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La cancellazione del debito pubblico tra aspetti tecnici e questioni politiche

di Marcello Spanò

bceEuroCon la recrudescenza della crisi pandemica in Europa si torna a parlare di politiche economiche eccezionali. Voci di corridoio riferiscono che starebbe circolando l’ipotesi che la BCE cancelli i debiti dei governi, almeno quelli aggiunti allo stock esistente fino al 2019 per fronteggiare la pandemia. Christine Lagarde smentisce e riafferma un principio cardine su cui l’intera zona euro è costruita, e che non è stato mai scalfito nemmeno nelle fasi più acute di difficoltà dei paesi membri del decennio scorso. Dichiara Lagarde: “Chiedere alla Bce di cancellare il debito pubblico sarebbe come chiedere di violare i trattati europei e penso che un punto su cui bisogna martellare di fronte a queste richieste è che i debiti vanno ripagati”. Il vicepresidente della BCE, Luis de Guindos, si è recentemente sentito in dovere di ribadire il concetto espresso da Lagarde dopo che la proposta di cancellazione è stata rilanciata dal presidente del parlamento europeo David Sassoli.

La ferma smentita della BCE e la chiusura all’ipotesi di cancellazione del debito è forse politicamente e giuridicamente doverosa: difficilmente chi riveste il ruolo di governatore della BCE potrà ammettere pubblicamente di avere intenzione di violare i trattati e lo stesso statuto dell’istituzione nel cui nome sta parlando. Eppure, è almeno da quando ha inaugurato il primo quantitative easing (QE) (2015-18), ma direi anche dal 2012, che la BCE agisce in violazione del suo stesso statuto, il quale, ricordiamolo, fa esplicito divieto alla BCE di coprire con emissione di moneta i disavanzi dei governi nazionali su base regolare.

L’acquisto massiccio di titoli del debito pubblico si rinnova con ancora maggiore discrezionalità durante la crisi pandemica, e non è irrealistico pensare che il suo destino sia di restare registrato nei bilanci della BCE a tempo indefinito, di volta in volta rinnovato a scadenza. Tutto questo lascia intendere l’esatto contrario di ciò che affermano i vertici della BCE: il cosiddetto debito dei governi nazionali nei confronti della BCE probabilmente non verrà mai restituito, anche se contabilmente potrebbe non essere mai nemmeno cancellato. La questione se la BCE cancellerà o meno il debito dai suoi bilanci, dal punto di vista della stretta razionalità economica è piuttosto oziosa. Fintanto che la BCE è disposta a generare liquidità a disposizione della spesa in disavanzo del settore pubblico, il fatto che a tale creazione di liquidità corrisponda una raccolta più o meno elevata di titoli del debito pubblico nei suoi bilanci, dal punto di vista degli effetti reali, non ha conseguenze tangibili. La cancellazione ha come conseguenza che una parte del debito di un governo nazionale nei confronti della BCE non esisterebbe più dal punto di vista contabile, mentre col mantenimento dell’attuale stock di titoli, il debito continuerebbe a esistere come scrittura contabile, ma resterebbe fittizio. Si tratterebbe, in quest’ultimo caso, di una monetizzazione de facto del debito pubblico, pur non essendo una monetizzazione de iure. D’altra parte, nemmeno la Bank of Japan dichiara esplicitamente di volere monetizzare permanentemente il debito pubblico, sebbene continui a mantenere e ad accrescere nei suoi attivi di bilancio massicce dosi di titoli del debito pubblico che viaggia intorno al 250% del Pil giapponese.

La scelta di cancellare o meno il debito pubblico, tuttavia, può essere di cruciale importanza dal punto di vista politico, per le ragioni su cui tornerò più avanti.

Il rilancio della proposta di cancellare il debito pubblico da parte Sassoli ha dato un ulteriore impulso alle voci che circolavano già prima e ha portato la questione all’attenzione delle prime pagine dei giornali. Dell’inevitabile ondata di polemiche e reazioni è bene liquidare brevemente quelle decisamente scomposte e fuori luogo, per discutere quelle più razionali. Tra le reazioni scomposte si annoverano quelle di coloro (De Romanis, Calenda), che sostengono che la cancellazione del debito pubblico equivale a una riduzione dei crediti privati, con conseguente aggravamento della crisi causato da un effetto ricchezza negativo (un taglio delle posizioni attive nello stato patrimoniale dei creditori genererebbe minori spese, quindi minore domanda aggregata e ulteriore compressione della produzione). Si potrebbe aprire il dibattito su quanto sia importante l’effetto ricchezza negativo appena descritto, paragonato all’effetto positivo generato dalla liberazione di una parte consistente degli oneri per interessi della spesa pubblica, che potrebbero essere destinati alla spesa sociale e agli investimenti anziché alla remunerazione di rendite finanziarie. Tuttavia, l’argomentazione va liquidata con un’osservazione molto più semplice: la cancellazione dei debiti del Tesoro andrebbe a intaccare gli attivi della BCE, non quelli dei creditori privati, quindi l’obiezione è fuori luogo.

