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la citta futura

Crisi, Mes e conflittualità interimperialistica

di Francesco Schettino

Il MES è lo strumento del capitale europeo per difendersi dalla concorrenza e scaricare i costi delle ristrutturazioni sui lavoratori. Ecco perché

be8530058adf85d5a4e7456ae2fbeb32 XLLa questione del Mes in pillole

Cavalcando il puledro del nazionalismo ormai palesemente vincente in larga parte d’Europa, l’estrema destra italiana ha colto l’occasione della cosiddetta riforma del Mes (Meccanismo europeo di stabilità) per gridare all’ennesimo schiaffo da parte della Germania verso l’Italia e i “poveri” paesi del sud del continente – tentando così di racimolare qualche voto in più in vista delle varie tornate elettorali locali che la vedranno principale attrice.

Prima di tentare di capire come si colloca nella fase attuale e perché una lettura “locale” è giustamente coerente con un quadro proprio delle “teorie” nazionaliste, mentre è incompatibile con una visione di classe dei fenomeni economici, sembra corretto, senza alcuna velleità di essere esaustivi, data la brevità del saggio, almeno descrivere sinteticamente di cosa si tratta.

Per dirla in parole molto semplificate, il Meccanismo europeo di stabilità, come lo stesso acronimo suggerisce, nasce nello stesso ambito politico economico del processo di integrazione politica ed economica iniziato sostanzialmente negli anni ‘90 con il famoso patto di Maastricht, passando per l’adozione della valuta unica tra la fine dello stesso decennio e l’inizio del nuovo millennio, attraversando l’esplosione della crisi post 2008, l’imposizione della disciplina del pareggio di bilancio e il fallimento ellenico “gestito” dalla troika intorno all’anno 2012.

In sostanza il Mes, che sostituisce di fatto il precedente Efsf, Fondo europeo per la stabilità finanziaria, ha l’obiettivo di definire un meccanismo automatico – che riduca dunque gli spazi di discrezionalità – di stabilizzazione finanziaria che, attraverso potenziali “aiuti” monetari, di cui si fanno carico i contribuenti di tutti gli stati membri, eviti che eventuali difficoltà legate principalmente al debito di un singolo paese producano effetti contagiosi o di cosiddetto trascinamento per l’intera zona euro. Non a caso, utilizzando un pessimo eufemismo, in gergo viene anche chiamato “fondo salva-stati”.

Trovandosi dunque a ragionare con le medesime categorie ispiratrici del “Fiscal compact” e all’interno della filosofia della disciplina di bilancio come obiettivo imprescindibile dell’intera area, il Mes (così come l’Efsf) dovrebbe attivarsi a richiesta di uno dei paesi europei in rischio default. Si tratta, inoltre, di un fondo composto proporzionalmente in base al Pil degli stati aderenti e ammonta a circa 700 mrd €: qualora uno stato dovesse trovarsi in una fase particolarmente delicata – per capirci, modello Grecia dello scorso decennio – condizionatamente a delle riforme strutturali, il paese in crisi potrebbe attingere a questo fondo per evitare di affondare e “contagiare” gli altri stati dell’area anche a causa di eventuali attacchi speculativi esterni (vedi dopo).

Si tratta dunque di un modello apparentemente molto semplice nella finalità (meno nel funzionamento) che vede nell’elemento delle riforme “strutturali” – che altro non sono se non lo smantellamento del cosiddetto stato sociale (salario indiretto o differito) e la frantumazione del mercato del lavoro, in altri termini, migliori condizioni di produzione e appropriazione di plusvalore – l’elemento cruciale e più controverso. In pratica, la questione attorno a cui ruota il dibattito consiste nel fatto che nella riforma proposta emerge l’idea che un paese che chiede aiuto al Mes debba ristrutturare preventivamente il proprio debito, se questo non è giudicato sostenibile dalle stesse autorità. Dunque, a differenza della passata tragedia ellenica, conclusasi con una sanguinosa “ristrutturazione”, a seguito dell’elargizione di fondi e preceduta dall’accordo tra il governo Tsipras e la troika, qui essa diventa precondizione, pressoché automatica, per ottenere i finanziamenti. Che questo tipo di automatismo sia proposto principalmente da esponenti degli stati nord-europei e ovviamente osteggiata dai rappresentanti di quelli meridionali ha indotto gli analisti di estrema destra (o sovranisti che dir si voglia) a soffiare sul fuocherello del nazionalismo quasi si stesse già giocando gli europei di calcio.

