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Economia e situazione dell’Unione Europea

di Marco Zuccaro

mmtLa crisi attuale, nata come emergenza sanitaria, avrà effetti devastanti sul piano economico e sociale, investendo la costruzione stessa della UE. Per capire cosa ci prospetta il futuro, occorre prendere in considerazione delle visioni alternative rispetto ai luoghi comuni del nostro tempo.

La MMT, spesso bollata come pseudo-scienza, è invece stata recentemente nominata nientemeno che da Mario Draghi come una nuova concezione da discutere in seno alla BCE. Perciò è possibile iniziare a ripensare alcuni concetti-guida sotto la sua prospettiva.

Per spiegare in modo semplice i principi esposti da teorie come la MMT o il Circuitismo occorre che tutti i cittadini, anche quelli che non si sono mai interessati all’economia, prendano piena consapevolezza di che cosa sia il “debito pubblico”, giacché tale argomento è stato l’assoluto protagonista della narrazione politica e giornalistica degli ultimi decenni: una vera costante, che ha finito col confondere molti.

Anzitutto va chiarito che il debito pubblico non è il debito dei cittadini, perciò ogniqualvolta ci si ritrovi a leggere che esso “pesi sulle spalle” dei cittadini (o delle generazioni future), quasi fosse un debito pro capite, si rammenti che cittadini e famiglie che acquistano titoli di debito pubblico non contraggono alcun debito privato, anzi, è vero l’opposto: divengono creditori verso lo Stato. Si potrebbe giustamente dire che al debito dello Stato corrisponda un credito di famiglie, banche, aziende, investitori e così via.

Ci si potrebbe chiedere quale sia la funzione del debito; ebbene, per rispondere a questa domanda ci si dovrebbe interrogare sulla provenienza della moneta e sul funzionamento del sistema economico tutto.

A tal proposito, per semplificare, si immagini un contesto mondiale in cui gli Stati non si indebitano, né investono, né tassano. Si immagini cioè un sistema perfettamente liberista, in cui l’iniziativa economica è saldamente nelle mani di imprenditori privati liberi di investire dove meglio credono. Ora, la moneta necessaria agli investimenti degli imprenditori viene fornita dalle banche. Certo, ci sono pur sempre i risparmi che ciascuno di noi storicamente possiede, ma tali risparmi devono pur avere una qualche origine.

Ritornando all’esempio da cui siamo partiti: gli imprenditori sfrutteranno il credito concesso dalle banche (così contraendo un debito) per investire e innovare. Dopodiché, sul mercato del lavoro, vi sarà l’incontro tra imprenditori e lavoratori/famiglie. Il denaro viene dunque “creato” dalle banche, concesso agli imprenditori e poi trasferito alle famiglie sotto forma di salari; una volta andato a buon fine il processo di produzione (l’imprenditore ha avuto il suo denaro, ha potuto pagare dei lavoratori, ha prodotto beni o servizi) non resta che osservare l’andamento dei consumi: le famiglie, grazie al denaro ottenuto attraverso i salari, potranno acquistare i beni e i servizi prodotti.

Se il meccanismo è chiaro, il quesito da porsi adesso è il seguente: come fanno, gli imprenditori, a restituire con gli interessi il denaro preso in prestito dalle banche, se hanno dovuto investire, pagare i salari e calcolare un profitto? La risposta corretta è la più evidente: non possono.

Se consideriamo gli imprenditori di tutto il mondo come un insieme unico e fingiamo in 100 la quantità di denaro ch’essi prendono in prestito dalle banche, non v’è alcuna possibilità, per essi, di restituire 101. Segue, come logica conseguenza, che un’economia realmente liberista, in cui gli Stati sono esclusi del tutto dal sistema, non funziona né può funzionare. In un mondo con quantità di moneta determinata, per così dire “fissa”, non vi sarebbe spazio alcuno per la “crescita” (l’aumento della produzione e del consumo dei beni e servizi, attuale paradigma del modello capitalista), ma solo per l’accumulo di alcuni a danno di altri (come in dei vasi comunicanti: se un vaso accumula, un altro vaso perde). Questo è un fatto che gli economisti della MMT e quelli della Teoria del Circuito conoscono molto bene.

Per rimediare a un tale blocco sistemico, aumentando la quantità di moneta circolante e rendendo possibile l’aumento di ricchezza generalizzata, i profitti e la crescita, si possono esaminare diverse soluzioni.