Parliamo allora delle conseguenze della cancellazione sul bilancio e sull’operatività della BCE. Tommaso Monacelli, sulla voce.info, sostiene che il problema centrale della cancellazione sarebbe la perdita di bilancio della BCE. Questa perdita verrebbe a sua volta trasmessa ai governi in una partita di giro che renderebbe il gioco privo di senso. Vi sono due aspetti da sottolineare su questo tema.

Se per perdita di bilancio si intendono i mancati profitti della BCE per il servizio del debito sovrano, non possiamo omettere dall’analisi la contestuale mancata erogazione di interessi passivi da parte dei governi. Anche questa fa parte della partita di giro, dal momento che gli interessi incamerati dalla BCE per il servizio del debito costituiscono proprio quella fonte di profitti che con la cancellazione verrebbe a mancare, e che non verrebbe più redistribuita ai governi. Avremmo dunque meno profitti distribuiti alle banche centrali nazionali, e quindi ai governi, a fronte di una minore spesa pubblica per interessi da parte dei governi.

Un secondo modo di intendere le perdite fa riferimento al capitale netto della banca centrale. Con la cancellazione di una parte delle attività, la BCE si troverebbe con uno squilibrio fra attivi e passivi, quindi con un capitale netto negativo. Ma in che senso questa conseguenza sarebbe un problema? Il capitale netto negativo non viene trasmesso ai governi, se non in conseguenza di una scelta di ricapitalizzazione, che non è per nulla necessaria. Se il timore è quello di un rischio di fallimento della BCE, allora è mal fondato: a differenza di una banca ordinaria, una banca centrale che registra capitale netto negativo non può fallire. Come argomenterò fra breve, il capitale negativo non compromette in alcun modo la capacità della banca centrale di eseguire le sue normali operazioni. In linea di principio, non esiste alcun problema tecnico che impedisca a una qualsiasi banca centrale di operare a tempo indefinito con un capitale netto negativo. La ricapitalizzazione sarebbe semmai da concepire come una questione legata all’immagine di autorevolezza, di credibilità dell’istituzione e in definitiva alla sua capacità di controllare le aspettative di mercato. Non si tratta di una necessità che ha a che fare con l’esistenza dell’istituzione. La pandemia invece ha a che fare con l’esistenza, sia delle singole vite umane che dello stesso tessuto economico e sociale, e questa considerazione dovrebbe avere un peso non irrilevante nella scala delle priorità, quando si riflette sulle politiche economiche più appropriate.

Veniamo dunque al tema dell’operatività della BCE in caso di cancellazione di una quota consistente di titoli del debito pubblico. Sostiene Monacelli che, con la cancellazione del debito negli attivi della BCE, quest’ultima si troverebbe privata di un canale tradizionale con cui emette e ritira moneta. La questione riguarda più il drenaggio che l’immissione di liquidità. Per immettere moneta liquida, infatti, la BCE potrebbe sempre comprare titoli di nuova emissione, ma come potrebbe drenare moneta dal sistema economico se non può vendere titoli che non ha più? A questa obiezione avanzerei due risposte articolate su due piani diversi.

Su un piano prettamente pragmatico, inviterei a riflettere su come avrebbe fatto la BCE a “ritirare moneta” prima di accumulare uno stock elevato di titoli come quello accresciuto nell’anno della pandemia. Dirò di più: come faceva la BCE a “ritirare moneta” prima del 2015, quando ha cominciato ad accumulare titoli del debito pubblico su base regolare inaugurando un triennio di QE? Molti di coloro che si scandalizzavano dell’espansione anomala dei bilanci delle banche centrali mondiali, adesso considerano invalidante per l’operatività della banca centrale l’ipotesi che questi bilanci vengano riavvicinati ai livelli pre-2008?