 

Nazionalismo vs. imperialismo

Stupisce, da questo punto di vista, l’adesione pressoché acritica e sguarnita di un numero eccessivo di compagni ad una “crociata” (il termine non è usato a caso) montata contro questa ipotetica riforma, facendo proprie le argomentazioni nazionaliste che nulla hanno a che fare con la nostra tradizione politica e scientifica. È di cruciale importanza dunque premettere senza ambiguità che adottare chiavi di lettura come “il Mes favorisce la Germania contro l’Italia” implica andare in direzione opposta a una lettura di classe del fenomeno. Tanto per essere chiari, il marxismo, le belle bandiere rosse e i simboli gloriosi della nostra tradizione, che scarseggiano sui luoghi di lavoro e che invece abbondano sui social network, sono incompatibili scientificamente con questo tipo di interpretazioni nazionaliste. Sostituire il conflitto di classe (e dunque quello inter-imperialistico) con una ipotetica lotta nord-sud o comunque tra stati-nazione è senza dubbio un errore politico molto grave – peraltro non troppo dissimile nella sostanza a quello commesso dai socialisti quasi un secolo fa.

Nella stessa affermazione “il Mes favorisce gli stati nord europei a scapito di quelli del mediterranei” risiede questo tipo di colpevole ambiguità perché si elimina la specificità scientifica del marxismo sia nella teoria dello stato (in sintesi, come forma sovrastrutturale del potere borghese) che nel materialismo storico inteso come lotta tra classi. In altri termini, quando si parla di “Germania che ci guadagna”, bisognerebbe chiedersi se si intendono i grandi proprietari della Siemens oppure gli operai metalmeccanici delle industrie di Stoccolma. Ci si riferisce dunque al proprietario della Volkswagen o ai lavoratori interinali che raggiungono a stento la sussistenza grazie al “magnifico” Hartz IV? Siamo sicuri che quando si dice che “l’Italia ci perde” si comprende Benetton che ci rimette i suoi miliardi e lo fa al pari dei disoccupati del meridione, così come degli operai della Whirpool di Napoli a rischio licenziamento? In altre parole, possiamo dire che il Mes agirà in maniera omogenea su tutti questi soggetti? Il buon senso, così come la nostra teoria, per una volta evidentemente appaiate, ci aiuterebbero a rispondere NO! se la questione viene vista dal punto di vista di classe. Se invece, in maniera molto miope, accomuniamo costoro solo sulla base della provenienza geografica, la risposta sarebbe erratamente affermativa.

La famiglia Benetton, così come i proprietari di Siemens o di Volkswagen, o gli Elkann, al pari delle grandi banche ispaniche a capo della Repsol, hanno tutto da guadagnare da un meccanismo come il Mes che, rimpinguato in grandissima parte con le tasse pagate dai salariati, permette una automatica stabilizzazione degli stati in caso di rischio default. Destino comune, ma probabilmente di segno opposto hanno i lavoratori di Whirpool, i disoccupati, i lavoratori interinali tedeschi, italiani o spagnoli che, come già avvenuto per il caso ellenico, saranno costretti a caricarsi sulle spalle non solo i costi (diretti) del Mes, attraverso una più elevata tassazione, ma anche la cosiddetta eventuale “ristrutturazione” automatica, proprio come previsto dalla riforma, che altro è se non una decurtazione del salario indiretto, ossia quello che viene chiamato il welfare state.