Si potrebbe ipotizzare che gli imprenditori, onde pagare gli interessi e parte dei loro debiti, accendano nuovamente un prestito presso le banche, e così via per altri prestiti, per tempi indeterminati. Tale ipotesi, in effetti, non risolve nulla.

Si potrebbe allora pensare di aumentare le esportazioni nette, dando vita a una politica mercantilista per cui il “nuovo denaro” giunge dall’estero: tale soluzione, oltre a favorire l’abbassamento dei salari (gli imprenditori desiderosi di esportare dovranno risultare il più possibile competitivi, e il modo più rapido per risultare competitivi è quello di abbassare i prezzi dei propri prodotti, e il modo più facile per abbassare i prezzi è quello di diminuire il costo dei lavoratori, puntando a bassi salari); peraltro, nel nostro esempio, si sono considerati tutti gli imprenditori del mondo come un unico insieme, dunque non c’è spazio alcuno per le esportazioni; si potrebbe, infine, considerare di far indebitare non tanto (o non solo) gli imprenditori, quanto (o anche) le famiglie; e ciò è proprio quel che è avvenuto negli ultimi anni, poiché si è assistito a una inaccettabile politica di contenimento del debito pubblico, l’unico strumento realmente efficace per superare il blocco evidenziato poc’anzi.

In sintesi, lo Stato emette moneta per garantire al sistema economico di funzionare, perciò ogniqualvolta si assista a dichiarazioni politiche volte a diminuire il debito pubblico, le questioni sono sostanzialmente due: o l’Economia è in forte espansione e l’inflazione rischia di raggiungere la doppia cifra; oppure, più frequentemente, non si ha alcuna vera ragione per rilasciarle.

In condizioni “normali”, non ha senso alcuno diminuire il debito pubblico, a meno che non si voglia deliberatamente impoverire la popolazione interessata, sottraendole risorse preziose.

L’indebitamento avviene in questo modo: lo Stato si avvale dei titoli (come i Buoni Ordinari del Tesoro – BOT – o i Buoni del Tesoro Poliennali – BTP) per essere attivo sul mercato della moneta, ovverosia per ottenere finanziamenti. Sul mercato dei titoli intervengono banche, assicurazioni, famiglie e investitori, sia italiani che stranieri: essi comprano i titoli e danno liquidità (cioè moneta) allo Stato. In effetti, essi “prestano” i propri soldi allo Stato. Lo Stato, in cambio, si obbliga (da ciò il fatto che i titoli siano “obbligazioni”) a ripagare gli acquirenti dei titoli entro una certa scadenza, e dietro interessi.

Lo strumento dei titoli può essere utile per “attirare” i risparmi dei cittadini e reinvestirli, facendoli fruttare con politiche di piena occupazione; o ancora, lo Stato può procedere con un’emissione perché vuol diminuire temporaneamente la quantità di moneta circolante, “spalmandola” negli anni e “indirizzandola” con maggior precisione (per esempio: più persone investono in titoli, meno denaro esse avranno per importare beni dall’estero).

Lo strumento dei titoli ha senso solo e soltanto se lo Stato che li emette ha facoltà di gestire la moneta. Nel Secondo Dopoguerra è stato proprio così: il Ministero del Tesoro emetteva titoli, ma lo Stato era titolare di un conto specifico presso la Banca D’Italia, e poteva anche servirsi di quest’ultima affinché una buona parte dei titoli venissero comperati direttamente da essa. Lo Stato emetteva titoli, la Banca li acquistava, lo Stato otteneva moneta “dal nulla”.

Se creare moneta è indispensabile – ancor più che necessario -, resta da comprendere quale sia il limite della creazione della moneta. Questo limite è nella tenuta della valuta.

È di facile intuizione, infatti, che “creare troppa moneta” non servirebbe a nulla, se non a svalutarla (è quello che è successo a Weimar, quando si pensò di stampare denaro giorno e notte per ripagare i debiti di guerra. In conseguenza di ciò, i Marchi tedeschi persero rapidamente di valore. Seguì una politica di deflazione che diede il colpo di grazia al popolo tedesco, creando così i presupposti per l’avvento di Hitler. Il resto è noto…).

