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nuovadirezione

La lettera di Draghi

di Gabriele Pastrello

shutterstock 1241033824L’analisi della lettera aperta che Draghi ha inviato il 25 marzo al Financial Times, sulla crisi economica e politica aperta dall’epidemia del coronavirus, cerca di spie­gare e argomentare come nascono e come si giustificano i due punti cruciali della lettera. Già dal titolo Draghi suggerisce che siamo in una situazione di ‘guer­ra’. La situazione è straordinaria e richiede di uscire dai modi di pensare ordinari.

Innanzitutto uscire dall’austerità come modo di affrontare la crisi. Una guerra, dice Draghi, si affronta facendo debiti e non con tasse. E il rapporto debito/PIL elevato che ne seguirà dovrà diventare un carattere permanente delle economie. Tradotto, niente MES e condizionalità.

Anche la soluzione che Draghi propone è fuori dagli schemi: il sistema bancario, di­ce, deve diventare il veicolo delle politiche pubbliche (cioè nazionali ed europee). Una proposta che sconta l’inaggirabilità di due vincoli: il divieto di finanziamento diretto dei bilanci statali da parte della BCE, e l’altro politico, la presumibilmente totale indisponibilità della Germania ad accettare qualsiasi forma o dimensione di mutualizzazione del debito.

Non resta altro, dice Draghi, che fare dei sistemi bancari nazionali il perno del fi­nanziamento dei programmi che gli Stati dovranno attuare per contrastare una crisi economica che si annuncia gravissima.

* * * *

1. La pars destruens

Il punto di partenza della lettera aperta di Draghi al Financial Times è secco: molti ri­schiano la vita, scrive Draghi, e ancor di più rischiano i mezzi di sussistenza. Da cui la sequenza di conclusioni immediate: ‘una recessione è inevitabile’, ‘la risposta ri­chiede un aumento significativo del debito pubblico’, e da cui segue una delle due frasi chiave della lettera: “Much higher public debt levels will become a permanent feature of our economies”.

Mi preme, per il momento, sottolineare nella frase: ‘molto più alto’, e soprattutto per­manente.

Questa affermazione colpisce direttamente uno dei dogmi della politica economica dell’Unione Europea a partire dal 2010, dopo la ‘chiusura’ della crisi 2008-2009. Ov­viamente le basi risalgono a Maastricht e anche prima, ma il 2010 è il vero spartiac­que a partire da cui da questo dogma si fa derivare ufficialmente una politica a cui tutti i paesi della UE, si dovranno adeguare, in via legislativa e anche costituzionale. Nel 2010, e non prima, la filosofia di fondo dell’euro diventa politica obbligatoria per tutti. Un passo deciso verso istituzioni federali.

Nell’aprile 2010, infatti, un seminario dell’ECOFIN ospita l’economista italo-ameri­cano Alesina che illustrò la sua teoria che l’austerità, più tasse e più tagli di spese, fa crescere le economie. A questo postulato ne veniva affiancato un altro, derivante da una ricerca dell’economista Kenneth Rogoff, che quando il rapporto debito/PIL supe­ra il 90% le economie non crescono.

Qui bisogna fare attenzione, l’obbiettivo del rapporto debito/PIL del 60% è già nei parametri di Maastricht, ma per la prima volta viene dichiarato che un rapporto de­bito/PIL alto è un ostacolo alla crescita. Perché la retorica del Fiscal Compact (attiva­to dal 2011, ma deciso nel 2010) è che tagli di spese e riduzione del rapporto sono ne­cessari per uscire dalla recessione e, contrariamente alle opinioni contrarie, favorisco­no la crescita.

Quindi siccome la crisi ha costretto all’aumento del rapporto debito/PIL, oltre che all’aumento dei deficit, l’uscita dalla crisi e la ripresa di un percorso di crescita im­pongono subito la riduzione del rapporto, da ottenere via tagli e tasse.

Questo sarà il contenuto di tutti i piani di Aggiustamento Macroeconomico che ver­ranno imposti ai vari paesi: Spagna, Irlanda, Portogallo e Grecia (manca l’Italia tra le I dei PIGS, ma l’intenzione è sempre stata di mettercela, come la posizione di Olanda e Germania sul MES e condizionalità oggi ha confermato).