A rendere ancora più evidente il collante di classe, antitetico a una presunta antonimia nazionale tra i popoli appartenenti all’area dell’euro, è l’evidente conflitto valutario inter-imperialistico dollaro\euro che proprio nel 2012 era alla base dell’attacco speculativo che hanno subito i titoli di stato ellenici ordito proprio dal capitale legato al dollaro (cfr. La Contraddizione no. 131). Non a caso, gli strumenti finanziari, tra cui l’Efsf (oggi Mes) – inteso da più parti come deterrente anti-speculazione, più che come dispositivo efficace – , varati proprio in quel periodo in ambito europeo anche da Mario Draghi, furono definiti giustamente bazooka avendo l’obiettivo “bellico” diporre al riparo l’intera area e l’euro da eventuali nuovi attacchi speculativi degli imperialismi concorrenti: il “whatever it takes”dell’allora governatore Bce da questo punto di vista rappresentò un punto di svolta nel lungo conflitto valutario. Dunque il rischio che si innalzino nuovamente i livelli di scontro con gli imperialismi concorrenti, sia da occidente che da oriente, potrebbe essere la principale ragione di questa nuova impostazione del Mes. Pertanto, se si vuole comprendere il perché di questa urgenza di riforma e renderlo più stringente è necessario svincolarsi da una sterile prospettiva nazionalista, analizzando dapprima la fase in cui il capitale mondiale sta per entrare e dunque le dinamiche interimperialistiche che ne deriverebbero e che già si stanno mettendo in moto.

 

Ad un passo dal baratro

Il rapporto annuale pubblicato nell’ultimo trimestre del 2019 dal Fmi (IMF annual report 2019), che sostanzialmente invita gli operatori alla prudenza perché le prospettive non sono affatto rosee, fa da eco ai campanelli d’allarme già suonati negli anni passati, che nel frattempo si sono moltiplicati dacché una parte cospicua di analisti inizia a tenere in adeguata considerazione il fatto che il 2020 potrebbe essere l’anno in cui le bolle finanziarie gonfiatesi almeno dal 2008 potrebbero esplodere con una violenza forse sconosciuta. Un’avvisaglia in questo senso, che ha terrorizzato gli operatori almeno un po’ coscienti delle dinamiche dei mercati finanziari, si è materializzata il 17 settembre 2019, giorno che, per ora, racconta poco ma che in futuro potremmo trovare sui libri di storia.

In quella data, nonostante l’impressionante liquidità pompata già nel sistema dai quantitative easing (stimata intorno ai 20 mila mrd $ complessivamente) promulgati dalle banche centrali di mezzo mondo nell’ultimo decennio – e dunque tassi di interesse pari a zero o addirittura negativi (anche su titoli di stato) –, il mercato interbancario statunitense si è trovato paradossalmente in una situazione di stallo, ossia proprio di mancanza di liquidità. Tradotto in termini più comprensibili, improvvisamente alcuni tassi di interesse sui Repo (abbreviazione di repurchase agreement, operazioni di pronti contro termine con cui le banche o i soggetti non bancari si scambiano la liquidità) sono improvvisamente schizzati al 10% nello stesso momento in cui quelli ufficiali, non si discostavano dal 2-2,25%. Questo indicatore mostrava chiaramente un inceppamento del sistema dovuto prevalentemente a una mancanza di fiducia tra gli operatori che si occupano di erogare e restituire capitale a prestito anche e soprattutto overnight. In altre parole, sembrava di assistere alla storia purtroppo già vista nei mesi immediatamente precedenti l’esplosione del 2008, iconograficamente rappresentata dal fallimento pilotato di Lehman Brothers.

La Federal Reserve, dunque, per evitare il collasso del sistema è dovuta intervenire iniettando nuovamente la cifra record di 260 mrd $ nei due mesi successivi (di cui 75 solo nella giornata del 17/9) – dopo che per quasi un semestre aveva provato a gestire una “normalizzazione” del mercato monetario ossia un suo progressivo prosciugamento – riducendo di un quarto di punto i tassi già il 18/9 come segnale per i mercati. Ciò dimostra come, giacché la quantità di soggetti che agisce nell’ambito del mercato del credito (specie a breve termine) non appartiene a istituzioni finanziarie (o bancarie) – e dunque può eludere la legislazione bancaria e non può al contempo accedere direttamente alla liquidità della Fed (come prestatore di ultima istanza) – una “stretta” monetaria in ambito Usa sembra al momento impraticabile [1].