Il limite alla creazione di moneta, dunque, è un limite di sistema: occorre che vi sia un equilibrio tra la moneta creata e le capacità produttive del Paese considerato. Di questo gli economisti MMT sono ben consapevoli: difatti essi non vogliono affatto “creare moneta liberamente”, e se si fosse costretti a dire qual è il carattere ch’essi privilegiano tra la politica monetaria e quella fiscale, sarebbe più corretto indicare la seconda, e non la prima. La MMT invita a utilizzare lo strumento – indispensabile – del debito pubblico perché, tramite mirati investimenti della spesa pubblica, è possibile aumentare l’occupazione e il benessere collettivo; nulla di più, nulla di meno. Ecco quindi che un problema – inesistente – di scarsità di moneta diviene un problema – esistente – di allocazione delle risorse. Del resto, la moneta non è un bene scarso e non lo è mai stato.

Un economista pro-austerity, solitamente, ribatte alla proposta della MMT con il timore di inflazione, e qui la questione si complica parecchio, in primo luogo perché questo punto è dirimente, e da esso dipende il destino di miliardi di persone (proprio per tenere sotto controllo l’inflazione, l’economista monetarista Milton Friedman ha creato un parametro, il “tasso naturale di disoccupazione”, cui purtroppo viene tuttora dato credito.

Un altro economista, M. Kalecki, direbbe senz’altro che tale parametro gode della considerazione di certi ambienti accademici per motivi più politici che economici); in secondo luogo, perché non esiste un solo “tipo” di inflazione.

Ora, gli economisti della MMT sono sensibili al tema, tant’è vero che dopo aver fissato il salario minimo e dopo aver insistito sulla necessità d’avere una ottimale allocazione della spesa pubblica, ribadiscono di essere disposti a usare la politica fiscale e quella monetaria come più convenga, per gestire l’inflazione nel modo più efficiente; purché ciò non sia preso a pretesto per rinunciare nuovamente alla politica di piena occupazione, ch’è uno dei cavalli di battaglia della teoria. A tal proposito, non va dimenticato che quel che conta è ciò che accade nell’economia reale, a discapito dei puri dati nominali. Infatti, potrebbe darsi che in un Paese con più alta inflazione il potere d’acquisto reale e la capacità di risparmio sul reddito siano fattori ben più in salute rispetto alle controparti osservate in un Paese con inflazione più bassa.

Ora che si è compreso che il debito pubblico è indispensabile, e che esso può essere pure elevato (purché bilanciato con la produzione di beni e servizi – coerentemente con il fatto che perno dell’economia non è la moneta in sé, è il lavoro), va precisato cosa significhi che il debito pubblico debba essere “sostenibile”. Il termine “sostenibile” indica la capacità, per uno Stato, di ripagare annualmente gli interessi sul debito pubblico medesimo (secondo talune stime precedenti l’attuale emergenza, l’Italia quest’anno avrebbe dovuto ripagare circa 65 miliardi); tali interessi, peraltro, non costituiscono un problema per lo Stato che può controllare la moneta (tramite finanziamento diretto della Banca Centrale). A questa affermazione, di solito, gli economisti pro-austerity tendono a far notare che non è vero che le Banche Centrali dei Paesi dotati di sovranità monetaria possano finanziare direttamente i governi sul mercato primario; il che è vero, com’è vero che tale finanziamento avviene egualmente – a tal proposito si consiglia di ricercare ciò che ha dichiarato la Banca Centrale del Canada in un report del 2015.

Nel contesto della UE si è attuata una modificazione profonda di tali assetti. Aderendo al Sistema Monetario Europeo (1979), separando il Ministero del Tesoro dalla Banca d’Italia (1981), siglando il trattato di Maastricht (1992-1993), il trattato di Lisbona (2007-2009) e il Fiscal Compact (2012), nonché introducendo il pareggio di bilancio in Costituzione (2013), l’Italia si è privata del tutto della sovranità monetaria, rinunciando a importanti strumenti di gestione del bilancio e assumendo come proprio un indirizzo politico-economico e monetario ben preciso (il pareggio di bilancio, evidentemente, si configura come principio anti-sociale e anti-economico, e se la Consulta fosse chiamata a esprimersi su di esso, sarebbe assai interessante seguire gli sviluppi del suo giudizio).

Se in precedenza uno Stato poteva effettivamente indebitarsi con “sé stesso” onde poter dare impulso all’economia reale, ora esso contrae veramente un debito, giacché opera con una moneta che non può creare secondo le sue esigenze (quel che oggi fa la BCE, acquistando una quantità limitata di titoli italiani sul mercato secondario, non è paragonabile al finanziamento diretto che poteva essere compiuto dalla Banca d’Italia).