Quindi l’affermazione che la crescita del rapporto debito/PIL debba diventare una ca­ratteristica permanente delle economie nega drasticamente uno dei presupposti delle politiche di aggiustamento macroeconomico europee considerate vincolanti e rifiuta contestualmente, per quanto implicitamente, l’uso del MES per finanziare lo sforzo di affrontare l’emergenza del coronavirus. È infatti fondamentale nella condizionalità del MES, da imporre insieme al finanziamento, la riduzione del rapporto debito/PIL. Se invece l’alto rapporto è ‘permanente’, niente condizionalità, e niente MES.

Quindi nessun rientro dall’aumento del rapporto debito/PIL. Ma ricordiamo che l’al­tro pilastro delle politiche europee è il rientro dall’aumento dei deficit dei bilanci de­gli Stati; aumento che si è reso necessario per affrontare la crisi del 2008-09, ma sarà ancor più necessario per affrontare le conseguenze economiche di questa epidemia.

Qui il rifiuto di Draghi di questo postulato intangibile delle politiche di aggiustamen­to europee è quasi irridente.

“Le guerre, le più rilevanti – scrive Draghi – sono state finanziate dall’aumento del de­bito pubblico”. E questa, infatti, è una guerra come quella che Italia e Germania, Francia e Russia, non affrontarono mediante imposte. Non solo, ma in molti paesi neppure i costi susseguenti (‘continuing cost’, dice) alla Prima Guerra mondiale fu­rono finanziati da tasse.

Penso sia inutile ricordare a Draghi le fiammate inflazionistiche dopo la Prima Guer­ra mondiale – l’iperinflazione tedesca e austriaca – e dopo la Seconda la forte infla­zione in Italia (un successore di Einaudi non può non saperlo).

Il suo punto è un altro.

Il punto è che le tasse non possono essere lo strumento per coprire lo sforzo eccezio­nale bellico perché: a) la misura non è politicamente sostenibile (nella Seconda Guer­ra mondiale, in Inghilterra, la sostenibilità politica dello sforzo fu garantita dal razio­namento), b) se le tasse le imponi dopo per rientrare dal debito, allora quello che non ha compiuto la guerra lo completa l’aggiustamento fiscale della pace.

Ma questo è esattamente il dogma europeo sottostante a tutti i piani di Aggiustamento Macroeconomico. Bisogna rientrare subito dall’eccesso di deficit mediante tagli di spesa e tasse, insieme alla riduzione del rapporto debito/PIL. È necessario per una ri­presa ‘sana’, e non fa danno (Alesina). Draghi ricorda che non si è fatto né in guerra né dopo, e che adesso lo sforzo da fare è della stessa dimensione.

Si direbbe che qui, pur senza dirlo esplicitamente, Draghi accolga le conclusioni del Rapporto del FMI del settembre 2012, che elencava le esperienze storiche di rientro dai rapporti debito/PIL post-bellici, tutte derivanti dall’aumento dei PIL, e non dalla diminuzione dei debiti.

Quindi, seppure in modo conciso e implicito, il rifiuto del ruolo del MES e delle con­dizionalità collegate, cavallo di battaglia di Olanda e Germania, è rifiutato senza mez­zi termini.

 

2. Lo stallo

Ma allora, cosa propone Draghi? Prima però di vedere le possibili soluzioni come possono derivare dai suggerimenti della sua lettera bisogna fare un passo indietro

La situazione attuale sembra di stallo. Olanda e Germania hanno rifiutato decisamen­te che il ricorso al MES, per finanziare lo sforzo anti-epidemia, possa evitare le con­dizionalità. C’era un riferimento a questo aspetto anche nel comunicato conclusivo del summit del Consiglio europeo, cosa che ha provocato il veto italiano e spagnolo; e un rinvio a soluzioni da portare successivamente.

Ma sua volta questo stallo ha caratteristiche politiche del tutto nuove.

Al consiglio europeo del 26 Marzo, infatti, è stato presentato un documento firmato da nove paesi (Francia, Italia, Spagna, Portogallo, Belgio, Irlanda, Grecia, Slovenia e Lussemburgo) i quali chiedono che, limitatamente agli interventi riguardanti l’epide­mia, vengano emessi eurobond da parte di istituzioni europee. Una linea decisamente opposta a quella tedesco-olandese.