La metafora di un sistema ormai dipendente al pari di un tossicodipendente dalle iniezioni di liquidità funziona oggi in maniera superba. Nonostante i 20 mila mrd $ di nuova liquidità pompata nell’economia in 10 anni, il mercato è costantemente a rischio di stallo proprio per scarsità della stessa. La ragione risiede nel fatto che questo eccesso di moneta in gran parte finisce per alimentare i giuochi di borsa e comunque il capitale speculativo/fittizio e dunque non finiscono nella produzione di merci, servizi e dunque di valore e plusvalore. Infatti, è ormai innegabile che il principale risultato dei Qe sia individuabile nella crescita spaventosa dei profitti del capitale fittizio che rimane, in un mondo in crisi da sovrapproduzione, l’unico ambito di guadagno lauto e possibile. Preme ancora ricordare dunque come la questione debba essere completamente ribaltata rispetto al discorso che normalmente viene presentato. La crisi non è causata dal presunto abuso degli strumenti speculativi (o, come si suole dire, finanziari): al contrario, essendo impossibile accumulare denaro attraverso la merce (il celeberrimo D-M-D’) si bypassa la merce tentando di valorizzare il proprio capitale con il semplice movimento D-D’ che dunque diventa la conseguenza della crisi e non già la sua ragione (per quanto poi dialetticamente eserciti una azione peggiorativa sulla stessa).

 

In conclusione

Mentre il 2019 chiude come l’annus horribilis in termini di accumulazione di capitale, ossia di crescita complessiva del Pil mondiale (la più bassa dal 2008), operatori speculativi di tutto il mondo hanno “brindato” per la frenetica corsa – fittizia, ovviamente – dei valori dei titoli quotati nelle borse di tutto il mondo. Mentre in Italia, l’intera classe dei lavoratori fatica a trovare un impiego o a mantenere delle condizioni di lavoro decenti (sia in termini di valore d’uso che di scambio), giacché la crescita tarda a palesarsi da almeno un lustro, l’indice della borsa di Milano si gonfia in 12 mesi del 29%. Mentre in Grecia la situazione sociale è ancora devastante, nonostante una timida ripresa dalle macerie lasciate dalla troika, l’indice della borsa di Atene mostra un superbo +45%; nello stesso periodo, la variazione del Pil, dopo essersi dimezzato in dieci anni, comincia a segnare una tendenza positiva ma non troppo distante dallo zero.

Questi sono solo due esempi di una economia mondiale che, a parte casi sporadici come quello della Cina, a fronte di tassi di crescita molto modesti, presenta record straordinari sulle borse di ognidove. Il giuoco è ormai chiaro ed è difficile negarlo: una economia drogata di liquidità ha collocato una parte notevole del capitale monetario ricevuto dalle banche centrali in attività speculative abbandonando un settore, come quello della produzione di valore, che tarda ad uscire dalla crisi da sovrapproduzione e riduzione del saggio di profitto. Il rafforzamento del Mes rientrerebbe dunque nel tentativo di serrare le fila in attesa di un inevitabile inasprimento delle conflittualità che l’esacerbarsi della crisi porterà con sé. Il grande capitale legato all’euro tenta di rafforzarsi per non incappare negli errori del passato, imponendo ovviamente alla classe subalterna del continente ulteriori perdite in termini di salario, estromettendo anche, il più possibile, i capitali di dimensioni più limitate e meno adeguati alla fase transnazionale dell’imperialismo moderno. Del resto, le prime inconfondibili avvisaglie di una fragorosa esplosione sono già emerse e le autorità statunitensi sono riuscite per ora a mettere una toppa a una situazione potenzialmente drammatica. I nuovi venti di guerra di certo potranno mascherare questi ineludibili passaggi ma la sostanza di un modo di produzione in fase decadente, prima o poi, non tarderà ad emergere con tutta la sua veemenza.


Note
[1] Per un approfondimento si veda Schettino F. (2020) – L’impatto della crisi su povertà e disuguaglianza, mimeo.