Se prima lo Stato aveva come unico “limite” reale il rischio di iper-inflazione (ovvero di svalutazione della propria moneta), adesso si ritrova in una situazione simile a quella di qualunque azienda privata che abbia contratto dei debiti, perché ha perduto del tutto il potere di gestire la valuta (l’Euro non appartiene ad alcuno Stato, è una moneta “straniera” che gli Stati dell’UE devono prendere in prestito).

Pertanto, gli Stati membri dell’Unione Europea hanno soli tre modi per poter finanziare l’economia nel proprio territorio, aumentando la quantità di moneta circolante all’interno dei confini:

  • piazzando titoli sul mercato: il che espone lo Stato al capriccio, se non al ricatto degli operatori finanziari, i quali hanno ottenuto il potere di fissarne o quantomeno condizionarne i prezzi;
  • aumentando le esportazioni (politica mercantilista favorevole al bilancio dei grandi Stati esportatori, come Germania e Olanda, ma nociva per i lavoratori, giacché tende ad abbassare il livello dei salari);
  • diminuendo gli investimenti destinati alla tutela dei diritti sociali (letteralmente: si prende dal budget destinato allo Stato Sociale e si investe in qualcos’altro, o si trattiene).

Su quest’ultimo aspetto c’è ben poco da dire: in primo luogo, sottrarre moneta dal Welfare per riparare i bilanci pubblici (o per effettuare investimenti di tipo differente) crea diverse problematiche, e può facilmente peggiorare la situazione anziché migliorarla; in secondo luogo, è chiaro ed evidente per chiunque che negli ultimi decenni l’Italia, dopo una trafila di avanzi primari da record mondiale, è andata incontro a un progressivo smantellamento del proprio Stato Sociale. Ciò a riprova del fatto che sottrarre ricchezza ai cittadini pretendendo, con ciò, di fare il bene dello Stato, è giustappunto un’illusione, o più semplicemente una scelta sbagliata.

È lo stesso errore logico che solitamente commettono tutti gli esponenti della filosofia dell’austerità: si confondono cause ed effetti.

L’austerità non è solo (la riduzione della spesa pubblica volta a un) abbassamento del deficit; è la misura attuata da chi vorrebbe migliorare il rapporto deficit/PIL agendo, in maniera miope, sul solo deficit. È, più genericamente, la sottrazione di ricchezza, il prelievo di ricchezza da un dato contesto socio-economico.

Lo stesso tipo di fraintendimento lo si può trovare con riferimento al lavoro. Un economista pro-austerity è portato a credere che l’iniezione di liquidità possa avvenire solo mediante debito privato, perché egli è convinto, sul piano logico, che il lavoro debba “precedere” l’emissione di moneta (il che dimostra il suo terrore verso l’inflazione); un economista favorevole a politiche espansive, invece, userà la moneta per favorire la nascita e la prosecuzione di attività lavorative. Si comprende allora che le Banche Centrali non solo possono, bensì devono finanziare gli Stati, perché gli agenti privati dei mercati finanziari non hanno la possibilità di creare moneta (e l’economia ha un vitale bisogno che essa venga creata, tantopiù se la concentrazione di ricchezza, anziché diminuire, aumenta).

Possiamo concludere che l’Unione Europea sia volutamente nata per favorire un modello basato sulle esportazioni. La Germania esporta più di Italia, Francia e Spagna messe assieme; al secondo posto fra gli Stati della UE, si provi ad indovinare, sta l’Olanda (la quale fa registrare un alto debito privato, ch’è ben più pericoloso di qualunque debito pubblico “sovrano”).

Del resto, puntare eccessivamente sulle esportazioni rischia di svalutare la moneta di cui ci si serve, nel lungo periodo; porta ad esporsi alla imprevedibilità dei mercati reali esteri, giacché questi ultimi potrebbero mutare da un momento all’altro il luogo dal quale importano; infine deprime i salariati attraverso il deplorevole giuoco al ribasso della “competitività”.

Ma ciò non esaurisce la portata delle politiche comunitarie.

L’Unione Europea ha altresì inserito all’interno dei Trattati il divieto di “aiuti di Stato”, e cioè ha promosso una politica volta a proibire che lo Stato intervenga nell’economia, giustificando tale norma con la “tutela della concorrenza” fra privati.