Ma come si è potuti arrivare a una situazione mai vista prima, della formalizzazione in un documento politico di una divisione nel consesso europeo. Per di più con la Francia tra i firmatari contro la posizione tedesca a poco più di un anno dalla firma del Trattato di Aquisgrana che sembrava sancire nuovamente l’asse Franco-Tedesco come il centro politico dell’Europa presente e a venire.

Il Trattato sembrava chiudere un lungo periodo di eclissi del ruolo francese in Eu­ropa, cominciata forse con Sarkozy, ma culminata con Hollande. I rimpro­veri per la prodigalità del welfare francese si moltiplicavano, e solo il ruolo sto­rico della Francia ne impediva un declassamento mediterraneo. L’elezione di Macron ripristinava il ruolo grazie a uno scambio con la promessa di austerità interna. Promessa mantenuta, ma che come si è visto, ha creato notevoli problemi di consenso e perfino di stabilità a Macron. Il Trattato sanciva il ruolo ritrovato.

Ma le elezioni europee del 2019 riaprivano il quadro. Nonostante le dichiarazioni eu­foriche la perdita della maggioranza solidamente europeista ha fatto ripartire frat­ture sottotraccia come si è visto bene nella nomina delle cariche apicali europee. Candida­ti ufficiali pluribocciati, trattative riservate e, alla fine, la netta sensazione che Ma­cron avesse vinto la partita.

Il fatto è che, dopo il massimo di assertività egemonica come si vide nell’estate del 2015, la posizione tedesca si era logorata sempre più. Il Brexit era stato un duro colpo al progetto imperiale europeo; come si capì dalla furiosa reazione europea. Francia e Germania erano state compatte nella tattica durissima di umiliazione del Regno Uni­to, ma l’inaspettata vittoria finale di Johnson riportava in luce le differenze strategi­che tra i due paesi rispetto al Brexit sotto l’unità tattica.

Tutto questo dava luogo a conflitti sottotraccia che però non sembravano per il mo­mento essere in grado di minare l’asse. L’epidemia, ma soprattutto la risposta tedesca hanno fatto saltare il quadro.

Se guardiamo ai dati economici oggi la Francia soffre di una perdita di attività e quin­di di latente catastrofe economica più dell’Italia, pur avendo ancora un contagio di di­mensioni minori. Le prospettive francesi sono quindi nerissime. Di fronte alla grave situazione italiana e a quella francese che minaccia di essere anche peggiore la rispo­sta è stata: vi diamo i prestiti, e poi vi roviniamo. Ricordiamo, infatti, che la logica dei Fondi, e poi del MES, è sempre stata una logica punitiva. I piani di Aggiustamen­to dovevano depurare quelle economie delle conseguenze (disordine fiscale) del man­cato rispetto delle regole in passato.

L’intenzione tedesca di mettere in ginocchio gli alleati approfittando del loro stato di necessità è assolutamente evidente. Com’è evidentemente inaccettabile per tutti. E implichi un duro colpo alla minima fiducia reciproca senza la quale nessuna alleanza può esistere. Senza neppure le giustificazioni, per quanto pretestuose del post-crisi: i mercati erano in fibrillazione per i debiti di certi paesi europei, la persistenza di divari nei deficit e nei rapporti debito/PIL metteva in pericolo l’euro, c’erano state ripetute e anche macroscopiche (vedi Grecia) violazione di regole e bisognava non solo mettere ordine, ma incominciare il percorso virtuoso di convergenza verso l’Europa federale. Nessuno di questi pretesti sussiste oggi.

Dev’essere stato un brusco risveglio per l’establishment italiano la dichiarazione te­desco-olandese. Avevano accettato nel 2011 di liberarsi di Berlusconi, che rischiava di portarli in rotta di collisione con il vertice europeo, accettando serenamente l’auto-Trojka rappresentata da Monti. Ma questa dichiarazione, con la conseguenza stavolta di una Trojka vera e propria, cioè le condizionalità, faceva comparire un rischio Gre­cia, cioè che gli asset italiani più pregiati sarebbero stati messi forzatamente in ven­dita configurando un vero esproprio delle leve di comando economico dell’establish­ment italiano. E questo valeva anche per la Francia.