Comments

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Eros Barone
Sunday, 26 January 2020 15:37
E’ giusto, come afferma Carlo Rao, collegare le dinamiche di carattere economico, sociale e politico, che si stanno oggi dispiegando, alla crisi di sovraccumulazione che si è manifestata a partire dagli anni ’80 con il passaggio, nel campo delle politiche economiche e della stessa teoria economica, dal keynesismo al thatcherismo: passaggio che si tradusse, sia per le forze di destra che per quelle di sinistra, nella priorità accordata al controllo dell’inflazione, anziché al pieno impiego. Occorre però aggiungere: 1) che questo mutamento è stato il frutto dell’azione della sinistra e, in particolare, del laburismo inglese; 2) che tale mutamento spiega l’origine del debito pubblico, la quale non sta dal lato delle uscite ma da quello delle entrate. La conseguenza va quindi ricercata nel rapporto 'entrate statali / PIL', che non aumenta più da decenni, e nelle misure di detassazione dei profitti, cui si deve la carenza di risorse finanziarie dello Stato. Privatizzazioni, spese sociali ridotte (fermo restando che il saldo di tali spese riguarda esclusivamente i diversi settori della popolazione lavoratrice e non il rapporto tra salari e profitti), minore influenza dei sindacati, eliminazione di vincoli all’investimento nel settore finanziario, separazione fra Banca Centrale e Tesoro e cessione della sovranità economico-finanziaria all’Unione Europea sono i diversi ma convergenti aspetti del neoliberismo che ha contraddistinto il potenziamento, sia pure non lineare, del polo imperialistico europeo. Del resto, dovrebbe essere chiaro, soprattutto in una fase di declino economico e di acutizzazione dello ‘sviluppo ineguale’ come quella che vivono i paesi del continente, che la spesa sociale non è un regalo della fiscalità generale, ma una variabile dell’accumulazione di capitale. Sennonché vigono più che mai: a) il dogma degli antikeynesiani, secondo cui l’aumento della spesa pubblica determina una diminuzione degli investimenti privati; b) il ricordo inquietante delle epoche di aumento della spesa pubblica e di pieno impiego (nonché di aumento dell’offerta di denaro senza inflazione), che coincisero con la prima e con la seconda guerra mondiale; c) la consapevolezza che la spesa pubblica incontra un limite nel momento in cui la redditività del capitale diminuisce (questa, peraltro, è stata la costante di tutte le manovre governative negli ultimi decenni). Giustamente Rao pone, a questo punto, il problema del capitale fittizio e dei poli imperialistici, laddove il primo problema nasce dalla quantità immensa di capitali che è stata investita nella speculazione finanziaria e dal crack finanziario sempre più probabile che è connesso alla sproporzione tra capitale produttivo e capitale fittizio, e il secondo problema si configura come la risultante inevitabile della tendenza alla caduta del saggio di profitto, che caratterizza l’economia mondiale negli ultimi decenni. Di fronte a questo groviglio di contraddizioni, la sinistra, trasformatasi ormai in un’ala della borghesia, non è in grado di proporre nulla, se non una versione più o meno edulcorata del programma della destra. D’altronde, lo spostamento verso destra di tutti i partiti e lo stesso ‘exploit’ della Lega sono la manifestazione delle feroci leggi della concorrenza capitalistica fra le stesse masse lavoratrici. Tanto più in un paese come l’Italia, dove l’esistenza di un’enorme classe media e il sovraddimensionamento della relativa rappresentanza politica tra più partiti (Lega, PD, M5S, FdI, FI) hanno portato alla formazione di un’alleanza tra vasti settori dei lavoratori salariati e la piccola borghesia produttiva contro gli impiegati pubblici. Accade così che, essendo il suffragio universale uno strumento di questo ‘bellum omnium contra omnes’, sono i differenti settori e strati delle masse lavoratrici (si apre qui, fra gli altri, anche il problema dell’aristocrazia operaia) che si scannano reciprocamente tra di loro attraverso il governo (e non il contrario). In ultima istanza, è indubbio che il problema che devono risolvere le classi dominanti è