In realtà questo divieto viene costantemente eluso o violato, ma la storia recente insegna che le istituzioni dell’Unione Europea applicano le loro sanzioni secondo il caso concreto, utilizzando perciò un criterio discrezionale più politico che giuridico.

Possiamo concludere, per quanto appena detto, che l’Unione Europea ha espressamente favorito un modello economico dominato dall’attività privata, svantaggiando al contempo il modello di economia mista promosso dal New Deal in poi (lo stesso ch’è contenuto nella Costituzione italiana del ‘48). In ciò si può intravedere una delle cause principali della stagnazione dell’Eurozona, che da diversi anni continua a crescere a ritmi inferiori rispetto a quelli seguiti da Stati Uniti e Cina.

Infine, l’unificazione monetaria dell’Eurozona non è stata seguita da una armonizzazione fiscale, e i post-keynesiani hanno già dimostrato, dal canto loro, che un sistema fondato su questi presupposti crea delle problematiche di squilibrio insuperabili. Si osservi il fenomeno del dumping fiscale, grazie al quale Paesi come l’Olanda riescono ad attirare aziende da tutto il mondo. Non a caso, Fiat FCA, Eni, Enel, Telecom, Prysmian, Saipem, Illy, Luxottica, Mediaset: sono solo alcuni dei nomi di Imprese con sede nei Paesi Bassi.

L’Unione Europea promuove, almeno sul piano teorico, il risanamento degli squilibri macroeconomici all’interno del Continente. Lo fa, per esempio, fornendo più denaro ai Paesi in difficoltà, mentre incassa maggiormente da quelli più forti. A tal proposito, si sottolinea che l’Italia è un Paese contributore netto: versa nelle casse dell’Unione Europea più di quanto riceva. Il saldo al 2019 è negativo per un ammontare di circa 38,6 miliardi (abbiamo versato alla UE quasi 40 miliardi in più di quanti ne abbiamo ricevuti). Francia, Regno Unito e Germania sono i tre contributori netti che ci precedono in tale classifica, con un saldo negativo al 2019 rispettivamente di circa 54 miliardi, circa 54,5 miliardi e 96 miliardi. Il maggior beneficiario all’interno dell’Unione è la Polonia, con un saldo attivo di ben 158 miliardi, stranamente di molto al di sopra del secondo e del terzo Paese maggiormente beneficiari, la Grecia e l’Ungheria, con circa 30 miliardi. Tali misure non hanno impedito una netta divergenza economica fra le Nazioni; perché onde equilibrare realmente la situazione occorrerebbe intervenire a favore dei tassi di interesse sui debiti dei Paesi maggiormente esposti, cioè dei Paesi con debito pubblico più elevato, così da compensare le differenze sul costo del denaro (divenuto tragicamente importante, dopo la nascita dell’Euro). Una alternativa sarebbe quella di tramutare l’Unione Europea attuale in Confederazione di Stati dotati di sovranità monetaria e libertà di bilancio, lasciando ad ogni Paese membro la possibilità di finanziare la crescita e la domanda interna (a tal proposito, tuttavia, non si può pensare di prendere il modello statunitense e di replicarlo tout court in Europa, come se nulla fosse).

I parametri della cosiddetta Austerity, ovverosia il rapporto debito pubblico/Pil al 60% e il rapporto deficit/debito pubblico al 3%, sono del tutto privi di giustificazione scientifica, o meglio: seguono il disegno e gli schemi che taluni economisti hanno ciecamente predisposto su carta, in modo eguale per Paesi assai diversi, e prescindendo dalle possibili esigenze concrete. In sintesi: si è agito in maniera illogica, ché non si può fare economia senza tener conto di esigenze e diversità, ed è vero com’è vero che abbassare il debito pubblico significa sottrarre risorse ai cittadini.

Dal punto di vista del benessere dei cittadini non è comprensibile perché si sia passati da un modello di economia mista a un modello che incentiva le privatizzazioni, proprio perché il benessere dei cittadini richiede l’intervento dello Stato, e Franklin Delano Roosevelt lo ha dimostrato.

Quanto al MES, Meccanismo Europeo di Stabilità: è sia una istituzione che un fondo. Secondo le sue regole gli Stati membri (tutti i paesi dell’Eurozona) finanziano negli anni un fondo che serva, nel caso ve ne sia bisogno, a finanziare le casse di uno Stato sotto attacco speculativo, o in difficoltà finanziaria per qualsiasi altro motivo (l’Italia si è impegnata per circa 125 miliardi).