Questo spiega l’intervento contro la dichiarazione Lagarde al massimo livello istitu­zionale del presidente Mattarella, notoriamente garante senza riserve dell’obbedienza europea (vedi caso Savona); e quindi intervento di rifiuto ancor più significativo, con le parole che denunciavano il danno che le istituzioni europee stavano provocando al paese; dichiarazione in netto contrasto con l’usuale enfasi retorica sui benefici per l’I­talia dell’appartenenza europea, che si scopre invece essere dannosa. Intervento riba­dito contro il Consiglio d’Europa per la sua ‘inattività’. In realtà paralisi per stallo tra le opzioni sul tavolo: MES contro eurobond.

Per una strana comune casualità due paesi, Francia e Italia, che raramente hanno a­vuto rapporti non conflittuali nei decenni passati si sono trovati costretti per la ne­cessa­ria comune opposizione alla proposta tedesca a dover formalizzare questo e­vento po­litico inimmaginabile: un documento comune. Con la richiesta scandalosa della mu­tualizzazione, per quanto limitata, del debito.

Sembra abbastanza improbabile che la Germania possa accettare una qualsiasi forma e una qualsiasi dimensione di uno strumento di debito comune, cioè di cui rispondano le istituzioni europee nel loro complesso. Sicuramente, se le regole di ripartizione res­tassero quelle attuali legate al peso dei singoli paesi nel capitale dalla BCE. Ma è diffi­cile vedere quali altre regole potrebbero essere soddisfacenti.

A prima vista sembra difficile capire come uscire dallo stallo. Ma ci può aiutare esa­minare attentamente la seconda parte della lettera.

 

3. L’alternativa

Qui Draghi si dilunga nell’analizzare varie modalità tecniche di intervento delle ban­che a sostegno degli agenti economici. Disamina ampia che un po’ stupisce in un do­cumento dal marcato carattere politico (per quanto di un ambito apparentemente solo tecnico). Ma che suggerisce una crucialità del sistema bancario nell’uscita dalla crisi. E infatti bisogna di questo esame isolare due frasi cruciali.

La prima: “L’unico modo efficace di raggiungere immediatamente ogni crepa dell’e­conomia è mobilitare completamente l’intero sistema finanziario, … il mercato dei bond, per le grandi società, e il sistema bancario…per tutti gli altri”.

E la seconda: “Le banche…in questo modo…diventeranno un veicolo della politica pubblica” (c’è da pensare che col termine ‘pubblico’ qui Draghi voglia abbracciare sia le politiche statali che quelle europee). Questo perché, spiega, le banche coprono tutta l’economia, e possono creare istantaneamente moneta grazie agli scoperti di conto, nonché aprendo linee di credito.

Questo è il punto: le banche veicolo delle politiche di salvataggio. È quasi un ritorno al primo Draghi, del dicembre 2011, quando lanciò i prestiti illimitati alle banche, gli LTRO, con lo scopo evidente di metterle in grado di contrastare le vendite specula­tive sui titoli italiani e quindi abbassare lo spread. Cosa che gli riuscì per un mese o due, fino a che il Presidente della Bundesbank, Weidmann, cominciò ad attaccare fron­talmente l’idea dei prestiti ‘illimitati’, e l’attacco arrivò al punto di costringere Draghi a usare l’opzione nucleare, il whatever.

Si tratta, adesso come allora, di aggirare l’assenza di un ruolo esplicito e accettato di lender of last resort della BCE. E di usare invece il sistema bancario come centro, in­nanzitutto di ogni paese preso individualmente, per ‘mobilitare l’intero sistema finan­ziario’.

La domanda sorge spontanea: ci sono le condizioni per un tale aggiramento? Più di quanto non sembri.

La dichiarazione della Presidente della BCE, la signora Lagarde, che non era compito della BCE occuparsi degli spread, suscitò una levata di scudi. Suonava, e lo era sicu­ramente nelle intenzioni del suo più eminente suggeritore, Weidmann, a totale smen­tita della posizione di Draghi, che aveva giustificato il suo whatever con la necessità di difendere l’euro (non questo o quel paese) dalla minaccia destabilizzante per il sist­ema di un’esplosione degli spread.

La dichiarazione provocò in effetti un’impennata dello spread sui titoli italiani. Ma forse la cosa non va sopravvalutata, nel senso che non è impossibile che si sia trattato di una manovra tutta europea per ammorbidire l’Italia (come fu a suo tempo col go­verno Conte-Salvini). Cioè, a differenza che al tempo di Draghi, i mercati finanziari mondiali non sarebbero della partita.