duplice: realizzare un saggio medio di profitto tra settori produttivi con composizione organica differente in un’epoca di caduta tendenziale del saggio medesimo e moderare la contesa, impugnata dalla Lega e, sulla scia di quest’ultima, dal PD sul terreno della cosiddetta “autonomia differenziata”, per la distribuzione territoriale del plusvalore estorto alla forza-lavoro e per un’ulteriore contrazione delle risorse finanziarie dello Stato da destinare alle regioni meno sviluppate. Concludendo, la crisi in corso non sembra consentire né vie d’uscita di destra (= utopie comunitaristiche reazionarie) né vie d’uscita di sinistra (= proposte il cui presupposto, del tutto fallace in linea teorica e dimostratamente impraticabile in via di fatto, è che il capitalismo sia controllabile attraverso un intervento taumaturgico dello Stato nella redistribuzione dei redditi via nazionalizzazioni, autogestioni o programmazioni ecc.). In verità, la forza del capitalismo nasce oggi dalla concorrenza tra le diverse sezioni delle masse lavoratrici; quando cesserà tale concorrenza (a partire da quei primi passi che sono la creazione di un partito comunista e di un sindacato di classe), il capitalismo non avrà più un futuro.
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carlo rao
Friday, 24 January 2020 03:07
Dall'epoca dei monopoli di fine 800 a quella odierna si è compiuto il passaggio del capitalismo a una notevole integrazione su scala mondiale: aziende multinazionali, banche, fondi speculativi sono in grado di comandare la collocazione a livello globale del capitale sia produttivo che finanziario, con modalità e istituti specifici sempre più indipendenti dalle dinamiche interne ai singoli Stati. Questa tendenza è contrastata, o almeno tenuta sotto controllo da alcuni Stati che dispongono di uno o più dei seguenti fattori: imponente capacità produttiva, potenza militare globale, materie prime, forte crescita demografica. Gli Stati in grado di incidere nelle dinamiche finanziario/monetarie globali hanno indotto la creazione di aree continentali integrate o da una moneta comune o perlomeno da accordi multilaterali per la circolazione di capitali e prodotti, e per la difesa. In questo contesto si sono sviluppate vere e proprie ideologie sulla necessità di aderire a queste integrazioni sovranazionali che costituirebbero oggi il solo modo di “competere” a livello globale, rinunciando a quote sempre più rilevanti di sovranità nazionale. Tuttavia quelle stesse condizioni che hanno favorito la crescente preminenza del capitale fittizio ostacolano una ulteriore espansione del pur intrinseco internazionalismo del capitale. Il capitalismo finanziario/creditizio nella sua modalità attuale si è formato a partire dagli anni 80 del secolo scorso, utilizzando come base indispensabile l'eccesso di accumulazione che si manifestò già alla fine dell'800, quando il capitale si reggeva solidamente su basi nazionali. Date queste origini locali, le caratteristiche di formazione e tipologia della massa patrimoniale presente nei vari paesi hanno assunto nel lungo periodo differenze tali da rendere molto difficile una qualche integrazione sovranazionale delle politiche fiscali. Nell'epoca delle due guerre mondiali vi fu una contrazione dello stock di capitale in eccesso, ma successivamente questa tendenza alla sovra accumulazione ha ripreso la sua corsa. Il paradosso del capitale fittizio sta nel fatto che se per un verso la sua struttura finanziario/creditizia lo rende totalmente efficace solo su una scala globale, per un altro verso una delle basi fondamentali che lo originano e lo alimentano lo lega ai patrimoni nazionali in modo imprescindibile. Perciò ogni tentativo di porre l'aspetto finanziario entro un comando centralizzato a livello globale si scontra anche nell'era odierna con interessi nazionali tra loro conflittuali. Le differenze nazionali assai rilevanti nel rapporto tra risparmi, consumi, investimenti e orientamenti fiscali che ne determinano il peso relativo, rendono problematico mantenere un sistema coerente basato su una moneta comune, e persino una zona commerciale comune. In questo scenario il contrasto al declino del