La seconda risposta, che è quella vera, muove sia da considerazioni teoriche che dalla presa d’atto del reale funzionamento delle istituzioni monetarie. La BCE non funziona come spiega il manuale di economia del primo anno di università. Non emette moneta (esclusivamente) in cambio di titoli del debito pubblico acquistati sul mercato aperto. Nel sistema istituzionale vigente nell’area euro, esiste un canale di creazione di tipo “overdraft” (affiancato a quello “asset-based”, che è l’unico raccontato nei manuali). Si tratta di una linea di credito tra banca centrale e banche ordinarie, a cui queste ultime attingono senza alcun bisogno di cedere titoli. La banca centrale emette riserve bancarie (una passività ad uso delle banche ordinarie) oppure banconote (una passività ad uso di soggetti non bancari) e a fronte di questa emissione registra un credito (un attivo) nei confronti della banca ordinaria che ne fa richiesta. Questa operazione non implica alcuna transazione di titoli. Non solo, ma anche se si considera il caso della transazione di titoli, come negli anni del QE, l’emissione di moneta legale nella forma di riserve bancarie, in cambio di titoli acquisiti dagli attivi delle banche ordinarie, non si traduce automaticamente in moneta circolante al di fuori del sistema bancario. Affinchè la creazione di moneta a disposizione del pubblico non bancario avvenga, è necessario che le banche creino nuovi depositi (moneta bancaria) attraverso l’erogazione di nuovi crediti. La creazione di moneta da parte delle banche ordinarie è un atto distinto e non direttamente dipendente dalla creazione di moneta legale da parte della banca centrale (diversamente, il QE avrebbe generato un’espansione abnorme di crediti e una crescita economica senza precedenti). Ne consegue, e questo è l’ultimo nodo critico da esplicitare, che la banca centrale in realtà non controlla affatto l’offerta di moneta che circola nel sistema economico. Questa è una grandezza che si determina endogenamente, come ormai è generalmente riconosciuto anche da diversi economisti non particolarmente propensi alla critica (tanto che ultimamente si sono ritrovati a riscrivere i loro stessi manuali). Invece, lo strumento a disposizione della banca centrale per frenare l’economia che corre verso un eccesso d’inflazione (ma, dato il contesto pandemico, stiamo davvero parlando del sesso degli angeli) è il controllo dei tassi d’interesse a breve termine, a partire da quello a cui le banche prendono in prestito presso la banca centrale. Questo viene deciso indipendentemente da quanti titoli del debito pubblico la banca centrale registra tra i suoi attivi. Ne consegue che l’operatività della banca centrale non verrebbe compromessa dalla cancellazione del debito pubblico, neanche se fosse totale.

Vengo adesso alle considerazioni di tipo politico, che sono quelle che contano davvero, e che spesso restano nascoste fra le righe.

Se, sul piano della stretta razionalità economica, tra cancellare il debito o mantenerlo assorbito nei bilanci della BCE non vi sono conseguenze rilevanti, sul piano politico la differenza è più significativa. La differenza tra i due casi è la stessa che passa tra un individuo che tiene una pistola nel cassetto ma sceglie di non usarla, e uno che invece sceglie di non tenere la pistola. In entrambi i casi il soggetto non spara; nel primo caso, però, potrebbe sparare. La distinzione, mentre è poco rilevante in qualsiasi paese in cui banca centrale e tesoro hanno rapporti fra pari, è invece cruciale per la zona euro, dove la banca centrale è un’istituzione sovranazionale cui non corrisponde un’autorità politica di pari grado gerarchico.

Fuor di metafora, perché la banca centrale, con i titoli del debito pubblico registrati tra gli attivi, potrebbe sparare? Semplicemente perché, qualora in un paese membro il parlamento esprimesse una maggioranza non allineata alla volontà espressa dalla stessa BCE, quest’ultima avrebbe modo di tornare a rivalutare l’idea enunciata da Lagarde a inizio mandato, e poi subito rimangiata, secondo cui il compito della BCE non sarebbe quello di controllare gli spread. Anche in occasione della proposta di cancellare il debito, la governatrice ha ritenuto di dovere “martellare” il concetto che “i debiti vanno ripagati”. Il concetto che viene martellato si traduce molto prosaicamente così: il debitore deve restare in una condizione di ricattabilità, un’opzione che, finchè il debitore si comporta bene, non viene esercitata, ma che deve restare a disposizione della BCE in caso di ostilità piccole o grandi.