Ed infatti le reazioni incredibilmente positive dei mercati all’annuncio della misura di contrasto della recessione da coronavirus del governo USA mostra che in questo mo­mento la loro preoccupazione è proprio sul fatto che un andamento catastrofico delle economie, distruggendo redditi presenti e futuri, rischia l’azzeramento del valore de­gli asset detenuti, in quanto capitalizzazione di rendimenti attesi. Probabilmente i mercati hanno oggi altre preoccupazioni che attaccare l’euro.

Ma col passar dei giorni, prescindendo dai riflessi sull’Italia, il senso di quella dichia­razione apparve meno chiaro. Non tanto per la smentita che, si sa, lascia il tempo che trova, quanto per le azioni annunciate dalla Lagarde stessa successivamente.

Quasi subito dopo venne annunciato un’espansione del Quantitative Easing (QE) per acquistare 750 miliardi di titoli entro la fine dell’anno. E aggiungeva: “Non ci saran­no limiti pur di salvare l’euro”. Ritornava in un modo e in un ambito abbastanza in­solito il tema dell’illimitato. E poteva colpire l’assenza di reazioni (tedesche innanzi­tutto, per l’uso di questo aggettivo tabù).

Di per sé la dichiarazione di espansione del QE poteva lasciare abbastanza freddi. Il QE, a suo tempo, nel 2015, avrebbe dovuto essere una misura di rilancio di un’econo­mia che usciva troppo lentamente dalla recessione. Come si sa il QE statunitense die­de i risultati attesi, anche se lentamente, mentre quello europeo non li diede. Per cui ci si poteva chiedere a cosa servisse un QE di fronte a una recessione potenzialmente catastrofica.

Ma forse non si teneva in conto in maniera sufficiente che, di chiunque siano i titoli comprati, il risultato è un’espansione delle riserve delle banche, cioè dei loro c/c pres­so le rispettive Banche centrali. Ma è l’espansione delle riserve delle banche ad es­sere la base di quell’espansione di moneta e credito che Draghi ritiene compito loro nel nuovo ruolo di veicolo delle politiche pubbliche. Nella nuova situazione, cioè, il QE diventerebbe il sostituto di fatto del ruolo di lender of last resort per i deficit dei bilanci statali.

Sia chiaro, Draghi non parla della e non propone la cosiddetta monetizzazione del de­bito; cioè l’acquisto diretto di titoli di stato da parte della BCE. Ma questi titoli pos­sono essere acquistati o direttamente dalle banche sul mercato primario (alle aste di emissione) in quanto investitori privati, o magari sempre dalle banche nel caso che l’eccesso di un’emissione sull’assorbimento iniziale del mercato (cosa possibile data l’entità del fabbisogno) sia stato coperto dalla Banca d’Italia, come fa anche la Bun­desbank, acquistandolo e poi piazzandolo sul mercato.

Mettendo insieme l’azione della Lagarde riguardo al QE e la modalità dell’azione del sistema bancario nell’affrontare la crisi del coronavirus, come illustrate da Draghi, può emergere un quadro com­plessivo.

A partire dall’immissione di riserve in misura ‘senza limite’ come ha detto la Lagar­de, il sistema bancario può da un lato aprire linee di credito alle imprese, e anche alle famiglie, e dall’altro acquistando titoli di Stato (non esclusivamente, potrebbero ac­quistarli anche altri investitori sul mercato) fornirebbe allo Sato la liquidità per at­tuare i vari programmi di sostegno, alle imprese ma soprattutto alle famiglie.

Questo circuito dovrebbe essere aiutato inoltre, nella visione di Draghi, da alcune mi­sure di sostegno. Innanzitutto le linee di credito dovrebbe essere garantite dallo Stato. In considerazione del costo probabilmente molto limitato del credito, questo non do­vrebbe essere limitato da considerazioni di rischio, perché il massimo rischio sarebbe sistemico e non deriverebbe in linea di principio dalle azioni delle singole imprese, le quali quindi non ne dovrebbero portare la responsabilità. Inoltre, e questo immagino possa essere intollerabile per orecchie anseatiche, bisognerà prevedere per dopo una cancellazione del debito privato.

La garanzia pubblica delle linee di credito è cruciale perché togliendo il rischio dalle spalle delle banche può rimuovere quella loro riluttanza ad utilizzare l’aumento di ri­serve come base per l’espansione del credito; riluttanza che ha sostanzialmente fatto fallire il QE del 2015. E anche la ‘cancellazione del debito’ è una misura (anche se Draghi non dà dettagli: quanto a chi, e a quali condizioni) per indurre le imprese a chiedere il credito, liberandole dal pericolo di fallimento successivo.