Una volta accettato l’intervento di “aiuto”, lo Stato si impegna a rispettare ogni eventuale “indicazione” fornita dalla Troika (la Troika è composta da Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale). Tali condizioni sono sempre volte a una riduzione delle spese destinate ai diritti sociali (gli investimenti pubblici destinati alla scuola, alla sanità, alle pensioni e così via) e all’aumento delle tasse; il che è esattamente quel che non si dovrebbe fare quando uno Stato è in difficoltà.

Il MES è uno strumento coerente con l’architettura generale dell’Unione Europea, la quale, per un lato, impedisce alla Banca Centrale Europea di agire quale prestatore di ultima istanza (ciò che realmente sarebbe d’aiuto agli Stati in difficoltà); per l’altro lato, proibisce agli Stati membri di sostenere la domanda aggregata ricorrendo agli investimenti pubblici e all’aumento di moneta circolante. Detto più semplicemente: non si può “stampare” moneta per sostenere l’occupazione e gli investimenti, né può agire per tale scopo – non in modo diretto – la BCE; dunque si è creata una istituzione (una banca in Lussemburgo, fuori del diritto comunitario) che presta denaro in cambio della attuazione di politiche economiche basate sul paradigma dell’austerità. Una sorta di bail-out distorto, effettuato su scala macro-economica.

La sintesi migliore l’ha effettuata Wolfgang Münchau, editorialista del Financial Times, allorché ha detto: «l’Unione Europea non fa macroeconomia, fa credito».

Si potrebbe concludere, dunque, affermando che il MES non è un “Fondo Salva-Stati”, ma una istituzione che tutela lo status quo dell’Unione Europea, il cui sistema economico è improntato all’aumento delle privatizzazioni, alla tutela spasmodica della stabilità dei prezzi, al potenziamento delle esportazioni e all’abbassamento dei salari. Utilizzare i suoi fondi, secondo taluni professori universitari (Marco Dani e Agustín José Menéndez) renderebbe più difficile ridenominare il debito contratto (e probabilmente tutto ciò che è ad esso riconducibile), così aggravando di molto la possibilità di ritornare a una valuta nazionale.

La crisi sanitaria durerà ancora diverse settimane, mentre la crisi economica che esploderà di seguito sarà ancor più lunga e devastante. Si può ritenere che la Commissione Europea e la BCE faranno tutto quel che è in loro potere per salvare l’Euro, arrivando finanche a contraddire (temporaneamente) le proprie politiche economiche storiche, incuranti di dimostrare, così facendo, la natura fallace di queste ultime. Questo perché la struttura della moneta unica è tale che essa non può non essere il risultato finale di un progetto ben preciso.

Il MES non può rappresentare una soluzione, eppure per l’Italia, per quella che è la situazione politica attuale, non si può che prevedere una sua attivazione, accompagnata da una narrazione retorica volta a impreziosire il ricorso a tutti gli strumenti disponibili, incluso il programma OMT. In verità, le operazioni monetarie denominate OMT agiscono pur sempre sul mercato secondario, il che vuol dire che la BCE, attivandole, verserà liquidità agli istituti di credito, non ai cittadini. E gli istituti di credito, solitamente, tendono a reinvestire in borsa una buona parte di ciò che ricevono. Stando così le cose, il piccolo imprenditore dovrebbe comunque contrarre un debito privato per accedere alla nuova liquidità, e nella situazione odierna far accendere nuovi debiti potrebbe essere deleterio. Quella delle OMT è una via che tiene sì bassi gli interessi sui titoli di Stato, ma non dà vero impulso all’economia reale (a meno che non si permetta alla BCE di finanziare più o meno direttamente i Governi, ma questo è da escludersi). Inoltre, l’attivazione di MES e OMT comporterebbe comunque – e in automatico – un “programma di aggiustamento macroeconomico” votato alla più rigida austerità.

La probabile scelta del MES porterà, nel lungo periodo, a ridurre gli investimenti pubblici a favore delle privatizzazioni, fiaccando il Welfare più di quanto non sia già stato fatto negli anni passati. Diverrebbe così inevitabile avvitarsi in una triste spirale di indebitamento prolungato e stagnazione economica. Tutto ciò perché non si vuol derogare alle politiche comunitarie, distribuendo la ricchezza e favorendo una crescita omogenea basata su vera cooperazione e solidarietà.

L’economia al servizio della finanza e non dei popoli: questo è il problema.

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