saggio del profitto nei paesi a capitalismo maturo deve necessariamente agire anche nell'ambito nazionale, laddove si determina il conflitto per la gestione dello stock di capitale accumulato, cioè se e in quale misura esso dovrà alimentare l'espansione finanziaria, quella produttiva o stabilizzarsi in accumulo di risparmio (ad esempio, in Italia il risparmio privato di famiglie e imprese ammonta ancora oggi, nonostante la crisi nata nel 2008, a circa 5 annualità di PIL!). Per questi motivi assistiamo alla ripresa di tendenze nazionalistiche anche in aree come quella europea, dove i singoli paesi sembravano decisi ad avviare una unione politico/fiscale oltre che monetaria. Queste tendenze ripresentano anche nell'odierno capitale fittizio, come suo paradosso apparente, la storica contrapposizione tra l'interesse del capitale finanziario a “liberare” la circolazione dei capitali dai confini ristretti del legame territoriale, e quello del capitale produttivo di beni e servizi ad agganciarsi alle dinamiche tra salari, consumi e imposte così come si determinano nell'ambito nazionale entro il quale si svolge il processo produttivo. L'odierna riproposizione dei dazi commerciali e di altre forme di tutela territoriale di produzione e circolazione delle merci, nonché di argine ai flussi migratori in difesa dei livelli salariali locali, costituiscono il fondamento economico su cui poggiano le rinnovate ideologie nazionaliste e sovraniste. Se non colleghiamo il riemergere di queste ideologie al nesso inscindibile tra capitale fittizio e radicamento territoriale (nazionale) degli imponenti stock di capitale da cui origina la quota di risparmio non tradotta in investimenti produttivi di beni, esse ci appaiono come una sorta di refuso storico inspiegabile nel contesto delle aree più avanzate del capitalismo globale.
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Mario Galati
Wednesday, 22 January 2020 10:57
Nell'ottima analisi di Schettino, forse si trascura che anche nello spazio unificato europeo i grandi capitali transnazionali che lo dominano, pur costituendo un blocco comune contro, per es., il blocco statunitense ( ma avendo anche interessi comuni con il blocco transnazionale statunitense), possono mantenere ancora un certo grado di conflittualità "nazionale", dentro la quale imbrigliare i lavoratori subalterni e collaborazionisti, dividendoli in senso nazionalistico.
Per es., poiché la Germania, attraverso la posizione dominante del capitale tedesco, può praticare tassi negativi per i suoi titoli di stato, può finanziare il suo debito pubblico in condizioni vantaggiose rispetto agli altri stati che devono raccogliere fondi a tassi sempre più alti per reggere la concorrenza dei titoli tedeschi. Ciò comporta che la Germania, pur in una fase di tagli generali al salario indiretto e di peggioramento delle condizioni di lavoro, ha margini relativamente migliori di spesa pubblica (e quindi margini più ampi sui tagli alla spesa pubblica e al salario indiretto).
Ciò è un vantaggio per il capitale tedesco, innanzitutto, ma le cui briciole possono essere fatte cadere sui lavoratori tedeschi, i quali possono essere indotti alla collaborazione di classe ed alla solidarietà "nazionale" col proprio capitale contro i lavoratori ("indolenti e spreconi") degli altri paesi.
Al capitale dei paesi svantaggiati non conviene rompere il fronte di classe con il capitale guida, ma esso cercherà di riversarne i costi interamente sulla sua classe lavoratrice, con ulteriori tagli, aggravamento delle condizioni di lavoro e riduzione di diritti.
Tutto ciò avviene, secondo il meccanismo concorrenziale, in una spirale al ribasso per i lavoratori di tutti i paesi, ma le differenze relative mantengono accese le fuorvianti divisioni nazionalistiche.
Ciò che voglio dire è che le divisioni nazionali e nazionalistiche all'interno del capitale transnazionale europeo non sono sparite e che il loro riflesso sui lavoratori dei vari paesi sono la base oggettiva per le divisioni nazionalistiche e sciovinistiche tra i lavoratori europei. Capire la base oggettiva è necessario per combatterle meglio.
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