A queste condizioni, sponda da parte della BCE ai sistemi bancari che garantiscono finanziamenti a Stato, imprese e famiglie, a loro volta con garanzie che il peso non si rovescerebbe successivamente totalmente su di loro, la macchina monetaria così deli­neata potrebbe funzionare.

 

4. Conclusioni

Per uscire dallo stallo bisogna uscire dalle posizioni contrapposte: MES contro euro­bond. La soluzione che la lettera di Draghi in parte direttamente e in parte indiretta­mente suggerisce potrebbe essere una mediazione.

Potrebbe accettare la Germania una mediazione sulle linee così abbozzate? È possi­bile, forse. In fondo questa soluzione non violerebbe formalmente i tabù dell’euro. Non ver­rebbe affermato esplicitamente e formalmente il ruolo di lender of last resort della BCE, che è l’incubo della Bundesbank. Non verrebbe introdotta nessuna mutua­lizza­zione’ dei debiti pubblici, né in generale, né limitatamente a un obbiettivo, né to­tale, né parziale; che sarebbe l’incubo dei tedeschi.

Certo, sarebbe pesante per la Germania, e per i tedeschi, accettare che altri paesi ria­b­biano libertà di comportamento, nella paura che poi, chissà quando e chissà come, lo­ro ne debbano rispondere. Ma intanto avrebbero mano libera nell’affrontare l’e­mer­genza del coronavirus, che probabilmente potrebbe rivelarsi molto più pesante di quanto abbiano finora creduto, senza che nessuno vada ad indagare sulle segrete cose del loro sistema bancario.

Nelle more dell’emergenza dovrebbero anche accettare di rinviare sine die i temi della riforma del MES e dell’unificazione bancaria. Forse questo per alcuni settori te­deschi, quelli che vi vedevano un mezzo per ulteriormente disciplinare l’eurozona, po­trebbe essere una rinuncia difficilmente accettabile. Ma non per tutti forse. E co­mun­que se l’alternativa fosse uno scontro lacerante dello stesso progetto europeo, potreb­be esserne convinti.

Ma il fatto è che la dinamica di accelerazione federalista che a partire dal 2010 era stata lanciata prima col Fiscal Compact e poi con la recente riforma del MES e col proget­to di unificazione bancaria ha subito un colpo durissimo, con una distruzione di fidu­cia reciproca difficilmente sanabile e con la formazione di schieramenti formalizzati, anche se ancora instabili.

L’uscita dalla crisi, se dovesse avvenire con le linee che possono risultare dall’inter­vento di Draghi, è un deciso passo indietro rispetto all’accelerazione sulla via della federalizzazione. Assisteremmo a una ri-nazionalizzazione delle politiche fiscali e monetarie.

Certo, possiamo parlare di QE deciso dalla Lagarde e dalla BCE nel suo insieme. Ma chi farebbe concretamente le politiche sul terreno sarebbero le Banche centrali nazio­nali in collegamento con i governi del proprio paese, come non succedeva da almeno vent’anni (ma forse, per l’Italia, fin dall’infausto divorzio Tesoro-Banca d’Italia del 1981). Le conseguenze di questa situazione, che non si esauriranno rapidamente, ma che ci metteranno del tempo ad essere riassorbite, sono in gran parte imprevedibili.

Come possono essere in gran parte imprevedibili le reazioni delle popolazioni che prima o poi, piuttosto prima si direbbe, chiederanno conto di assetti e di politiche che le hanno messe in pericolo di vita, con la riduzione delle capacità dei sistemi sanitari di fronteggiare l’epidemia (il caso spagnolo è terrificante), e le hanno messe a rischio di indigenza e rovina, con le politiche di espropriazione delle sovranità monetarie e fiscali; nonché con la crescente deresponsabilizzazione di ceti politici e di governo ri­spetto alle popolazioni che dovrebbero legittimarli.

Nel mezzo di una crisi economica che potrebbe avere ritmi catastrofici, avan­zano sot­totraccia una crisi di legittimità della democrazia insieme alla crisi delle relazioni in­terstatali europee. Se dovessero collassare insieme nessuno potrebbe prevederne gli esiti.

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