspetti della riforma del lavoro.
Gli aspetti disciplinari dei programmi di austerità in Grecia hanno il loro corollario nella costituzionalizzazione del neoliberismo nell’intero tessuto istituzionale UE, così come nel costante indebolimento delle procedure democratiche e della sovranità popolare, e ciò a causa del carattere intrinsecamente non democratico dello “stato di diritto” in funzione al livello UE e nel processo di integrazione [39]. Come mostrato da Wolfgang Streeck, questo più ampio processo di erosione della democrazia, da parte del neoliberismo e dei meccanismi debitorii, è anche connessa alla sostituzione alla figura del cittadino di quella del debitore [40].
Gli aspetti autoritari e disciplinari dell’erosione della sovranità, da parte dell’integrazione europea, rappresentano anche la piena espressione di ciò che Poulantzas ha definito statalismo autoritario [41]. Gli aspetti base che lo caratterizzano, secondo l’intellettuale franco-greco, come il declino della democrazia parlamentare, ovvero il crescente ruolo decisionale dell’esecutivo e della burocrazia statale, oltreché l’isolamento dei processi decisionali dal controllo democratico, appaiono in forma esacerbata a livello UE. Dalle misure “anti-terrore” alle politiche anti-migranti e anti-rifugiati della “Fortezza Europa”, il carattere autoritario e antidemocratico dell’UE è evidente.
L’attuale crisi dell’integrazione europea e la necessità di una strategia di rottura
I segni di una profonda crisi dell’integrazione europea si sono moltiplicati. Il referendum britannico del 2016, e la decisione di iniziare un percorso di uscita dall’Unione europea ne sono un esempio. Quando la quinta economia del mondo decide, tramite un referendum, di abbandonare la presunta forma di integrazione economica più avanzata, è ovvio che vi sono problemi nell’intero processo. Quest’ultimo attraversa una crescente crisi di legittimità, esemplificata esemplificata dalla reazione degli elettori ogniqualvolta hanno voce in capitolo riguardo a tali processi. Contrariamente alle tirate su “populismo” e “nazionalismo” rivolte a chiunque si mostri critico nei confronti dell’integrazione europea, insistiamo nell’affermare che non sta emergendo una qualche forma di “proto-fascismo”, ma l’ansia causata da un diffuso senso di mancanza di controllo sulle proprie vite, la rabbia contro una classe politica cinica, la scetticismo nei confronti del quadro istituzionale e politico UE, ritenuto non democratico e, infine, il desiderio di democrazia intesa come emancipazione, solidarietà e giustizia.
Il caso greco ha reso evidente l’impossibilità di negoziare una differente politica all’interno del quadro UE, altra rispetto alla piena adesione al suo neoliberismo embedded. L’abilità da parte del meccanismo UE di imporre la propria volontà su chiunque, rimanendovi all’interno, tenti una strada diversa, si è manifestata pienamente nella vicenda ellenica.
Se questo meccanismo di sovranità limitata è un aspetto basilare tanto del carattere neoliberista, quanto di quello autoritario e disciplinare, dell’integrazione europea, allora la rivendicazione della sovranità popolare, nel senso della rottura rispetto all’architettura finanziaria, monetaria e istituzionale del sistema europeo, nonché il rafforzamento dei processi democratici, divengono un imperativo politico centrale.
Il neoliberismo profondamente radicato e l’autoritarismo dell’UE, intesi come progetto di classe, significano che dobbiamo pensare oltre l’idea di “un’altra Europa”, superando l'”ostacolo epistemologico” dell’europeismo al fine di concepire effettivamente delle alternative [42]. In termini concreti, quanto detto suggerisce una strategia di rottura con l’UE, a partire dalla necessaria uscita dall’eurozona, quale ineludibile punto di partenza di qualsiasi politica realmente a favore delle classi subalterne [43]. Quest’ultima non andrebbe intesa come una questione esclusivamente “tecnica” di politica monetaria, bensì come un più ampio processo di recupero del controllo democratico, contro la violenza sistemica del capitale internazionale in generale, e quella del neoliberismo inscritto nell’UE in particolare. In questo senso si tratta di una rottura con l’imperialismo contemporaneo.
Sono noti a tutti i problemi legati alla nozione di sovranità, in particolare la sua associazione con nazionalismo, razzismo e colonialismo. Tuttavia, qui stiamo discutendo una forma di sovranità fondata su un’alleanza sociale differente da quella della sovranità “borghese”. Il “popolo” di tale rivendicata sovranità, appunto popolare, dovrebbe costituire un’alleanza basata sulla comune condizione delle classi subalterne, a prescindere da origine o etnia, contro le politiche delle classi capitaliste europee. Dovrebbe essere basata sulla solidarietà e le lotte comuni, l’elaborazione attraverso la lotta di una narrazione alternativa per la società. Una narrazione che potrebbe assumere la forma di un radicale programma di nazionalizzazioni, partecipazione democratica, redistribuzione e autogestione, in grado di condurci fuori dal circolo vizioso di austerità, debito e autoritarismo, aprendo la via ad una rinnovata prospettiva socialista. Stiamo dunque parlando di un potenziale nuovo blocco storico, nel senso dell’articolazione di un’ampia alleanza fra classi subalterne, un radicale programma di transizione, le forme democratiche di organizzazione di una nuova forma di “Fronte unito”, in parallelo alla sperimentazione e ingegnosità del popolo in lotta. Contro la costruzione imperialista dell’UE tutto ciò offre la possibilità di un vero internazionalismo. Una potenziale strategia di rottura, con forti movimenti che spingono i paesi fuori dall’eurozona e dall’UE, possono fornire degli esempi che possono effettivamente accelerare il processo di disintegrazione dell’Unione europea.
In quanto condensazione materiale di strategie di classe, l’integrazione europea è un processo attraversato da antagonismi di classe, e specifici rapporti di classe possono spiegarne tanto la storia quanto la particolare configurazione istituzionale. Tuttavia, dato questo punto di partenza, non dovremmo saltare alla conclusione che mutati rapporti di forza tra classi cambieranno l’Europa dall’interno, proprio perché la sua particolare architettura economica, istituzionale e monetaria rappresentano degli ostacoli materiali ad un’effettiva coordinazione fra le lotte dell classi subalterne in tutta Europa, lotte che si configurano necessariamente come ineguali, a causa delle differenti temporalità degli antagonismi sociali nelle diverse formazioni sociali. Questo è quanto rende una strategia di rottura e uscita una condizione necessaria al cambiamento sociale, ma anche per la possibilità di creare nuove forme di coordinamento e cooperazione fra movimenti.
In contrasto col prevalente mito ideologico, l’integrazione europea non è “irreversibile”. Al contrario, si tratta di una strategia di classe, dipendente dalle particolari dinamiche della congiuntura e dei rapporti di forza. Oggi, di fronte al fatto che sempre più sono coloro che realizzano quanto il “sogno europeo” si sia trasformato in un “incubo europeo”, l’elaborazione di una simile strategia di rottura è quanto ma necessaria.