L’intera unione monetaria europea, come diversi critici hanno ampiamente evidenziato, è stata costruita intorno all’idea che l’intervento pubblico in economia dovesse essere fortemente contenuto. A questo fine, la BCE è stata dotata di uno statuto che proibisce il sostegno monetario alle politiche fiscali in disavanzo su base regolare e non le attribuisce un ruolo di prestatore di ultima istanza nei confronti dei governi dei paesi membri. Di fronte alla crisi degli spread (2010-12), la BCE si è trovata nella necessità di assumere un ruolo che per statuto le sarebbe precluso, e di dare un segnale di forza e di disponibilità a salvare i paesi che incontravano difficoltà a reperire fondi sui mercati finanziari per le proprie politiche economiche. Ma per salvaguardare lo spirito del mandato statutario, nell’enunciare la svolta interventista del 2012, la BCE ha ritenuto di dovere al contempo arrogarsi il ruolo di autorità sovranazionale disciplinante, e di assicurare i creditori (e i governi che li rappresentano) che ogni azione di salvataggio sarebbe stata condizionata all’esecuzione di programmi di austerità fiscale da parte del paese che voleva essere salvato.

Il ruolo disciplinante che la BCE si è progressivamente attribuito non va considerato sovrapponibile al principio di indipendenza della banca centrale per come è osservabile nelle economie nazionali del resto del mondo conosciuto. Non esiste alcun luogo al mondo in cui una banca centrale può imporre al governo l’esecuzione di una politica fiscale contro la sua volontà minacciando di destabilizzare o paralizzare il sistema dei pagamenti, come ha fatto e può ancora fare la BCE nei confronti dei paesi membri. All’atto pratico, a far data dalla famosa dichiarazione di Draghi che ha posto fine alla crisi degli spread (luglio 2012), nel giro di pochi anni i rapporti fra i paesi membri dell’unione monetaria sono via via degenerati in una dinamica molto simile a quella che regola i rapporti fra paesi in via di sviluppo indebitati in dollari e il Fondo Monetario Internazionale, che con i suoi programmi di salvataggio garantisce ai creditori la solvibilità dei paesi debitori, e al contempo sottopone questi ultimi a piani di rientro dalle conseguenze sociali devastanti. Il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) – un altro istituto sconosciuto al di fuori dell’area euro – è stato elaborato in questo contesto, e la presunta assenza di condizionalità della sua versione pandemica non è sufficientemente chiarita da regole scritte nero su bianco. Il programma di QE, attivato dalla BCE nel 2015, non è nemmeno esente da questa logica: basti pensare che, poco prima di inaugurarlo, la BCE decise, del tutto discrezionalmente, di escludere dal programma di acquisto di titoli proprio quelli del paese il cui neoeletto governo, in quel preciso momento, era apertamente ostile, riottoso alla genuflessione di fronte ai paesi creditori e pericolosamente vicino al ripudio del debito. Vista in questa prospettiva, la motivazione di escludere i titoli del debito greco dagli acquisti della BCE in ragione del loro profilo di rischio ha ben poco di scientificamente fondato e molto di politicamente fondato.

Alla luce di queste considerazioni, una discussione pubblica sull’opportunità o meno di cancellare il debito da pandemia dai bilanci della BCE, anziché avvitarsi in argomentazioni tecnicistiche, tutte da dimostrare, sui presunti danni economici per la BCE o per i governi o per i creditori o per l’ecosistema o per il movimento degli astri, deve interrogarsi sul nodo politico che l’ipotesi della cancellazione solleva, da cui non può essere omessa una riflessione esplicita sulle contraddizioni su cui intera architettura dell’unione monetaria è stata costruita, oltre che sulla deriva da asino di Buridano (carote in cambio di bastonate) che ha preso nell’ultimo decennio. Abbiamo una banca centrale che, almeno dal 2012, si dota di strumenti per disciplinare i paesi membri in caso di comportamenti devianti. Lo dichiara implicitamente quando ribadisce che i debiti vanno ripagati, pur sapendo che probabilmente non lo saranno mai. Lo lascia nuovamente intendere quando suggerisce l’ipotesi di allentare il programma di acquisto titoli in tempi di pandemia se i paesi membri rifiutano di aderire ai piani di salvataggio predisposti in sede europea (come il MES o la parte del Recovery Fund a debito). Nel riflettere sui difficili rapporti fra banca centrale e paesi membri o dei paesi membri fra loro, dovremmo anche ricordare che nel corso della Storia il dogma del ripagare i debiti è stato disapplicato in diverse occasioni, con grandi benefici sia per i debitori che per i creditori. A coloro che hanno sostenuto che con la pandemia siamo entrati in un’economia di guerra, ricorderei anche che quando i debiti di guerra non vengono cancellati, almeno de facto se non proprio de iure, rischiano di trascinarsi dietro un’altra guerra.

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